Due parole sul blog

Se pensate che qui si parli di Fate, Elfi e Creature simili, beh, avete ragione.
Quasi.
La verità è che qui la vera protagonista è la Terra, com'è o come avrebbe potuto essere se...Se l'uomo non fosse com'è, se si fosse evoluto diversamente, se le cose fossero andate in un altro modo...

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Su, su, guardate, guardate...

Come Polvere Nel Deserto 3


Mentre raccontava, Marabel si era messa a lavare i piatti al posto mio e io la fissavo come una scema seduta sul bracciolo del divano, dal momento che la parte apposita era occupata dai gatti.
Il cane no: Grigno aveva dovuto accontentarsi dello stuoino, spodestato dai due felini.
L’idea di mollare Franco a Sainte Marie e scappare nel Montana continuava a ronzarmi in testa sempre più insistentemente, mentre cercavo di raccapezzarmi in quel groviglio di sentimenti.
Nelle ultime due, tre ore, avevo praticamente dimenticato il Faraone, distratta da quella storia così divinamente umana.
Non volevo che Marabel si allontanasse dal Faraone, volevo che lo trovasse, che potesse essere per sempre con lui, eppure ora ero in lutto per la fine della sua storia con Floyd.
Ed ero costernata: era possibile distruggere il rapporto con un intero popolo, solo per uno sfogo di disperazione? Possibile che le cose, tra lei e loro, non fossero mai più state come prima? E Floyd? Che ne era stato di lui, dopo l’orso?
“E…poi? Che è successo a Floyd, in seguito?”

Si asciugava le mani appoggiata al lavandino, sorrise amara: “Non lo so. Non chiesi mai più niente e loro non mi dissero niente. Avevo ancora, avvolta in una pezza di seta azzurra, la penna di corvo che mi aveva dato la sera della Cerimonia. La andai a prendere e la resi a Robert: non potevo tenerla, non potevo nemmeno guardarla. Faceva male. Non avevo mai nemmeno il coraggio di aprire quel cassetto per il timore di vedere il sottile involto blu che mi faceva tornare tutto alla memoria.
Robert la prese e la portò via. Non so che ne abbia fatto: tornò un paio d’ore dopo e restò a farmi la guardia nei giorni seguenti, finché mamma e papà non tornarono da Boston.
Sai, era un gran bell’uomo, molto affascinante, sensuale, interessante,  aveva appena undici anni più di me, ma era anche profondamente corretto. Nonostante io gli dicessi che poteva usare la stanza dei miei, o il letto degli ospiti, rimase sempre a dormire sul divano, con una discrezione che non ho mai trovato in nessun altro.
Conoscevo Robert da quasi due anni, ma solo in quei giorni ebbi modo di scoprire cose su di lui che mi fecero ancora più rimpiangere la lite con Maggie.
Sai quanti Nativi muoiono letteralmente di crepacuore, ancora oggi? Non hanno bisogno di suicidarsi, tante volte, né di morire di diabete o delle disfunzioni renali che li affliggono da oltre un secolo. Muoiono perché si portano dentro troppo dolore per una sola persona, qualcosa di così grande che non può stare tutto lì dentro, come aveva detto una volta Floyd.
Robert era vivo, vivissimo, per carità, ma si portava dentro uno di quei dolori.”
“Me lo racconti?” improvvisamente sentivo il bisogno fisico di saperne di più, anche se ero certa che avrei avuto incubi per il resto dei miei giorni.
Marabel rifletté per un po’, la vidi deglutire un paio di volte, con lo sguardo verso terra.

“Un giorno tornai dal lavoro e lo trovai seduto sul divano, al buio, a fissare il vuoto. Mi avvicinai e mi accorsi che stava piangendo. In silenzio, le spalle curve, sembrava più vecchio di dieci anni almeno. Gli chiesi cosa fosse successo, sai, temevo ci potesse essere di mezzo Floyd, ma non era così.
“Pensavo fosse mio figlio” sussurrò. “Non era lui nemmeno questa volta”
Non capivo di che stesse parlando: “Robert, tu hai un figlio?”
Così mi raccontò, spiegandomi anche le sue improvvise sparizioni, quando partiva senza preavviso e tornava, a volte dopo giorni, ogni volta più triste e sconfitto.
Era sposato, anni prima, e aveva due bambini. Sua moglie era un’attivista Lakota, credo Lower Brulé, e lavorava nel sociale, occupandosi dei più abbandonati e disperati.
Andava con un piccolo furgone traballante lungo le highway in Nebraska e South Dakota, dove raccattava coloro che morivano in mezzo alla strada.
Un lavoro duro, perché spesso non trovava che corpi abbandonati di cui niente e nessuno si curava, mentre le auto continuavano a sfrecciare indifferenti, come non fossero stati esseri umani, ma sacchi di spazzatura.
A volte erano ancora vivi, magari solo per un soffio, il tempo di tenere loro la mano e vederli andare via, molto spesso…soltanto poveri mucchietti di stracci abbandonati nella polvere.
Lui aveva un ruolo più politico, ma a volte collaborava con lei e il suo gruppo.
Un giorno, mentre Robert era lontano, i federali andarono a casa sua con un mandato che privava lui e la moglie della patria potestà sui bambini…non c’era un motivo, lo facevano, lo fanno ancora, spesso.
Strappano i piccoli alle loro famiglie con qualche scusa e poi li mandano chissà dove, in collegi o in famiglie solitamente bianche, perché siano adottati e non scoprano mai chi sono. Loro erano attivisti, era un motivo sufficiente.
La moglie oppose resistenza, riuscì a barricarsi in casa, ma i federali sfondarono la porta e uccisero lei e il bambino di sei anni, portando poi via il più piccolo, che non aveva ancora un anno.
Robert mosse mari e monti per ritrovarlo, ma fu sempre tutto inutile.
Pareva volatilizzato.
A volte c’erano segnalazioni, bambini che potevano corrispondere come età, lineamenti, provenienza, insomma, lo chiamavano ogni volta che si ritrovava un bambino che potesse essere di etnia Lakota o Cheyenne, e lui correva, anche se doveva attraversare tutti gli Stati Uniti, ma ogni volta non era lui, e ogni volta tornava più stanco e più scoraggiato.
L’ultima volta che ci siamo visti, nel ’98, lo stava ancora cercando, cocciutamente e inutilmente. Raramente, molto raramente riescono a ritrovarli…”
“Sapevo che non mi sarebbe piaciuto…” dissi dopo un lungo silenzio.
Lei era ancora là, con lo strofinaccio tra le mani a fissare il mio pavimento.

“No, non so che ne sia stato di Floyd” riprese dopo un momento. “Sicuramente l’autunno seguente tornò al College, sicuramente si sarà di nuovo laureato con il massimo dei voti. Chissà, forse insegna là, ora, anche se…non so, non me lo vedo molto in giacca e cravatta a fare il prof.
Sarà cambiato, dopo quasi trent’anni…a volte cerco di immaginarlo. Si sarà lasciato ricrescere i capelli, chissà se ha comprato delle terre per la sua Gente, se è uno Stregone, come diceva lui, o se ha imparato a lasciarsi chiamare Medicine Man…se ha trovato la compagna che meritava, se ha bambini, belli e intelligenti quanto lui…sono così belli i loro bambini…
Avrà delle rughe, i capelli saranno un po’ ingrigiti; non credo sia ingrassato, era troppo atletico, ma cambiato, si, per forza lo sarà. Oh, beh, forse un pochino di pancetta potrebbe averla, però sono sicura che sia ancora bellissimo.”
“Era così bello?” lei mi guardò con un sorriso sognante: “Era più bello di Michael Greyeyes” disse in un sospiro. Sgranai gli occhi scandalizzata: “Blasfema! Nessuno è più bello di Michael Greyeyes!” lei mi guardò maliziosa, con un’espressione che la faceva sembrare una ragazzina: “Floyd si.”
D’accordo, d’accordo…non poteva essere obiettiva, lo aveva detto lei stessa.

Bene. Avevamo chiuso quella parentesi. Sospirai profondamente: non lo avrei più nominato, anche se avrei continuato a pensarci. E comunque volevo andare nel Montana.
“Robert diceva che avresti dovuto riprendere le regressioni e cercare altre vite. Tu che hai fatto?”
Marabel sedette e io, visto che non erano ancora le dieci, presi un pentolino e ci misi l’acqua per preparare uno scandaloso caffè solubile.
“Un po’ alla volta mi ripresi. Non tornai mai a Boston, non ci sono tornata nemmeno quando sono mancati i miei genitori. Vedi, loro avevano poi comprato la casa che inizialmente presero in affitto e la tennero anche quando tornammo a vivere in Europa. Ci tornavano spesso, io mai. Se eravamo negli States, me ne stavo a New York, tra le luci e il frastuono di una vita che non dorme mai e che detestavo.
Poi, qualche anno fa, mi resi conto di avere ancora una casetta, ormai di mia proprietà, in un tranquillo quartiere periferico di Boston, con giardino, soffitta, garage. Doveva essere piena di ricordi…scrissi una lettera a Maggie tramite il mio avvocato in cui la pregai di venderla e tenere tutto quello che ritenesse importante o utile per lei, il resto non lo volevo.
Lei se ne occupò, mandò il ricavato e io le lasciai il venti per cento, oltre a tutto ciò che aveva voluto tenere per sé, per Robert, o per chi voleva.”
“Ma allora, non li vedi da un sacco di tempo! Nemmeno Maggie?”
Lei sembrò riscuotersi dai suoi pensieri, come spesso accadeva: “Cosa? Oh, no, no, non la vedo da parecchi anni, ma…no, lei la vidi ancora, anche Robert, te l’ho detto. Lui lo vedevo quando ero a New York, dove soggiornava spesso per lavoro, quanto a Maggie venne con noi in Egitto, pochi mesi dopo questa storia. Il vecchio Jack, invece, morì un paio di anni dopo. Pover’uomo, non ce l’ha fatta ad arrivare a cent’anni.
Ad aprile decisi di tornare a Londra e feci diverse lunghe chiacchierate con l’ipnotista. Niente sessioni, solo chiacchiere che dovevano servirmi ad elaborare il lutto per la mia separazione.
Erano passati due anni esatti dal nostro ultimo incontro. Gli dissi anche dell’idea di papà, sai, di fare questi seminari sulle vite precedenti, e lui parve perplesso, ma interessato. Riteneva che questi corsi non fossero, in generale, molto attendibili, ma erano meglio di cose come sedute medianiche, per esempio o altra roba dove c’è qualche millantatore a dirti cosa dovresti essere stato.
Per quanto mi riguardava, ero sufficientemente allenata e addentro a questi argomenti da poter dominare agevolmente le situazioni, così decidemmo di iscriverci al seminario di settembre, e di fare un viaggio in Egitto a maggio.
Non è la stagione migliore per gente abituata a climi tendenzialmente freddi, ma l’alternativa era aspettare l’autunno e io avevo già perso troppo tempo. Inoltre, Eva…io non sapevo come sarei stata l’autunno seguente.
A dire il vero, l’idea che proprio a settembre avrei fatto quel seminario, in concomitanza con l’anniversario del mio incontro con Floyd, mi spaventava.
Però pensavamo anche che mi avrebbe distratta.
Così, a metà maggio, ci incontrammo con Maggie all’aeroporto del Al Qahirah.
Io mi sentivo molto a disagio: avevo caldo, l’Egitto mi dava sempre quel senso di chiusura allo stomaco, mi sentivo molto disorientata dopo due anni lontana da qualsiasi cosa riguardasse quel mondo, e infine rivedere Maggie mi faceva tornare alla mente i mesi precedenti. E anche la nostra litigata.
Lei si comportava come nulla fosse. Non parlò mai di Floyd, né della cerimonia, né di qualsiasi cosa potesse infastidirmi o ferirmi, né fece mai il minimo cenno alla nostra lite o alle mie cattiverie.
Io ero uno straccio.
Avevamo in programma di partire per l’Alto Egitto di lì a pochi giorni. Avremmo risalito il Nilo in nave, facendo tutte le tappe obbligate dei tour turistici.
Robert, che per impegni lavorativi non era venuto, almeno così diceva (io sospetto che non volesse impormi anche la sua presenza, oltre a quella di Maggie, che avrebbe potuto crearmi altro stress), riteneva che ripercorrere una strada che avevo fatto tante volte, dovesse risvegliare in me sensazioni e ricordi, magari veri e propri flash back.
In ogni caso ci fermammo al Al Qahirah diversi giorni, con in programma di studiare a fondo il Museo Egizio.

Il primo giorno mi fermai di botto davanti ad una sala, incapace di fare un passo oltre l’ingresso: mentre facevo per entrare sentii una sorta di vertigini e restai bloccata, immobile sulla porta, come paralizzata. Maggie e papà entrarono e, poco dopo, tornarono dicendo che c’erano molti reperti del Faraone Fanciullo, in particolare la grande statua funeraria in seguito usurpata da Ramsess Il Grande.
Era importante che io entrassi, ma temevano che vedere quegli oggetti potesse farmi stare male in modo palese, davanti a tonnellate di turisti, così andammo via e, per il resto della giornata, Maggie mi preparò ad uno stato di calma e distacco con metodi simili a training autogeno e meditazione, associati a canti, fumigazioni e preghiere più tradizionali.

Ci sentivamo tutti molto strani, perfino mamma: era come se quelle pratiche di una cultura lontana e, per quanto ne sapevamo, aliena a quella che ci ospitava, mescolandosi producessero un effetto ipnotico e psichedelico.
Mentre osservavo le pareti della stanza tremolare e svanire davanti ai miei occhi lasciandomi sospesa nel nulla, desiderai fortemente la presenza di Floyd. Desiderai prenderlo per mano e sentirmi al sicuro, qualsiasi cosa ci fosse oltre la nebbia che si srotolava attorno a noi.
Non c’era Floyd, oltre la nebbia.
C’era qualcosa di estraneo e allo stesso tempo familiare: un mondo verde e sconfinato in cui correvano animali simili a cavalli, e piramidi immense circondate da laghi e foreste, fiumi profondi dalle acque azzurre e grandi uccelli. Farfalle blu a sciami ci circondavano.
Una piramide, che dalla forma ricordava quelle Maya, terminava con un grande terrazzo sormontato da una cupola sul quale era un giovane uomo assorto nella contemplazione della vastità verde ai suoi piedi.
Aveva lunghi capelli scuri che scendevano lungo le spalle, ma, mossi dalla brezza si agitavano mollemente attorno al viso dagli zigomi alti e marcati, a tratti nascondendolo e scoprendolo. Aveva la pelle di un colore bruno caldo, come bronzo un po’ brunito.
Indossava una tunica indaco fermata da una larga cintura che mi parve oro massiccio e pietre rosso aranciate, forse Corniole dal colore intenso, ma, mentre il vento dispettoso giocava con quei capelli, scoprì un grande orecchino di Turchese.
Avrei voluto avvicinarmi tanto da guardarlo negli occhi, ma potei vederne solo il taglio elegante e allungato, socchiusi nell’atto di osservare in lontananza.
Sembrava in attesa di qualcosa o qualcuno e fissava intensamente una lunga strada bianca. Quando alzò un braccio per tirare indietro i capelli, la manica scivolò mostrando un largo bracciale d’oro a forma di cobra.
Mi sentii precipitare, il mondo verde scomparve, ero rivoltata a testa in giù in un buio siderale punteggiato di stelle. Il vuoto pareva avere una forma trasparente, affilata, che mi resi conto essere una piramide rovesciata che, pur speculare all’altra, non era sotterranea, ma si affacciava sull’Universo o su UN Universo. Non so se fosse fisica, formata da un materiale trasparente, o fosse una forma di energia solidificata.
 “Oh, mio Dio!” disse la voce di Maggie.
L’odore di salvia mi avvolse, mi ritrovai seduta a terra nella stanza d’albergo, con un capogiro da manuale. Le facce attonite dei miei compagni mi rispecchiavano, ci guardavamo l’un l’altro increduli e forse un po’ spaventati.
“Che è successo?” disse mamma esitante. I nostri occhi puntarono Maggie: “Ah, no, non guardate me, io non ho fatto niente!” protestò.
“Ma…” disse  mamma: “Quei cosi, quegli uccelli, sembravano pterodattili con le piume! Non è possibile!”
“Già” convenne Maggie: “E c’erano cavalli, grandi mandrie. Non ci risulta che l’anello di congiunzione tra rettili e uccelli abbia abitato la terra in contemporanea con i cavalli.”
“E c’erano costruzioni” intervenni io: “Elaborate. Una civiltà evoluta dall’aspetto simile alla tua Gente e con gli abiti da antichi Egizi o Sumeri o…Che film era?”
Papà se ne stava sdraiato sul tappeto a pancia in su, con un sorriso ebete stampato in faccia: “Pterosauri, tesoro…direi Quetzalcoatlus e  Nyctosaurus, tra le specie più recenti e molto più simili ad uccelli. Non avete visto quella cresta sottile e lunghissima? E i voli acrobatici? Deve per forza essere Nyctosaurus! Si suppone che alcune specie di questi rettili volanti avessero sviluppato una specie di pelliccia per mantenere caldo il corpo e dare loro la possibilità di lunghi voli, una grande resistenza e il Quetzalcoatlus è stato uno dei più grandi e superbi esseri volanti mai esistiti…e adesso scopriamo che erano grandiosi uccelli colorati…Meraviglioso! Assolutamente, divinamente meraviglioso!” commentò.
“Papà!” intervenni, interrompendo i suoi sogni: “Ti rendi conto che è una visione e che non sappiamo né se abbia qualche fondamento di verità, né dove o quando abbiamo guardato?”
Lui non mi ascoltava, sognante: “Potrebbe essere tutto vero…quei colori! Quella maestria nel volo! Molti pensano che fossero piuttosto goffi, abili a planare, ma non grandi volatori, invece…si, doveva essere davvero così!”
Ci voltammo tutte e tre a guardarlo: “Oh, suvvia, donne! Ci sono decine, centinaia di strani punti in comune tra popoli per i quali, teoricamente, era impossibile qualsiasi contatto! E costruzioni apparentemente poco logiche e funzionali che appaiono in lungo e in largo praticamente per tutto il pianeta” Lasciò correre lo sguardo su di noi: “Sarebbe fantastico. E tornerebbe con le cose che ha visto spesso Marabel, in regressione o in sogno.”
“Io non ho mai visto niente del genere!” protestai.
“No? E l’esperienza che abbiamo avuto nel Viale degli Arieti? E i sogni sulle piramidi? E il piccolo uomo ferito e curato da quelli che chiamava “dèi”?” chiosò mio padre.
Mi morsi il labbro, sconfitta. Aveva ragione, avevo avuto diverse esperienze, erano proprio la causa per cui non avevamo fermato tutta la faccenda. La rendevano troppo assurda.
“Non ti sembra poco probabile che in posti così lontani tra loro civiltà diversissime che, teoricamente, non si sono mai incontrate, dicano la stessa cosa? Qual è il punto d’unione tra la mia Gente e l’Egitto?” disse Maggie. “Robert dice che nella tua visione hai visto una terra simile a questa e che pareva fosse situata nel Pacifico. Anche noi pensiamo che ci sia stato qualcosa e che ci sia ancora qualcosa, là sotto. Nessuno sa veramente cosa sia successo ai continenti, quando si sia veramente frammentata Pangea e se le terre emerse oggi siano la stessa quantità di sempre, anche se i continenti attuali formano un puzzle, uniti tra loro. Poteva davvero esserci una terra meravigliosa nel Pacifico, abitata da animali diversi da quelli che conosciamo: le estinzioni di massa non si sono verificate solo alla fine del Cretaceo e quelle che conosciamo ci sono note solo perché abbiamo trovato qualcosa.
Se parliamo di un continente scomparso, chissà quanto tempo fa, allora non abbiamo il minimo elemento, nulla che possa dirci cosa ci fosse là, né se ci fosse o meno qualcosa. Non possiamo provare che sia esistito, è vero, ma nemmeno il contrario. Non possiamo nemmeno sapere quante volte terre siano emerse e scomparse, nel continuo mutare della terra…a ben pensarci, tentare di negare l’esistenza di terre perdute è decisamente stupido”
“E comunque!” ribatté mio padre, cocciuto: “Entrambe le specie che ho visto sono state rinvenute nelle Americhe. Se c’era un continente nell’odierno pacifico, quelle creature avrebbero potuto essersi evolute autonomamente, come è successo per molti animali in Australia, per esempio…ah, cosa darei per poterci andare fisicamente!”
“Va bene, va bene!” esclamai: “Sono sorti e scomparsi decine di continenti e sono esistite migliaia di animali di cui non abbiamo alcuna notizia, ma…uomini! Città! Palazzi! Questo non è accettabile!”
Papà fece una smorfia: “Chi lo sa…ci sono così tante leggende, Marabel, in ogni parte del mondo. La memoria ancestrale dell’uomo sembra andare così tanto indietro, da arrivare all’alba del mondo.”

Non potendo dare spiegazioni, non potendo capire come tutti e quattro avessimo potuto avere la stessa, identica visione, ognuno di noi scrisse sul proprio quaderno ciò che ricordava e lasciammo tutto lì a decantare, in attesa di qualcosa che ce ne facesse venire a capo.
Non dissi nulla, ma continuavo a pensare alla visione durante la Cerimonia: la terra che avevo visto era la stessa, le stesse costruzioni e, insistentemente, continuava a venirmi in mente la piramide di Cahokia: immensa, a tre gradoni ormai decapitati da una probabile cupola, con il gradone più basso che formava un immenso terrazzamento basale.
Quella della nostra visione era più alta, ricordavo quattro gradoni e una cupola, un ampio terrazzamento basale attraversato da una strada lastricata al centro, due gradoni in cui si aprivano delle porte, almeno una per ogni lato, benché io avessi potuto vederne solo due, dal mio punto di visuale, e la terrazza su cui era di vedetta il giovane. Non avevo, non avevamo, alcun dubbio sul suo aspetto: era chiaramente Nordamericano, molto simile alle popolazioni di ceppo Algonkino.
Ed era Lui. Io non avevo il minimo dubbio.
Era là, migliaia e migliaia di anni prima, e mi aspettava. Piuttosto ansioso, si sarebbe detto.”
“Marabel! Io non mi sono ancora ripresa dalle cose che hai appena finito di raccontarmi e tu, adesso, te ne esci con…questo?” strillai, facendo sobbalzare il cane e irritando i gatti.
“Beh, ma perché ti stupisci? In fondo, era lo stesso luogo che avevo visto durante la cerimonia, mesi prima. Solo che, ora, lo avevano visto altre tre persone, tra cui mia mamma, che come sappiamo era piuttosto refrattaria a certe esperienze. A me sollevò parecchio il morale, sai?” disse, guardandomi con due occhioni stupiti.
“Ma Marabel! Finora c’erano visioni affascinanti, misteriose, interessanti, tutto quello che vuoi, ma qui…uccelli non erano uccelli variopinti, ma una via di mezzo tra rettili alati e uccelli moderni? Contemporaneamente a mammiferi che non avrebbero dovuto esserci e che quando apparvero non erano più grossi di Grigno e contemporanei addirittura a uomini umani evoluti?” avevo una nota piuttosto isterica nella voce.
“Si” convenne lei: “E rossi. Rossi, ma anche un po’ Egizi, anzi, più Parsi, direi. Forte, eh?”
“Dì la verità: quella roba non era salvia!” lei rise.

Posai il pentolino con l’acqua bollente, prima di rovesciarmelo addosso, e mi lasciai cadere su una sedia: “E adesso? Che può ancora succedere, adesso?”
“Boh, niente di che…anni dopo vennero trovate le famose mura di Yonaguni, ma a tutt’oggi, come abbiamo già detto, la maggior parte degli scienziati sostiene che siano formazioni casuali e del tutto naturali.
Gli altri o vengono cacciati dagli ordini accademici, oppure stanno zitti e muti per sicurezza”
“Insomma tu, cioè, voi eravate certi che lui, il giovane della visione, fosse Nativo?” annuì lentamente: “Splendidi tratti Algonkini, della miglior qualità, si. Con un po’ di Parsi.”
“Questo significherebbe che…che gli antichi Egizi erano della stessa razza? Cioè, fai capire, come sarebbero arrivati là?” poi ebbi una specie di illuminazione: “Atlantidei? Vuoi dire che, alla scomparsa di Atlantide, ammesso sia esistita, i superstiti si sarebbero sparsi un po’ qua e un po’ di là dell’Oceano?”
“Oh, no…entrambe le visioni erano riferite al Pacifico. Niente a che fare, no. Anche se…”
“Anche se?”
“Beh, non si può certo escludere che il Popolo di quella terra si sia in seguito spostato nell’Atlantico. E di lì, come dici tu, un po’ di qua e un po’ di là. È possibile che quella che chiamate Atlantide fosse una loro colonia.
Ammesso che sia esistita, naturalmente”
“Ergo…a quando si sarebbe riferita la vostra visione?” dissi temendo la risposta, fin troppo ovvia.
Marabel mi rivolse un sorriso innocente: “Beh…non saprei. Qualche milioncino di anni?” nascosi la testa tra le mani, sconsolata: “Oppure un altro continuum spazio temporale” disse, come a volermi rassicurare: “Ti è più accettabile?”
“No!”
“Ok, lasciamo perdere.”
“E…ehm…era carino? Il ragazzo della visione, dico”
Marabel mi guardò divertita: “Non l’ho visto molto da vicino, ma…oh, si, certo che lo era. Era bello, direi molto sensuale. Nobile, elegante e allo stesso tempo semplice, dai lineamenti molto puri, ma ho la sensazione che la gente di quel luogo e quel tempo fosse molto più ben riuscita di noi, o delle popolazioni che vennero in seguito. Ci si è sciupati, con il tempo”
“Ahhh…e, dimmi…c’è dell’altro che dovrei sapere prima di prendere in mano qualcosa di bollente?”
Lei ridacchiò: “Dipende sempre da cosa per te è tanto sconvolgente da farti cadere la roba bollente di mano”
“Insomma, andiamo avanti. Avete scritto la visione e poi?”

“E poi, il giorno dopo, tornammo al museo. Io trovai il coraggio, spinta e tirata di peso dai miei compagni di viaggio, di entrare nella sala e osservare i reperti esposti.
Cercavo qualcosa, sempre più in ansia, qualcosa che non trovavo. Alla fine fermai un impiegato del museo e chiesi dove fosse il pettorale del Faraone Fanciullo. L’uomo mi scortò verso una teca e mi mostrò quello che veniva descritto come il pettorale di Tutankhamon.
Io guardai senza capire: “Questo è di Ekhnaton, non mi interessa. Io voglio vedere quello di Sua Maestà Tutankhamon”
L’uomo guardò alternativamente me e i miei, che ascoltavano quella discussione in un silenzio preoccupato: “Signora, questo è il pettorale di Tutankhamon. È stato trovato sulla mummia del Faraone Bambino, insieme a quelle collane e agli altri molti gioielli, sia sotto le bende, che sopra. Questo chiudeva tutto per proteggere il Faraone nel suo viaggio nell’aldilà”
“Quell’affare era di Ekhnaton!” ripetei con forza.
L’uomo sembrava molto contrariato, offeso che una straniera mettesse in dubbio la sua preparazione. Un altro uomo, un egiziano corpulento ed elegante, si avvicinò, fece un cenno alla guida e ci chiese di seguirlo fuori dalla sala. “Sono il curatore di quest’ala” si presentò: “Quali sono le vostre perplessità?”
Mio padre pensò che fosse il momento di intervenire: “Mia figlia, ecco, ritiene che quel pettorale non appartenesse al Faraone Fanciullo” disse, sfoderando un sorriso accattivante.
L’uomo sorrise: “È probabile” rispose. “Il giovane Faraone morì all’improvviso, e non ci fu il tempo di preparare una tomba sua, così ne vennero saccheggiate diverse altre per potergli preparare un tesoro degno di lui. Non possiamo assolutamente escludere che quel pettorale appartenesse al padre del ragazzo, d’altra parte è probabile che nemmeno la tomba gli appartenesse” disse con un sorriso cortese: “Ma da dove viene la sua certezza, Madame?” e io risposi.
Non ho idea di come sapessi le cose che sapevo, ma sapevo che non me le stavo inventando. Mentre parlavo mi accorgevo di dire la verità: “L’eretico era fissato con il sole, con l’Aton, di cui si dichiarava figlio primogenito e unico, nonché sua manifestazione terrena.
Passò quasi tutta la sua vita a studiarne gli aspetti, tra cui le macchie e la variazione di intensità delle emissioni di calore e luce e la loro influenza sulla terra. Avrebbe potuto essere uno studio interessante, se per approfondirlo non avesse mandato in malora il paese!” l’uomo mi guardò molto sorpreso: “Madame, come è a conoscenza di queste cose? Noi stessi ne sappiamo con certezza molto poco, ma…e…mi scusi, ma come avrebbe a che fare, questo, con il pettorale?”
“Tutto il pettorale dell’Eretico era una sorta di codice criptato sui suoi studi, sulle periodicità delle macchie solari e sulle tempeste che influenzavano la vita sulla terra.
Lui riteneva di avere avuto solo figlie femmine dalla Reggente a causa dell’attività solare di quel periodo, mentre avrebbe dovuto preoccuparsi di più di non sposare cugine, sorelle e figlie, piuttosto! Non era che un pervertito ossessionato da se stesso!” dissi con veemenza, poi incrociai le braccia, imbronciata: “Comunque, ammetto che i suoi studi potessero essere interessanti.”
Eravamo nell’87, e a quel tempo si sapeva veramente pochissimo su chi fosse realmente Nefertiti o chi la madre del Fanciullo. All’epoca si credeva che la Grande Sposa Reale fosse una principessa straniera e che l’unico maschio generato dal faraone eretico fosse figlio di un’ancella sconosciuta, quasi un incidente.
Di Kiya non si sapeva nulla, soprattutto dal momento che, come sappiamo, la reggente aveva pensato bene di usurpare qualsiasi cosa la riguardasse. Nemmeno del matrimonio di Ekhnaton con Merytaton si sapeva nulla e questo rendeva le mie affermazioni quantomeno azzardate, d’altra parte ancora oggi è un eventualità molto discussa.  
“Madame…lei non deve amare molto la figura del faraone Akhenaton, vero?” disse bonario: “Però le sue affermazioni, per quanto affascinanti, non hanno alcun fondamento” fu allora che intervenne mio padre.
Si presentò come archeologo al Metropolitan di New York, ma proveniente dal Louvre e si allontanò con l’Egiziano chiacchierando fitto.
Noi andammo a cercare un posto dove sederci: “Cosa avrebbe dovuto esserci al posto di quello scarafaggio?” chiese Maggie.
Io ero scossa da tremiti: “Una farfalla. Una meravigliosa farfalla blu.” Incrociai le mani aperte, unite per i pollici a mostrare la forma e le dimensioni che avrebbe dovuto avere l’amuleto: “Ecco, il corpo era vetro meteorico, gli occhi di Rubino e lungo l’asse del corpicino erano incastonati sette Smeraldi.
Le ali erano d’oro massiccio su cui erano applicate lamine di Lapislazzuli. Sotto, tra le lamine di pietra preziosa e l’oro, erano incisi degli incantesimi preparati apposta da Sua Maestà, per rovesciare gli incanti malvagi creati per imprigionare la sua Anima.”
Mamma e Maggie erano a bocca aperta: “Mary, ti rendi conto? Un oggetto del genere sarebbe stato sicuramente la cosa più preziosa di tutto il tesoro! E unica nella storia d’Egitto e…e…farfalla blu?!? Farfalla blu, hai detto?”
Mia mamma e io la guardammo sorprese, io accennai di si, un po’ incerta: “Ma noi abbiamo visto quelle farfalle! Ieri! Nella visione…non ricordate? C’erano sciami di grandi farfalle blu Lapislazzuli!”
Aveva ragione, come potevo essermene dimenticata? Non ho mai visto farfalle di quel blu, per quanto abbia cercato, in seguito. In ogni paese esistono farfalle azzurre o blu, ma nessuna del blu che avevo visto nella visione.
Era possibile che avesse scelto quell’animale al posto dello scarabeo per mandarmi un messaggio?
Aveva cercato, per tutta la Sua breve vita, di farmi tornare la memoria e, per quanto io a quel tempo non li avessi riconosciuti, era possibile che lui avesse preso, per costruire il suo talismano, dei simboli che per noi dovevano significare qualcosa di importante.
Chiusi gli occhi, cercando di ricordare la visione: Lui era davanti ad una sorta di balaustra, un muretto che non circondava tutta la terrazza, ma esisteva solo agli angoli, accentuandone l’acutezza e spezzando i forti venti periodici, era appoggiato proprio sul vertice dell’angolo, in modo da avere la visuale più ampia possibile. Osservava il mare verde che si estendeva per molte miglia tutto intorno, poi, con una certa inquietudine, si era voltato a scrutare la strada.
Le farfalle arrivavano ad avvolgerlo ad ondate, in sciami, carezzevoli, come si facessero trasportare pigramente dal vento, tutte di quel blu intenso e brillante, quasi il pigmento delle ali fosse cosparso da particelle scintillanti. 
Non era un caso se Sua Maestà aveva voluto il Lapislazzuli per quelle ali, raccomandandosi che vi fossero scie di pirite nella pietra, così da renderla simile al cielo notturno.
Restai là, seduta a fissare il vuoto per non so quanto tempo: Che era successo? Era corso incontro a chi arrivava lungo quella strada? Chi era? Tornava da un viaggio abituale o che altro? Era in ritardo, perché Lui fosse così in ansia, o semplicemente lei gli mancava?
Lei.
Is.
Io.

Poco dopo tornò mio padre, ancora chiacchierando fitto con il tizio del museo, sembravano diventati amiconi. Probabilmente era riuscito a distrarre il pover’uomo da me e dai miei discorsi dissennati, trascinandolo in qualche digressione su dinastie, opere ingegneristiche o chissà che altro. Li seguimmo nella sala, un po’ discoste.
“Vede?” stava dicendo: “Il Calcedonio presenta una traslucenza molto diversa, zonature di colore a seconda della concentrazione di gel di silice rispetto al minerale di Quarzo e…”
L’altro annuiva, interessato, accostando una lente alla teca dello scarabeo: “Quindi la sua teoria è che si tratti di una tectite?”
“Esattamente! Nel deserto libico, nell’Egitto più occidentale, si trovano spesso frammenti di un vetro meteorico che va dal giallino al verde molto chiaro e sono convinto che si tratti proprio di questa sostanza”
L’uomo prese papà per un braccio e lo condusse verso un altro ufficio con un “vorrei mostrarle…” che ci raggiunse mentre si allontanavano.
“Ecco, adesso si fa bello con le tue scoperte, ma guarda!” commentò mamma, vagamente acida.

Riprendemmo la visita piuttosto pigramente, senza di lui. Era possibile che sparisse per ore e io avevo una gran voglia di tornarmene in albergo, o almeno di uscire da quel posto.
Molti di quegli oggetti sembravano vivi, abitati dai fantasmi di un passato congelato sopra e dentro di essi, spesso recavano l’impronta di coloro che li avevano posseduti o creati, le loro sofferenze, le loro gioie, le loro paure, spesso emanavano una sorta di insoddisfazione e frustrazione, come se l’essere rinchiusi in un museo, in teche a prova di proiettile, rendesse vano il loro esistere.
Passeggiavo tra i reperti esposti tenendo gli occhi bassi, cercando di non avvicinarmi a ciò che era stato suo.
C’era il suo tavolo da Senet, quello che aveva avuto in dono il giorno dell’incoronazione, d’ebano e avorio. Vedevo le sue dita di fanciullino sfiorarne le forme, pensieroso, lo sentivo chiedersi: “Chissà se avrò mai il tempo di usarlo?” e mi si stracciava il cuore.
Mi allontanai: c’era quella statua, circondata di luci e di pubblico che passava in silenzio, fotografava, i più schiacciati dal mistero che quei tratti bellissimi, ancora infantili, trasmettevano, schiacciati dai suoi occhi pensosi, un po’ abbassati e come rivolti non al mondo, ma all’interno di sé, verso un punto al centro del tutto, in una sorta di contemplazione.
Era spezzata, per quasi metà del viso, come spezzata era stata la sua vita.
Sentii di nuovo la sua voce, in lontananza: “Guardami, Is! Sono stanco, sono così stanco! Non vedi? Ho vent’anni e il corpo di un vecchio di cento!” probabilmente persi l’equilibrio, perché vidi gli occhi preoccupati di mia madre e di Maggie, che mi sorreggeva tenendomi un braccio.
Le guardai, quasi sorpresa di trovarmi là.
“Vuoi uscire?” mi chiese la nostra amica. Cercai l’uscita, incerta sul da farsi, ma decisi di proseguire ancora un po’, per vedere se papà tornava: avevo bisogno di parlargli della farfalla, della nostra scoperta.
Mi lasciai trascinare, un po’ dalla marea di visitatori, un po’ dalle mie accompagnatrici, un po’ dai miei piedi, stordita. Quel posto mi creava dolore. Era pieno di oggetti studiati e ristudiati, incompresi, fraintesi, caricati di teorie infondate.
Era pieno di cose che mi facevano male: non mi ero mai trovata, prima di allora, vicina ad oggetti che Lui aveva realmente toccato, in vita, che gli erano appartenuti, che, magari, avevamo condiviso.
Non so se passarono pochi minuti o un’ora, quando qualcosa attirò la mia attenzione: mi voltai lentamente verso la scultura di una testa di donna dai tratti duri e, all’improvviso, mi arrivò addosso una verità che avrei dovuto quantomeno sospettare da tanto tempo.
Mi sfuggì un mezzo grido, che soffocai in gola: “Oh, scusa, ti ho pestata, cara!” esclamò Maggie: “Andiamo a sederci, vediamo se ti passa!”
Mi trascinarono all’aperto e, finalmente lontano da orecchie indiscrete, andammo a cercare un posto ombroso dove riposarci.
Io faticavo a respirare, gelata dal terrore: “Lei…era…lui, faccia di serpente!” biascicavo, inconcludente: “Che cosa, Mary?” chiese Maggie. Mi ci volle un po’ per sistemare le parole in modo coerente una dopo l’altra: “Quella donna orribile! Aye era suo fratello!” come avevo potuto non arrivarci, in tutti quegli anni? Sua Maestà lo chiamava “lo zietto” in senso spregiativo, ma era veramente suo zio, o meglio, il suo prozio, in quanto zio di Ekhnaton!
Aye era il fratello della Regina Tiye.
La cosa che mi turbò, in quel momento, fu rendermi conto, anche, che la nobile Tey somigliava moltissimo a Nefertiti e ad Ankhesenamon. Troppo, a dire il vero.
Aye, l’uomo serpente, così assolutamente ambizioso, tanto da passare sopra chiunque e qualsiasi cosa, non avrebbe mai, diceva Sua Maestà, fatto nulla contro Nefertiti o sua figlia Ankhesenamon, che Tey chiamava “la mia bambina” e io, mentre riprendevo fiato, nel sole ancora a picco di quel pomeriggio egiziano di tremila anni dopo, mi resi conto che Nefertiti era figlia di Aye e Tey.
“Mioddio” esclamai, superando la nausea: “Erano completamente pazzi! Erano dei mostri!”

Mamma lasciò un messaggio per papà, ancora disperso e tornammo all’hotel, dove Maggie ordinò una brocca di Karkadé.
Mentre sorseggiavamo la bevanda, che ci avevano portato su un vassoio cosparso di fiori di ibisco disposti attorno ai bicchieri e la brocca, spiegai come la somiglianza tra Tiye e Aye fosse impressionante, così come lo era tra la nobile Tey, Nefertiti e la sua figlia sopravvissuta.
Da decenni gli egittologi si lambiccavano cercando di capire chi fosse quell’uomo che era stato il più potente d’Egitto durante l’arco di ben tre regni, e a nessuno mai era venuto in mente che potesse esserci una parentela tra lui e la Grande Sposa Reale di Amenophis III.
“È successo qualcosa prima che l’eretico salisse al trono e c’è di mezzo Aye, Aye e sua sorella” Maggie storse il naso: “C’è sempre di mezzo quell’individuo. E, molto prima di conoscervi, pensavo che la Regina Tiye dovesse essere stata molto impegnata a tramare e drogare il marito per poter sistemare sul trono quel suo figlio tocco”A mamma scappò una risatina.
Un filo si agitava nella mia memoria, la voce di Sua Maestà mi raccontava qualcosa che non volevo sentire, ma non riuscivo ad afferrare quel sussurro.
“Non ho mai provato senza l’ipnosi, e ora è passato un sacco di tempo…ho timore di sbagliare. Come faccio?” esclamai sconsolata.
“Mary, tu hai una serie di porte aperte nella tua mente, dagli ultimi mesi. Non è così strano che le memorie sorgano senza bisogno di regressione, ma se non ti fidi di quello che vedi, possiamo provare a fare una specie di regressione più morbida e usare il fumo della Salvia per aiutarti ad entrare in quello stato ricettivo. Inoltre tuo padre ha avuto l’accortezza di portare i tuoi schemi radionici. Potresti usarli mentre finiamo il karkadé e io preparo quello che ci serve”
Approntammo rapidamente una seduta atipica e poco dopo Maggie accendeva il mazzetto di Salvia.

Mi trovai sospesa nella nebbia, una nebbia mobile, che si agitava in morbide volute formando disegni mutevoli attorno a me. Non avevo mai avuto un’esperienza simile con le regressioni.
Sentivo la testa leggera come un palloncino e mi pareva che il vento inesistente che muoveva la nebbia mi sballottasse di qua e di là.
Non ero ferma, anche se non mi muovevo.
La nebbia iniziò a fluire verso il basso, scivolando come acqua in un qualche tipo di scarico e io mi sentii trascinare giù, o su, perché non avevo punti di riferimento e non sapevo se sopra o sotto fossero al loro posto o meno, né se esistesse un sopra e un sotto.
Fluivo, in un fiume lattiginoso cosciente, verso un nonsodove buio e silenzioso.
Liquida, entrai in un posto arioso, illuminato da grandi finestre a trapezio.
Sua Maestà era seduto davanti al tavolino d’avorio ed ebano del Senet, con una pedina tra le dita.
Non stava giocando, stava semplicemente giocherellando, pensieroso: “…perché Thutmose non si sarebbe arreso alla loro volontà.” Sedetti accanto a lui, come mia abitudine, su una panchetta.
Lui si voltò a guardarmi, sorrise appena e mi sfiorò il viso, riflettendo: “Tiye non amava il suo primogenito. Aveva sempre avuto un attaccamento morboso per il figlio Amenophis, forse per la sua stranezza, la sua pessima salute, forse perché anche lei, come lui, aveva manie di grandezza, tanto da convincere il faraone suo sposo, negli ultimi anni della sua vita, ad erigerle un tempio in terra nubiana, deificandola.
Da quanto mi è stato raccontato, mio nonno Amenophis III, a quel tempo, era già perso da un pezzo nei fumi dell’oppio e tendeva facilmente a fare tutto ciò che la Consorte Reale voleva, senza nemmeno tentare di discutere. La malattia lo consumava, ma egli viveva in uno stato di fittizia beatitudine a causa del fiore d’Oriente.
A quel tempo il principino Amenophis era lontano e la reggenza era suddivisa tra Tiye, Thutmose e il Faraone, che semplicemente faceva figura, ma il Principe Thutmose avrebbe dovuto prendere moglie per poter salire al trono. Egli era da tempo legato ad una delle innumerevoli concubine del padre, mentre NeferuAton, o meglio Nefertiti, a quell’epoca aveva dieci o undici anni…si, forse undici.
Tiye e il Visir volevano ad ogni costo che la loro linea di sangue prendesse il potere nei due regni e cercarono di imporre il matrimonio tra la bambina e il Principe Reggente, ma Thutmose si oppose, rifiutando di sposare la cugina e volle prendere in moglie la donna cui era legato, la quale, però, non era che un’ancella donata a mio nonno da qualche sovrano.
Pare non avesse alcunché di nobile, quindi doveva essere piuttosto sana” considerò con una nota ironica.
Lasciò vagare lo sguardo oltre la finestra, perdendosi nel cielo fiammeggiante del tramonto: “Tiye e il Visir, sostenuti dall’ormai imbelle faraone, minacciarono il Reggente di uccidere la giovane se egli avesse continuato nel suo proposito, così Thutmose finse di piegarsi al loro volere e, la notte stessa, fece fuggire la sua amata verso le terre Keftiu, poi, con lei ormai al sicuro, rifiutò nuovamente di sposare la piccola Nefertiti.
Poiché il principino Amenophis era ancora troppo giovane e il Reggente era molto amato, per un periodo tutto sembrò scorrere tranquillamente, ma poi…poi Thutmose concepì con l’ancella, che evidentemente incontrava in segreto, e presto sarebbe nato un principino ereditario di sangue impuro.
Il Principe Thutmose, l’amato dal popolo, non vide la nascita di suo figlio Smenkhara e l’ancella scomparve poco dopo la sua nascita…il principe Amenophis tornò a corte, salì al trono con il padre e governò sotto la reggenza della madre e del Visir Aye finché, alla morte del Faraone, ne sposò la vedova Nefertiti, prendendo ufficialmente il trono come Amenophis IV.
Avevano una quindicina di anni.
Questo rappresentò il coronamento del piano di Tiye e Aye: Ekhnaton e NeferuAton avevano la stessa linea di sangue e, presto, quella linea avrebbe preso il potere al posto di quella originale.

Quando, alla morte dell’Eretico, Smenkhara salì al trono, nonostante il matrimonio con Merytaton, il Gran Visir temette il fallimento dei suoi propositi. Smenkhara aveva i giorni contati e penso lo sapesse: la sua unica speranza era nella sua Sposa Reale, nell’avere un figlio da lei, così da avere il tempo perché io crescessi abbastanza, abdicare in mio favore e sparire.”
Restai a lungo in silenzio, mentre le fiamme del tramonto lasciavano il posto alla notte: “Ma Merytaton morì insieme al suo bambino e Smenkhara la seguì poco tempo dopo.” Dissi sconsolata. “Non sarebbe stata una garanzia sufficiente, temo. Smenkhara, per Aye, era fumo negli occhi. Is, soltanto la precisa volontà di mia sorella può rendere possibile il nostro matrimonio e, anche così, non posso escludere che ci siano
dei rischi. Io non posso accettare che tu sia in pericolo!” gli presi le mani tra le mie. Erano fredde. Non aveva mai le mani fredde: “Heru Ra…Am’n…sei in pericolo maggiore di quanto lo sia io. Nemmeno io lo posso accettare. Loro giocano sulla tua salute così…così delicata e contano i giorni perché tu levi il disturbo. Ma chi prenderà il tuo posto? I tuoi unici fratelli sono partiti con gli uomini del Nord. Di tutta la dinastia non restate che tu e tua sorella. loro hanno bisogno di te e lo sanno.”
Tenevo le sue mani strette contro di me, per poterle scaldare: “I miei fratelli sono fratellastri, figli di serve e non di mogli. Ho voluto la loro partenza, come mio zio volle la fuga della sua amata. Non è sicuro, per loro, l’Egitto. Non torneranno, ormai la loro casa è tra distese di fiori selvaggi e la spuma di mari in tempesta. Liberi!”

Mi svegliai di soprassalto.
Maggie mi stava osservando con il viso contratto, mamma scriveva, in un angolo, il viso rigato di lacrime. Lei non aveva mai assistito ad una mia regressione, prima di allora. Era buio, ormai, e mi accorsi che papà ascoltava in silenzio, accanto alla porta.
“C’erano altri figli maschi…” sussurrò Maggie: “Illegittimi. Sani o quantomeno più sani di quelli delle Spose Reali, è naturale. E lui li fece partire per le terre Scote, per proteggerli. Che ne sarà stato di loro? Se si potessero trovarne delle tracce!”
“E non furono loro a salire al trono, nonostante il Fanciullo fosse così giovane e fragile, ma lui, perché lui era l’unico legittimo Principe Ereditario, checché i miei ciechi colleghi ne dicano. Altro che figlio di nonsisachi messo sul trono nonsisaperché!”
“E Sua Maestà regalò loro il suo sogno di vento e di mare…” conclusi io malinconica.
In fondo era logico: Ekhnaton aveva molte mogli secondarie e concubine, era più che prevedibile che potesse generare qualche figlio illegittimo, nonostante la sua salute non esattamente florida.
Allo stesso modo era assurdo, illogico, pensare che quel Bambino fosse stato messo sul trono perché non era avanzato nessun altro: dopo la sua morte fu Aye ad ascendere al trono, ed era ormai vecchiotto, quindi…perché non mettercelo dieci anni prima, quando era più giovane, se non perché il Bambino lo precedeva di un bel po’ nella linea di successione?”
“Però oggi si sa che era il legittimo erede, no?”
 “La scoperta dell’identità di Kiya ha cambiato molte cose, ma altrettante, come hai potuto vedere anche tu, sono tremendamente ingarbugliate.
Io credo che il male che dilagò in quel periodo sulla terra d’Egitto, fosse causato da quei due, Aye e Tiye. Se non fosse stato per loro, forse tutta la storia sarebbe andata diversamente: alla morte di Amenophis III sarebbe salito al trono il Principe Thutmose V che, a quanto pare, sarebbe stato un ottimo sovrano, saggio, giusto e molto amato.
Il Regno non sarebbe andato in malora, non ci sarebbero stati periodi bui, pirateria, miseria, rivolte, serie di morti accidentali e premature mai viste in precedenza, forse, chissà, sarebbe perfino riuscito a strappare agli Ittiti un qualche trattato di non belligeranza, magari inviando aiuti durante la peste.
Forse avrebbe avuto una vita lunga e prospera e alla sua morte sarebbe salito al trono…chi? Smenkhara? O, poiché non si sentiva portato per la carica di faraone, il suo posto sarebbe stato preso dal più giovane cugino? E ancora, Sua Maestà sarebbe stato figlio del principino Amenophis e Kiya o sarebbe stato non cugino, ma fratello di Smenkhara? Magari sufficientemente sano da arrivare ad un’età rispettabile?
Forse Thutmose avrebbe fatto qualcosa di scandaloso, come regnare con al fianco una sola Sposa Reale non nobile presa nell’harem del padre, oppure avrebbe preso, ad un certo punto, la giovane e dolce Kiya come Seconda Sposa, da cui sarebbe nato, figlio del Faraone, il Principino Tutankhamon e tutto sarebbe stato a posto.
Sembra tutto molto sereno, non è vero, visto in questa ucronia?
Eppure, le cose andarono come andarono, Thutmose scomparve dalla storia in quel profondo silenzio che avvolse gli indesiderati e gli scomodi e tutto ciò che oggi resta di lui è…il gatto.”

Mi scappò da ridere, ma era vero: tutto ciò che oggi sappiamo di quell’uomo, è ciò che è riportato sul sarcofago del suo amatissimo gatto.
Micky dormiva placidamente, il musetto appoggiato sulle zampette anteriori, il Mau di Marabel lì accanto, con la testolina argentea sulla coda del mio Siberiano. Marabel e io li osservammo per un po’, prima di riprendere:

“Mio padre sedette sul bordo del letto: “Quindi, Marabel…Sappiamo anche chi potesse essere la bambina vestita di azzurro che giocava con il Principino nei giardini di AkhetAton, la nipotina di Nefertiti e promessa sposa del Principino. E sappiamo perché, anche lei, scomparve all’improvviso, a sei o sette anni. Doveva avere problemi genetici anche maggiori delle zie ed è probabile che la madre non solo abbia partorito molto, troppo giovane, ma…mi chiedo di chi fosse la bambina, anche se non sono sicuro di voler sapere la risposta.”

Avevo un nodo alla gola. Di quella bambina sapevo solo ciò che avevo visto un giorno in una regressione, quando era scappata in lacrime perché il Principino le aveva detto che, da grande, avrebbe sposato la sua tata.
Avrei voluto prenderla in braccio, prometterle che sarebbe andato tutto bene, portarla via da quella corte di maniaci…sono sicuramente blasfema per gli egittologi, ne sono sicura. Lo sono per i grandi estimatori dell’Eretico, per gli adoratori di Nefertiti, ma la verità, che piaccia o no, è che erano una banda di disgustosi pervertiti.
“Doveva soffrire molto” la voce sommessa di mia madre strappò ognuno alle proprie elucubrazioni. “Doveva amare molto” aggiunse e lasciò scorrere lo sguardo su di noi: “Anche questi fratellastri di cui non si è mai saputo nulla: donò loro un’altra vita, un’altra opportunità e la libertà che sognava per se stesso. Che dolcezza!”

Maggie, meno romantica e cuore di mamma, era invece concentrata sulla politica e sulla farfalla: “Peccato, pensavo che potessimo scoprire qualcosa su quel Talismano.” Commentò contrita.

Più tardi, dopo cena, lei e mio padre andarono a telefonare al nostro ipnotista, raccontandogli le ultime esperienze. Fu molto colpito dalla visione collettiva del giorno prima, non sorpreso della forte impressione, invece, che avevo avuto quel giorno al museo: era normale che oggetti che dovevano essermi familiari scatenassero in me esperienze intense. Fu invece favorevolmente colpito dalla questione del pettorale: “Quando in Tibet bisogna riconoscere un Tulku, gli si mostrano degli oggetti. Alcuni gli appartenevano nell’incarnazione precedente, altri no. Se il bambino riconosce con sicurezza gli oggetti ‘giusti’, allora i Monaci sanno di essere in presenza della persona che stavano cercando.
L’esperienza di Marabel è di quel genere, senza contare che non avrebbe potuto che essere suggestionata dalle conoscenze comuni, quindi riconoscere un oggetto in quanto culturalmente obbligata a farlo. Invece non solo ha riconosciuto che il pettorale non era del Faraone Bambino, ma ha saputo chiaramente indicare la sua appartenenza al padre, eventualità plausibile, ma del tutto ignota. Ritengo questo fatto uno dei più interessanti, fino ad oggi”
Mi piacquero molto quelle parole, mi diedero conforto, perché ne avevo bisogno: ero di nuovo sprofondata in un oceano di dubbi e incertezze e non
avevo Floyd a tenermi per mano.”

Erano quasi le undici. Io avevo mal di testa, frastornata da quella quantità impressionante di esperienze e scoperte, soprattutto frastornata da quella meravigliosa parentesi della vita di Marabel di cui ero venuta a conoscenza e mi sentivo spezzata in due, tra il desiderio di continuare la storia del Fanciullo, ora più che mai, e il sentire il vuoto profondo lasciato da Floyd.
Avrei voluto che si fossero sposati, che fossero stati felici e poi, un giorno, anni dopo, si fossero lasciati da buoni amici. Acciaccati, magari, ma arricchiti da una storia insieme che avrebbe lasciato in entrambi meravigliosi ricordi e, perché no, un marmocchio o due. E sarebbero rimasti amici per sempre. E Marabel non sarebbe mai più stata sola. Ecco, era così che avrebbero dovuto andare le cose!

“È tardi!” esclamò Marabel, scuotendosi dai suoi pensieri: “Bisogna che vada! Domani mattina devo vedere una persona per una perizia su alcuni dipinti che ha ereditato, ma non è lontano e ho l’appuntamento alle nove e mezza. Penso di essere da te per le undici o perfino prima.”
I gatti erano beatamente addormentati, i piattini vuoti, la sabbia pulita e pronta per essere inaugurata. “Potresti lasciarlo qui. Non sembra possa aversene a male, anzi, direi che potrebbe avere delle rimostranze se lo infili nel trasportino, ora”
“E domani dovrei tornare a casa a riprenderlo…” considerò lei.
“Perché non facciamo le ragazzine al campeggio e domani non ti porti l’occorrente per dormire qui?” gettai lì, con la faccia di una scolaretta.
Mi sentivo tremendamente in colpa a tenermi il suo gatto, quando lei, a casa sua, non aveva nessun altro, ma se lei fosse stata d’accordo...
Ci rifletté su un attimo, osservando come i gatti si fossero immediatamente adattati alla nuova situazione. “Perché no?” poi parve ripensarci: “Ma…sei sicura che non disturbiamo?”
“Ma daaaiii!! Sarà divertente!” Per un attimo ebbe quell’espressione che tanto mi aveva colpita il primo giorno del nostro incontro: uno sguardo di malinconica solitudine senza fine e insieme speranza e gratitudine: “D’accordo.” Acconsentì.
Chiamò un taxi e un momento dopo sparì facendomi un cenno di saluto dalla macchina.
Dovevo riprendermi. Le immagini continuavano a sovrapporsi nella mia mente, non ricordavo nemmeno quando fosse iniziato quel giorno che era parso eterno, tanto che quasi non ne ricordavo il mattino.
Accesi il computer e mi accorsi che Franco era collegato su skype.
“Cià!”
“Ehilà, la mia ragazza! Ma che fine hai fatto?”
“L’amica di cui ti ho parlato. È andata via ora…”
“Wow! Che ti ha raccontato? Che avete fatto?”
Avevo riempito un quaderno di appunti a matita e avevo anche registrato parte delle conversazioni con il telefono. Scaricai immediatamente i dialoghi sul pc. “Momento…sto trasferendo della roba…”
“Daaaaiiiiiiiiiii!!!!!!! Non vedo l’ora di sentire!!”
“Frà, è tutto così strano! Mi sembra di vivere un sogno in 3D, di essere in un altro mondo. Non so raccapezzarmi”
“Uhmmmm”
“Non mi credi?”
“Non vedo perché. Il problema è…tu credi a lei?”
Non risposi. Me lo stavo chiedendo da almeno due settimane. Il segnale di chiamata vocale mi riscosse dalle mie elucubrazioni.

“Quindi?” la voce di Franco, vagamente petulante da intellettual chic, mi riportò ad una quotidianità che mi sfuggiva di mano.
Non di normalità, non c’era niente di normale nelle nostre vite.
“Insomma, lei è così affascinante, coltissima e oggi mi ha raccontato una storia che…non so…”
“Più assurda delle altre?” fece lui. “No, non direi. Umana, invece. Si era innamorata di un ragazzo Nativo Americano”
“WOOOWWWWWWWW, CHE FIGO!!!!!!!!!!!! Era bello? Era sexy?” mi scappò da ridere: “Beh, a sentire lei era più bello di Michael Greyeyes, ma questo è impossibile”
“Aspetta…quello di Crazy Horse?”
“Lu”
 “OHMMIODDIO!!! Scherzi? Ma è un supermegaschianto, anzi di più!!”
“Appunto”
“E il tipo sarebbe stato ancora più gnokko?”
“Lei dice, ma sai, non penso proprio sia obiettiva. Però, al contrario di tutte le altre occasioni, è stata molto precisa nelle informazioni personali. Quasi, quasi mi dava il numero di scarpe!”
Gli raccontai rapidamente la storia, in un riassunto molto stringato. “…E così lui tornò nel Montana e dovrebbe poi aver ripreso il College.”
Silenzio. “Sei lì?”
“Si. Pensavo…e non dire che non sono attrezzato!” io ridacchiai.
“Aveva già una laurea e un master…potremmo provare a cercare qualche informazione, sempre se ti ha dato il nome corretto. Potrebbe averlo cambiato, sai, per proteggerne l’identità, magari si fida di te, ma non così tanto. Magari ha capito che sei una che, appena lei si volta, andrà ad investigare”
“Veramente io avevo in mente di andare direttamente nel Montana. Tipo dopo Sainte Marie, come vacanzina.”
“Dunque, se il nome è giusto, se davvero si chiamava Archangel dubito ce ne siano a gògò” considerò, con in sottofondo un rapido ticchettio: “Two Bears scritto come?” chiese, molto professionale: “Ma che ne so! Parlavamo, mica me lo ha messo per iscritto!”
Attimi di silenzio, rotto soltanto dal rumore sommesso della tastiera.
“Per essere una mente così brillante è piuttosto invisibile. O non era questo genio, o non ti ha dato il nome corretto. Ci sono Twobear, Twobears, Two Bears staccato, parecchi in Canada, meno in altre aree, ma nessun Floyd. Oh!”
“Cosa?” scattai, svegliandomi da un mezzo abbiocco che mi aveva colta.
“Na, è un ragazzino. C’era un profilo facebook, ma è un falso allarme.”
Sospirai.
“Sora, guarda il lato positivo: almeno sappiamo che il nome Two Bears esiste”
“Ssssstupido!”
Un piccolo segno, qualcosa che mi facesse capire che Marabel non mentiva, che le cose che mi raccontava erano vere! Che bello se avessi potuto vedere una foto di Floyd, magari in un profilo social, o in un articolo sul College, per esempio. Sarebbe stato bello vederlo citato tra i docenti o i ricercatori…
“Trovato!”
“Cosa?!?”
“Oh, al diavolo!”
“Franco, cosa?!?”
“Ho cercato come Salish Kootenai College e ho associato il nome Floyd Twobears. È uscito un risultato interessante: Ph.D. Floyd A puntato Two Bears staccato, millenovecentonovantadue Research on Aboriginal Lan…e poi non si vede, potrebbe essere languages, però se tento di aprire la pagina risulta scaduta o non più disponibile, d’altra parte è del novantadue.
Però direi che è una traccia importante: è pressoché impossibile che in quel College, in quegli anni…dunque, lui avrebbe dovuto iniziare il nuovo corso di laurea proprio quando invece conobbe Marabel e quell’anno gli è partito per problemi cardiaci, quindi, presumibilmente, avrà iniziato l’anno dopo, autunno ottantasette. Metti che si sia laureato nel novantuno…e qui c’è un Dottorato di Ricerca nel novantadue, che ci starebbe a fagiolo. Floyd A puntato, come Archangel. Direi che è lui con un’approssimazione del novantanove per cento, ma se consideri che la seconda laurea doveva essere in Storia e Cultura dei Nativi Americani, un Dottorato che comprende la parola “Aboriginal” ci sta a fagiolo due volte.
Coincide tutto. Direi che le probabilità vanno a novantanove virgola nove percento, ad essere pessimisti. Peccato non ci sia una fotina, lo avrei visto proprio volentieri”
Mi sentivo su una nuvola: “Ma che importa, Frà! Sei grande! Si, deve assolutamente essere lui, non può essere casuale! Finalmente abbiamo una prova!”
Franco espirò rumorosamente: “Eva…abbiamo una prova che questo Floyd esista, ma non che le cose raccontate da Marabel siano vere. Sarebbe interessante potergli parlare, sapere se effettivamente sia andata come dice la nostra amica. Com’era la tua idea di andare nel Montana?”
Ero su di giri: “Non sarebbe male, eh? Comunque, per il momento non importa, è una prova! Bella tangibile!” esclamai raggiante. Mi era improvvisamente passata tutta la stanchezza.

Non sapevo se dire a Marabel che avevo trovato una traccia che confermava del fatto che Floyd si fosse ripreso presumibilmente molto bene da quella storia, laureandosi e ottenendo anche un Dottorato, o se tacere.
Lei non aveva mai voluto cercare nulla, sapere nulla, forse per non riaprire quella vecchia ferita, eppure ero certa che sapere quello che avevamo scoperto l’avrebbe resa felice.
Raccontai a grandi linee a Franco che ascoltò i miei appunti in estasi, intercalando solo con “Oh!” e “Ah!” dispersi tra le immagini che dovevano formarsi nella sua mente alle mie parole.

Mi fermai quando mi accorsi che era passata da un pezzo mezzanotte e mi era scoppiato il mal di testa: mi sentivo incredibilmente stanca, non mi succedeva nemmeno ai tempi in cui correggevo libri noiosissimi per ore ed ore di fila, smettendo a tarda notte e riprendendo l’indomani mattina.
“Quindi domani andate avanti? Ma così, senza di me?” fece Franco imbronciato quando tentai di salutarlo.
Restai un attimo interdetta: “Frà? Sai, vero, che sei a Parigi?”
“Si, ma non potremmo sentirci via skype?”
“TUTTO IL GIORNO???” esclamai sconcertata.
“Mannò, dai!” ribatté lui: “Ho il tappezziere, domani, e poi vengono a lucidare il pavimento per poi poter montare la cucina nuova e…io intendo, almeno, almeno, la sera. Potremmo cenare insieme, no? Cioè, tipo che io ordino una pizza qui e voi due lì e ce le mangiamo con la telecamera accesa e collegati, così è proprio come essere insieme! E io la conosco e posso intervenire! Non è un’idea fantastica?”
“A me andrebbe benissimo, ma lei?”
“Io penso lo sappia che ci parliamo, no?” brontolò.
Decisi che gli avrei detto qualcosa in giornata. Al massimo, avremmo potuto seguire la sua idea, ma senza l’intenzione di continuare il racconto, semplicemente come una cena molto atipica tra amici.
Mi addormentai molto più tardi, con in mente il pensiero di Robert e del suo bambino perduto.

C’era un uomo, nel sogno.
Era alto, prestante e aveva un modo di muoversi particolare, diverso dal comune, agile e dinoccolato, come spinto da un qualche tipo di energia interiore.
Aveva lunghe, corpose trecce brune che gli scendevano fino alle anche.
C’era un’ampia finestra alla sua destra, ma lui, per me, rimaneva in controluce,  si che ne vedevo solo i contorni del viso: i lineamenti erano molto belli, un po’ squadrati, il profilo affascinante.
Indossava una camicia bianca senza cravatta su una t-shirt chiara, forse giallina e jeans con una cintura di cuoio. Sorrideva verso qualcuno.
Ne seguii lo sguardo e vidi un gruppo di ragazzetti dalle facce curiose. C’era un grande silenzio nella classe. Lui stava insegnando, in un silenzio irreale.
Poi mi accorsi che non parlava, non con la voce: accompagnava movimenti della bocca piuttosto accentuati con gesti rapidi delle mani ed espressioni del viso. I ragazzi ascoltavano con gli occhi, rispondevano con le mani o battendo i piedi sul pavimento.
Qualcuno mimò qualcosa, tutti risero, senza disturbare il silenzio. Poi si accese una luce rossa e la classe si agitò.
L’uomo sorrise e lasciò liberi gli allievi, che corsero via salutandolo nel passargli vicino, chi con una stretta di mano, chi con una carezza sul braccio.
Quando fu solo il sorriso gli morì sulle labbra.
Alle sue spalle, sulla lavagna, erano scritti dei nomi. Platone freccia, Eudosso freccia, Aristotele cerchio.
L’uomo non cancellò; rimase là, seduto dietro la cattedra, da solo, a fissare il vuoto.
Chiuse gli occhi.
Qualcuno gridò dietro le sue palpebre chiuse, spari, stridore di freni.
Una voce gridava in una lingua che non conoscevo, l’uomo corse in casa…sangue, ovunque. Il corpo di una giovane donna e di un bambino, una culla vuota. Un grido disperato, troppa disperazione, tutta insieme, per una persona sola.
Mi svegliai di soprassalto. 

Qualcuno vicinissimo alla mia faccia faceva le fusa: “Che c’è, umana?” gli grattai la testolina morbida, mi misi seduta sul letto, accesi la luce cercando il mio piccolo ospite: era là, in fondo al letto, in un angolo e con il musetto un po’ contrariato: “Non preoccuparti, la tua umana arriva presto, sai? Tra qualche ora. Fai nanna, zia Eva vi ha messo un po’ di crocche, vedi?”
Micky si accomodò al mio fianco, facendo fusa sonore ancora per un po’, a beneficio mio e del nuovo amico. Forse avrei dovuto prendere un altro gatto, ci sarebbe rimasto malissimo quando il Mau se ne fosse andato.
Mi riaddormentai e sognai un mondo verdissimo, immenso, con strane, variopinte creature alate dall’aspetto grandioso e animali ancora più strani che correvano nelle praterie. Da lontano mi parvero cavalli, ma cavalli molto anomali. Un’ombra, accanto a me, disse una parola, ripetendola diverse volte, come a farmela rimanere impressa.
Calico…calico, continuai a ripetere.

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Mi svegliai a suon di schiaffetti morbidi e pungenti.
Un gatto, un grosso mezzo siberiano invadente. Il Mau, molto discreto, si stava lavando ai piedi del letto, lanciandomi occhiatacce di traverso di quando in quando.
Nove e mezza. “Ok, avete ragione.” Mi alzai e nutrii cane e gatti, aprii la porta del giardino lasciando Grigno libero di annaffiare le piante e mi infilai in bagno.
Non riuscivo a ricordare quella parola, a parte calico.

Marabel arrivò alle dieci e mezza, mentre io ancora cercavo di raccapezzarmi tra appunti, registrazioni e sogni.
Aveva una borsa da viaggio, alcune cose per i gatti e una cartella con foto di quadri impressionisti piuttosto interessanti. “Non hai idea, certa gente sembra poveraccia, poi entri in casa loro e scopri che sono Paperoni! Volevo sbirciare se avessero una vasca piena di dollari!”
“Senti, ma…” iniziai. Non sapevo bene come continuare, mi sentivo una ficcanaso: “Robert…hai detto che faceva?”
Lei mi guardò sorpresa: “Eh? Faceva? In che senso?”
“Di mestiere”
“Oh!” mi scrutò accigliata: “Eva, non l’ho detto, non mi pare…perché?”
Presi un respiro: “No, perché, non l’ho fatto apposta, eh, ma ho fatto un sogno o due un po’ strani, ecco”
Mi guardò interrogativa, pareva vagamente divertita: “Cioè, io ho sognato questo signore, no, un gran bel tipo direi, anche se non lo vedevo benissimo e insegnava filosofia, non in un liceo qualunque, ma a ragazzi sordi. Aveva due treccione fino qui che mi venderei la mamma per avercele!”
Lei mi guardò malinconica: “Oh, si, era lui! Eva, che bello! Sei davvero una persona speciale, io sono sicura di non avertene parlato. Robert a Boston insegnava filosofia e storia in una scuola per ragazzi sordi. Boston è una città molto, molto avanzata in questo campo, vedi gente parlare in Gestuno o in altri dialetti gestuali più o meno ovunque. È molto bello, si.
Robert era un grande insegnate ed era molto contrario alla mania che si ha in quasi tutto il mondo di costringere i ragazzi sordi a parlare: diceva che è bene che sappiano esprimersi anche verbalmente, perché non tutti sono in grado di capire i linguaggi gestuali, ma che è discriminante e innaturale obbligarli a fingere di essere non sordi, anzi, secondo lui, il linguaggio gestuale dovrebbe essere insegnato anche agli udenti, per la ricchezza espressiva e comunicativa che possiede. Si, hai sognato giusto, davvero e io sono certa di non averti dato alcuna indicazione che potesse influenzarti. È ammirevole”

Non le dissi l’amarezza di quel sogno, mi limitai a raccontarle della lezione, dei ragazzi che salutavano toccandosi il viso e poi la sua spalla, del loro modo di comunicare silenzioso e affascinante e lei si commosse: “Era proprio così.
A scuola spesso usava camicie chiare e si legava i capelli in due  lunghe trecce da quattro ciocche.
Era stupendo con i ragazzi, loro lo adoravano e lui era un buon padre per tutti. La sua Gente ha un rapporto particolare con i linguaggi gestuali: in una terra così grande, con grandi distanze e popoli diversi con lingue molto diverse, il linguaggio dei gesti, codificato ed uguale per tutti, quasi una lingua internazionale, era un metodo ottimo di comunicare senza difficoltà. E tutto senza disturbare il silenzio profondo intorno, prendendo la Terra a testimone dei propri dialoghi. Non è fantastico?” concluse con il gatto in braccio.
Lo era, si. Ripensai al silenzio assoluto in quell’aula, al sorriso dell’insegnate mentre raccontava loro di un tempo e un paese lontano, come in una favola, soffocando il suo dolore personale, cercando nei suoi allievi gli occhi di suo figlio.

“E poi ho fatto un altro sogno, però. C’era tipo una specie di scienziato alle mie spalle che mi indicava cosi simili a cavalli e mi ripeteva una parola, ma io non la ricordo, accidenti!”
“Oh! Che peccato!” fece delusa, continuando a sbaciucchiare il micio.
“Beh, ricordo calico, ma mi pare non c’azzecchi niente…” bofonchiai.
Marabel rifletté per un po’.
Posò il micio e si mise davanti al mio portatile: “Calico…calico…e basta? Non so, non ti viene una qualche sensazione, qualcosa che potremmo associare?”
“Beh, so che ti sembrerà una stupidaggine, ma continuo a pensare agli elicotteri…” mi sentivo molto stupida.
“Calico…elicottero…calicopter…CALICOTERIO, ma certo, come ho fatto a non pensarci?” esclamò: “Ecco, guarda!”
Mi abbassai per vedere lo schermo, perplessa: una strana creatura, apparentemente di dimensioni notevoli, con zampe posteriori parecchio più corte di quelle anteriori e una testa simil equina ci sbirciava dalla ricerca immagini, quasi imbarazzata da tanta attenzione.
Sembrava un pasticcio di diversi animali, come se qualcuno si fosse divertito a mescolare specie totalmente diverse: “Alla faccia degli OGM! Un cavallo-orso-gorilla poliploide!”
“È fantastico!” ribatté Marabel: “A quell’epoca non c’era internet, si era alle prime sperimentazioni e le informazioni dovevi reperirtele come nelle migliaia di anni precedenti, andando in biblioteca e sperando di azzeccare il testo giusto. Ci voleva tempo e noi non ne avevamo molto, non da dedicare a qualche particolare di una visione…discutibile.” Sospirò.
“Quindi non ci serve a granché?”

Marabel stampò un’immagine di quel coso che io non mi sarei mai sognata di cavalcare, nonostante l’aspetto piuttosto mite. “Non è detto. Voglio dire, non ci serve per quanto riguarda la vita del Faraone, ma potrebbe servire parecchio se mi fosse possibile…” si fermò: “Se ci fosse possibile” ripeté calcando sul ci e facendomi sentire come un pavone: “Indagare sulle infinite tracce che mi ha lasciato negli anni quest’esperienza.
Le visioni, per esempio, erano così grandiose, sai, di quelle che ti viene voglia di poter riacchiappare quel mondo e sistemartici sperando che le cose, in seguito, vadano diversamente. Comunque, con Maggie e il Criptoarcheologo, che ci raggiunse entusiasta trascinandosi dietro il povero ipnotista, trovammo alcune immagini di un animale che ci sembrò la cosa più simile a quelli della nostra visione, il Tylocephalonyx.” Cercò rapidamente e mi mostrò l’animale.

Era molto più rassicurante del precedente e veniva citato come perissodattilo appartenente alla famiglia dei Calicoteri, ma di dimensioni più modeste e simile ad un cavallo massiccio, con un forte dislivello tra le zampe anteriori e le posteriori. “A me, però, quelli del sogno parevano parecchio più grandi”
“Si” confermò Marabel: “In effetti era la sensazione che avevamo tutti, ma il Tylocephalonyx è tipico del Nordamerica e si estinse intorno ai cinque milioni di anni fa, almeno per quanto ne sappiamo.
È molto difficile capire a che periodo si potessero riferire quelle visioni: gli Pterosauri e i Calicoteri non dovrebbero aver vissuto nello stesso periodo, in teoria, ma quegli animali erano tutti molto simili a creature la cui esistenza ci è nota, ma non uguali, come si fossero evoluti per i fatti loro, in un certo senso.
Non so, hai presente l’ornitorinco,  il kiwi o il canguro? Animali che si sono fatti la loro strada in una terra rimasta isolata dagli altri continenti, evolvendosi secondo le loro necessità e preferenze.
Se quel mondo è realmente esistito…forse gli Pterosauri non vi si estinsero, almeno alcuni tipi, e continuarono il loro cammino, incontrando, ad un certo punto, animali come qualche tipo di Calicoterio.”
“Tipo un Tilocoso più grandino e meno sproporzionato?”domandai.
“Tipo…”
“Beh, Marabel, se è davvero così, mi chiedo quante cose Sua Maestà dovesse avere da ricordare, no?” lei sorrise: “Immagino che, se le cose stessero davvero così, tutti dovremmo avercene di cose da ricordare.”
Mi lasciai cadere sul divano in una sorta di improvviso sfinimento: visioni folli, azzardate, i miei sogni sicuramente influenzati dai suoi racconti, ma con Robert ci avevo preso…c’era, c’è, qualcosa di vero, di reale, in quella che consideriamo ogni giorno la realtà?
Qualche anno prima avevo sentito, in un programma televisivo, una discussione sui libri scolastici e le continue riedizioni. La presentatrice diceva: “Posso capire libri di geografia o scienze, ma la storia è quella, ormai non cambia, le cose sono andate così!”
Mi ero sentita profondamente irritata: la storia ha tante di quelle lacune, menzogne, ipocrisie, che se davvero non cambia, allora siamo rovinati!
Eppure io pensavo semplicemente a menzogne politiche, secondo il famoso detto che la storia è scritta dai vincitori.
Ora, mi rendevo conto, la faccenda si faceva immensamente, infinitamente più complessa: sembrava che TUTTO ciò che conosciamo, non fosse che un’immensa bufala!

Si erano fatte le undici, intanto.
Portai Marabel a vedere la soffitta delle pietre, quelle che non avrei portato a Sainte Marie e che erano rimaste al loro posto.
Avevo lasciato nella collezione “La Bestia”, un Ametrino geminato alto circa mezzo metro, trovato in un grosso geode sotto il ghiacciaio non lontano da casa della zia Greta.
È una pietra strana: un quarzo a doppia punta, viola e giallo aranciato, che ti fissa minaccioso da una specie di piedistallo approntato apposta per lui, non dovrebbe passare inosservato, no?
Invece, nella maggior parte dei casi, succede. La gente passa, guarda, osserva, vede minerali e pezzi più o meno rari e più o meno pregiati, ma non vede la Bestia, come fosse invisibile, o non volesse farsi vedere.
A volte, trovandosi vicino, le persone provano fastidio, nervosismo, mi  chiedono di uscire adducendo le scuse più assurde, altre volte provano un senso di piacevolezza e non vorrebbero andarsene.
Ho imparato a capire chi mi sta di fronte osservando la reazione alla presenza di quel sasso.
Marabel entrò nel solaio con gli occhi sgranati, saettando con lo sguardo di qua e di là a registrare tutto ciò che conteneva, per non perdersi una virgola, e non era ancora del tutto entrata quando il suo sguardo si fissò sulla Bestia: “Ohmmioddio!” esclamò.
Bene, tanto per cominciare lo aveva visto e già era un punto a suo favore.
Si avvicinò, contemplandolo da tutte le angolazioni, mentre le spiegavo dove lo avessimo trovato: “E quindi i ragazzi della zona stanno cercando di portare fuori tutto quello che si può, perché con i movimenti del ghiacciaio la fessura si chiuderà e non sarà più possibile raggiungere il geode. Quello che rimane dentro potrebbe finire schiacciato dalla massa di roccia e ghiaccio e sgretolarsi, semplicemente.”
Lei annuiva, persa nei colori e nella luce del mio pietrone.
“Posso?” Io annuii e lei sfiorò le pareti lisce e trasparenti con la punta delle dita.
Quella pietra è strana: è in grado di accumulare una grande quantità di elettricità statica dall’ambiente e poi mollare scosse epiche a chi lo tocchi, me compresa.
Lei lo abbracciò e non successe nulla.  
Tornando di sotto le esposi la proposta di Franco, che accettò con entusiasmo: l’idea di cenare in tre con uno dei tre a quasi ottocento chilometri la divertiva molto.

Visto che saremmo state a casa per cena, proposi di uscire a pranzo. Mi rilassava trovarmi ad un tavolino per due in qualche localino grazioso, senza dover pensare ad apparecchiare, lavare i piatti o preparare il caffè. Misi la pappa ai gatti, presi Grigno e ci avviammo verso un bar trattoria ad un isolato, piccolino, con un sacco di gente di uffici e scuole in una delle sale, quasi nessuno nell’altra, piccola e scomoda, dal momento che i camerieri passavano di là entrando e uscendo dalla cucina.
A noi non interessava: ci interessava guardare fuori, nel giardino, e stare tranquille.

“Siamo arrivate che al Cairo vi avevano raggiunti il signor Maggie e il tuo ipnotista. Che successe, dopo?”
“Partimmo per il viaggio sul Nilo due giorni dopo. Viaggiare con mio padre, uno psicologo ipnotista molto atipico, un archeologo altrettanto alternativo e Maggie, non poteva definirsi un viaggio noioso.
Mi divertivo, si, ma ero anche distante. Mi sentivo vuota, inutile. Bruciata.
Vedevo Floyd ovunque, avrei voluto scappare da quel clima tremendo, tornare là, andare a cercarlo, dimenticando tutto il resto, ma restavo incollata dov’ero. Non sapevo, veramente, se il sorriso che vedevo balenarmi davanti agli occhi di continuo fosse di Floyd o dell’uomo che stavo cercando.
Floyd mi aveva lasciata per non spezzarmi, ma io continuavo a sentirmi così e continuai ancora per molto tempo.
Non so cosa avrei fatto se me lo fossi trovato davanti, una volta o l’altra.
Lo vedevo arrivare camminando dinoccolato verso di me, quasi scivolasse.
Lui, nel mio sogno ad occhi aperti, si guardava intorno perplesso per tutta quella sabbia, un po’ critico, probabilmente costruendo nella sua mente boschi ombrosi di sequoie millenarie.
Sbattevo le ciglia e vedevo un altro passo, un'altra figura simile e diversa.
Non vedevo il suo aspetto malato, gracile e sofferente, ma vedevo quella figura regale e slanciata che mi accompagnava nei sogni o nelle visioni indotte da ipnosi o altre esperienze, e poi mi rendevo conto di essere sola.
C’erano i miei, c’erano persone care, eppure ero sola.
Non ricordo granché di quel viaggio.
Ricordo Giza, si, ma non mi suscitò sensazioni particolari. Mi era estranea, nonostante i sogni:  se avevo avuto un rapporto forte con quelle creature di pietra, dovevano essere molto diverse da ora. Ora le vedevo morte.

Un giorno arrivammo presso Amarna.
Ne fui cosciente ben prima di arrivarci: iniziai a sudare freddo e sentirmi male. Tremavo e avevo difficoltà a respirare.
È innegabile che avessi vissuto esperienze orribili negli anni ad AkhetAton, ma ci avevo vissuto, me ne ero andata ed ero tornata diverse volte. L’atmosfera che ricordavo, in quei casi, era amara, di abbandono e trascuratezza, ma niente che giustificasse il mio attuale terrore.

Ero sul ponte quando la nave si avvicinò all’approdo.
Era cambiato: non era che sabbia e sterpi, basse vestigia ordinatamente restaurate e circondate da transenne che le dividevano dalla boscaglia poco lontano.
Non c’erano giardini, fontane, giochi d’acqua, ancelle riccamente abbigliate, suonatori e pittori nelle strade e nei corridoi. Non c’erano nemmeno più i corridoi, a dire il vero, se non qualche traccia dell’impiantito.
Arido, privo di colore, privo della vitalità frenetica che lo aveva percorso.
Scendendo dalla nave vidi il fiume trafficato di barche da pesca, da trasporto, vidi gente affollare il pontile con carichi in arrivo o in partenza, una folla mobile e multicolore che si agitava indaffarata intorno a me.
Non c’era nessuno, solo sabbia e qualche gruppo di turisti carichi di obiettivi, filtri e opuscoli informativi.
Un paio di guide locali.
L’Orizzonte dell’Aton era spoglio e morto.
Entrai, dove un tempo erano le porte della Città del Sole.
Sentii la sua voce: “Sei arrivata, sei qui! Non sai quanto mi sei mancata!” aveva undici anni, correva, anche se con un’andatura un po’ irregolare, saltando giù dal cavallo ancora in corsa. Presto non avrebbe più corso, né cavalcato. Presto, troppo presto.
Il suo faccino sorridente faceva la fossetta nella guancia destra. Gli occhi dorati irradiavano gioia, troppo grandi in quel visino minuto.

Mi sforzai di fare qualche altro passo, entrai nel perimetro di AkhetAton…una guida farneticava sulle meraviglie di quel faraone incompreso.
Non andare mai ad AkhetAton, Is, promettilo!” era al mio fianco, in piedi.
Non si appoggiava al solito bastone, sembrava stare piuttosto bene.
Lo guardavo senza capire, doveva avere diciotto anni.
“Che significa, Am’n? Non ho motivo per tornare laggiù se tu non ci vai, ogni volta sono tornata per te. Cosa temi?”
Strinse le labbra, si guardò attorno furtivo: “Che io ci sia o meno, non tornare mai ad AkhetAton, per nessuna ragione. Là vive qualcosa. Il male  vaga nei suoi giardini abbandonati” c’era ansia nella sua voce, pure sommessa.
Io lo guardavo incredula: “Heru Ra? Il Gran Visir e sua moglie vi si fermano ogni volta durante i viaggi tra Men Nefer e Waset…non hanno mai riferito nulla di spaventoso o almeno sospetto, né la loro servitù o le guardie. È solo una città abbandonata, abitata dai suoi fantasmi e dai ricordi di un fasto rubato. Quale malvagio essere potrebbe nascondervisi?”
Lui mi prese il viso tra le mani: “Un male nascosto, un segreto oscuro vive in un’area di quello che fu il palazzo di Ekhnaton. Aye e Tey non lo temono, perché loro lo hanno generato, essi ne sono servi e padroni”

Tornai al presente con il fiato corto. Mia madre era accanto a me e mi sosteneva, lo sguardo preoccupato.
La voce chioccia e saccente della guida mi ferì le orecchie come il suono stridente di una segheria in piena attività. Cercai attorno, camminai tra quei muri spolverati e picchettati, tra i mosaici cintati e le colonne decapitate, cercando.
Qualsiasi cosa ci fosse stata, qualsiasi male, doveva essere morto da tanto tempo. La Città del Sole ristava là, silenziosa e gelosa dei suoi segreti, si lasciava lisciare, studiare, ammaliando chi le si avvicinava.

“Ho promesso!” esclamai: “Ho promesso che mai avrei rimesso piede ad AkhetAton!”
Scappai fuori dal sito, fuori dalle mura ormai scomparse, fuori dalle porte inesistenti, sulla banchina.
Dal pontile riuscii ad intuire dove fosse il tempio di Kiya e mi ci diressi: ne sentivo la dolce protezione, mi sentivo al sicuro.
Un tizio mi fermò, dicendo che non c’era nulla, che non potevo proseguire.
“C’è il Meruaton, là” il tipo era piuttosto grosso, ma non altrettanto sveglio.
Mi guardò con gli occhi di fuori: “No, no, non c’è, non c’è, niente…” si guardava attorno smarrito, cercando qualcuno cui chiedere delucidazioni: “Ci sono scavi, non si può andare!” mi apostrofò in un inglese stentato.
L’Americano, arrivando alle mie spalle, intervenne gioviale: “Oh, gli scavi del piccolo tempio, potremmo dare un’occhiata? Non tocchiamo nulla!” e lo vidi allungare un paio di bigliettoni all’operaio.
L’altro incassò, gettò un’occhiata furtiva intorno e ci fece cenno di andare avanti. L’Archeologo, Maggie, io.
Papà, a malincuore, restò oltre le transenne con mamma e l’ipnotista.

“Si sente dolcezza, Mary” sussurrò Maggie poco dopo.
Io non c’ero. La mia mente rivedeva un bimbo di quattro anni piangere sul greto del fiume.
Dove ora era un pezzo di scavo cintato, con la scritta “Do not cross”, dondolante sul nastro a strisce bianche e rosse, tanto tempo prima c’era il rifugio della Sposa Giovane e, nonostante il furto di identità perpetrato dalla Reggente, la quieta dolcezza di Kiya vi aleggiava, ancora dopo trentatre secoli.

Là mi avevano portata col Principino il giorno dell’assassinio, là ci rifugiavamo per giocare, là vicino facevamo il bagno, là avevamo passato una notte abbracciati.
Is amava quel tempietto, ma solo ora, nel ventesimo secolo, mi rendevo conto di quanto lo Spirito di Kiya ci avesse protetti: “Tu hai cura del mio bambino?” la vidi sfiorarmi il viso con la punta delle dita: “Abbi cura del mio bambino”

Cercai un fiore e lo posai oltre la transenna.
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“Ma di che cosa parlava? Che diavolo era questo male?”
Eravamo praticamente sole nella saletta, a parte un gruppetto di impiegati in pausa pranzo ad un tavolo non abbastanza vicino da poter origliare.
Marabel scrollò le spalle: “Non ne ho la certezza, anche se…”
“Anche se?!?” ero tutta protesa verso di lei.
“Ho una teoria. Ricordi gli attentati, quanto avevamo cercato di scoprire chi fosse a capo dei gruppi che tentavano di uccidere il Faraone, senza successo?”
“Ma avevate catturato tutta la banda! No, aspetta, ora ricordo: avevate preso  due cellule attive, ma non i capi.
Gli appartenenti alle cellule non conoscevano chi fosse veramente il vertice della confraternita e quello che consideravano come loro capo  venne ucciso in carcere prima di poter essere interrogato. Era stato il tuo futuro marito a sospettare che il capo non fosse il capo. Giusto?”
“Esatto. Se ricordi, l’assalto alle barche reali era avvenuto poco prima di AkhetAton, mentre risalivamo il fiume verso la Capitale e, il giorno dopo, il convoglio con i prigionieri aveva attraccato proprio ad AkhetAton e, benché non ci fossero i mezzi di oggi a trasmettere le notizie, la rapidità con cui era stato ucciso in carcere il visir era stata davvero sorprendente. D’accordo, potremmo pensare che fosse normale non lasciarlo in vita,  ma si trattava di un personaggio di spicco nella società di allora, per cui credo di non essere lontana dalla verità a pensare che ci volesse un ordine dall’alto per farlo fuori.
Sapevamo che doveva esserci qualcuno all’interno della Corte, qualcuno tanto vicino al Faraone da sapere in tempo reale cosa stesse succedendo…e sappiamo come Sua Maestà non riuscisse a leggere nel cuore di Aye, che quindi sarebbe stato libero di muoversi come voleva.
Io, a quel tempo, davo per scontato che lui e la vecchiaccia fossero dietro ogni malvagità, naturalmente, ma il Faraone, pur non fidandosi, pur sopportandoli a fatica, non smise mai di ripetere come non fosse Aye il pericolo maggiore, o meglio, che, se fosse riuscito a liberarsene, sarebbe caduto dalla padella alla brace, finendo in una situazione peggiore che con lui.
Io desiderai sempre poterlo eliminare: ogni giorno speravo che qualcuno ci chiamasse dicendo che il Gran Visir era perito a causa di un serpente, di un attacco di febbre o qualsiasi altra cosa, ma non accadde mai.
Il Faraone era fragile e tutto sommato Aye era molto protettivo verso di lui, anche se in modo del tutto interessato, ma Sua Maestà sapeva di correre rischi, finché quell’uomo era al suo fianco, tutto sommato ben inferiori al disastro in cui si sarebbe trovato con la sua scomparsa.
Sapeva di doversene guardare, ma sapeva anche di poterlo controllare.
 Inoltre escludeva che fosse lui il capo dei cospiratori, cosa per me assurda. Anche mio marito era quantomeno dubbioso in proposito, ma rispettava le convinzioni del Faraone.
Ma se avesse avuto ragione lui? Se ci fosse stato qualcosa o qualcuno di ignoto, nascosto nella città morta, qualcuno in contatto con tutto il Regno, con agganci così in alto da poter arrivare ovunque? Se il vero nemico non fosse stato il Gran Visir, ma qualcosa di peggiore e più subdolo?”

Una cameriera ci portò melone e prosciutto, insalata capricciosa, insalatina con gamberetti, vitel tonné, tomini al verde e vol au vents ripieni di un paté di tonno e acciughe con qualcosina sopra.
Erano solo gli antipasti, e avevo seri dubbi che sarei arrivata fino in fondo. Per fortuna non avevo preso il primo. E meno male che era un posticino economico.
“Sua Maestà aveva un grande potere da bambino, ma man mano che i suoi problemi di salute aumentavano, iniziò a faticare sempre più anche con le sue facoltà psichiche. Ricordi, aveva delegato a me il compito di “leggere” le persone che lo circondavano, perché per lui era sempre più stancante.
Lottare mentalmente, tenere testa ai dignitari, gli provocava grande fatica, dolori e giramenti di testa, perfino svenimenti  e peggiorava sempre di più ed era per forza costretto a limitare le mire di Aye senza potersene liberare, perché aveva bisogno della sua forza e del suo grande ascendente sia sulla corte, che sui paesi vassalli o amici.
E forse anche su quelli nemici.
In ogni caso, non solo non considerava Aye il principale pericolo, ma addirittura una specie di garanzia.
Tra l’altro, dal momento in cui lui aveva definitivamente eliminato AkhetAton dalla propria vita, la Sposa Reale continuò a fermarsi con il Gran Visir e un manipolo di servitori: qualsiasi cosa ci fosse in quel posto, non rappresentava un pericolo per Ankhesenamon.
Sai, c’è una stranezza tra le tante, riguardo quel posto.
Gli scavi dimostrarono come la città, ad un certo punto, fosse stata abbandonata in fretta e furia, quasi evacuata.
La gente pare essere letteralmente scappata…non alla morte di Ekhnaton, ma parecchi anni dopo, dopo la morte del Fanciullo.
Non dimentichiamo che Ankhesenamon si rifugiò proprio là alla morte del fratello, di là scrisse le famose lettere al Re Ittita e sappiamo che era terrorizzata da qualcosa, quindi…chiunque o qualsiasi cosa la terrorizzasse, riteneva non l’avrebbe raggiunta nella sua vecchia casa, dove si sentiva al sicuro.
È quindi logico pensare che la città fosse, almeno in minima parte, ancora attiva e abitata.
Naturalmente sarebbe interessante capire quando e perché venne poi abbandonata in fretta e furia.”
“Le lettere che Ankhesenamon scrisse al re Ittita furono trovate ad Amarna, ma non potrebbero essere state portate dopo?”
Marabel inghiottì un pezzo di melone: “In ogni caso dovevano essere copie, altrimenti vorrebbe dire che non furono mai recapitate, ma noi sappiamo che per ben due volte partirono delegazioni dal regno Ittita dirette in Egitto. Ed entrambe le volte scomparvero misteriosamente prima di arrivarci.
Qualcuno non voleva che Ankhesenamon svendesse il trono al nemico storico, questo è ovvio, ma, siamo da capo: la Vedova Reale poteva essere così tonta da far trapelare le sue intenzioni? Come poteva il Generale essere a conoscenza delle lettere? Perché certamente ci fu lui dietro la scomparsa delle delegazioni”
“Era il Generale, però…” considerai. Lei mi guardò interrogativa.
“D’accordo, Ankhesenamon era stata in mezzo alla politica da prima di nascere, ma, sinceramente, Marabel, sia da come appare storicamente, ancor di più attraverso le tue parole, non mi pare fosse esattamente un genio! Sembra che, per tutta la vita non abbia fatto altro che subire pressoché passivamente ciò che le succedeva intorno.
Io non mi stupirei se avesse commesso qualche errore e si fosse fatta scoprire da gente molto più sveglia di lei, come il Generale o qualche suo uomo, o come il nonnino santo…pensi che Aye si sarebbe fatto scrupoli a far secco qualche pretendente, anche se questo avesse reso molto infelice la nipotina? Soprattutto se lei avesse cercato di fargliela sotto il naso, chiedendo aiuto ai nemici giurati?”
Fece una smorfia: “Non so. Di sicuro Horemheb dovette provare brividi di gioia all’idea di poter mettere le zampe attorno al collo di un paio di Ittiti! E Aye non si oppose, evidentemente.”
Fece una faccia deliziata assaggiando i tomini: c’era un sacco di bagnetto sopra e attorno.
Erano ottimi, ma al mio palato sapevano di segatura: se la Vedovella era tanto astuta da non farsi scoprire dal Generale e dall’adorabile nonnino, come poteva essersi fatta beccare dal misterioso nemico nella città abbandonata?
Che si fidasse totalmente?
“Quindi…tu non sai cosa o chi fosse questo essere malvagio”
Scosse la testa: “Ho solo qualche teoria, una in particolare.” Disse cauta.
“Cioè?”
“Forse non erano morti tutti, nella famiglia reale. Forse…qualcuno aveva fatto solo finta.
Ci sono infiniti dubbi su parecchie morti presunte, in quegli anni, perfino Merytaton è considerata da alcuni la principessa sepolta in Scozia ed è difficile barcamenarsi in quel caos. Quel che è certo è che le morti accidentali erano molto, molto frequenti in quel periodo ed Ekhnaton, pur molto malato, fu ucciso durante una tempesta di sabbia da un gruppo di rivoltosi i quali, pur non avendo mai messo piede ad AkhetAton, sapevano perfettamente come muoversi e dove trovare il faraone, nonostante l’oscurità provocata dai forti venti e dalla sabbia.
Dovevano per forza avere qualcuno infiltrato all’interno del palazzo reale, non solo entro la città. Il popolo mica sapeva quali e dove fossero le stanze private del faraone, non sapevano nemmeno esattamente come fosse il suo stato di salute, figurati! Il colosso d’argilla costruito dall’Eretico stava andando in pezzi un giorno dopo l’altro, e a corte molti cominciavano a rendersi conto di quanto fosse poco sicuro far parte di quella famiglia: molto meglio sparire e aspettare tempi migliori, manovrando nell’ombra”
“Vuoi dire che qualcuno sparì, si fece fare un funerale e invece continuò a dirigere i giochi di nascosto da dentro la stessa città senza mai essere scoperto? Ma chi poteva fare una cosa del genere? Ci voleva una grande, grandissima  astuzia, capacità e soprattutto mezzi! Non penso fosse difficile sparire, ma restare si, eccome! Aye e Tey hanno generato quel male, ne sono servi e padroni…” ripetei tra me.
Lei sorrise: “Già”
È buffo, vero? Ero in un ristorantino a tremila chilometri ed altrettanti anni, eppure provai una fitta di terrore.
Per un po’ non parlammo.
Forse, dopotutto, pterosauri e piramidi non erano eventualità così improbabili, al confronto. Sicuramente erano molto più rassicuranti.
“Ma voi vi fermavate, vi siete fermati tante volte durante il viaggio, era abituale e tu stessa hai detto che AkhetAton era un posto sicuro, lontano dagli intrighi…” annuì.
“Ovvio. Il demone che si nascondeva tra quelle mura non avrebbe mai agito apertamente contro qualcuno là: non c’è posto più sicuro che la casa dell’assassino. Di solito, almeno.
In ogni caso, Sua Maestà e io, così come la sua Corte, non andavamo mai nell’altra parte della cittadella reale, lo notai fin dalla prima volta in cui tornai ad AkhetAton dopo l’incoronazione. C’era un’ala del palazzo completamente chiusa a chiunque, ma…” alzò l’indice: “Mi capitò di vedere un paio di servitori attraversare i giardini e sgattaiolare dentro l’ala proibita con degli involti, oppure uscirne furtivamente e quasi di corsa.
Lo dissi al Faraone, naturalmente, ma lui si limitò a sorridere e rispose: “Non preoccuparti.”
Lo strano è che io non tentai mai di insistere, né di andare a ficcare il naso e questo non era da Iset. Qualcosa nel suo tono o nella sua risposta doveva avermi allarmata”
“Quindi lui ne era sempre stato a conoscenza? Sapeva fin dall’inizio che là c’era qualcosa o qualcuno che non avrebbe dovuto esserci?”
Marabel giocherellò per un po’ con la forchetta nell’insalata con i gamberetti: “Saperlo lo sapeva, si, ma non sembrava preoccuparlo, almeno in apparenza. Era al corrente di ciò che succedeva, ma faceva finta di nulla, mantenendo una specie di tacito accordo di non belligeranza. Era come se volesse lasciare il suo spazio a quell’essere, fingendo di ignorarlo: io non ti attacco, tu non mi attacchi, almeno mentre siamo qui.
Lui terminò di smantellare le tombe, fece portare via tutti i tesori che potevano essere trasferiti senza creare danno e poi chiuse ufficialmente la città.
Solo il Gran Visir e il suo seguito continuarono a sostarvi. Vien da chiedersi perché non potesse semplicemente mandare dei soldati a sfondare le porte del palazzo, buttare tutto all’aria e arrestare qualsiasi cosa vi si nascondesse, ma non lo fece. Qualsiasi cosa fosse nascosta là dentro, doveva essere così importante o potente da non poter essere imprigionata, o forse…”
“Forse?” incalzai.
Alzò gli occhi a guardarmi: “Forse c’era un vero e proprio accordo, come dicevamo prima.
Un essere che non poteva mostrarsi in giro per qualche grave motivo, cui era permesso dal Signore dei Due Regni di rimanere là, al sicuro. Il quale, evidentemente, ad un certo punto, decise di non rispettare gli accordi e tentare di far fuori il sovrano. O forse quel male non era colpevole degli attentati, ma della morte accidentale del visir catturato, per evitare che questi si lasciasse scappare segreti ben più segreti, qualcosa che avrebbe creato un caos indescrivibile perfino per quel periodo.
Questa storia non è finita, Eva. Non lo fu allora e non lo è adesso, non c’è una parola fine. Quando io avrò terminato il mio racconto, tu non avrai tutte le risposte, ma mille altre domande. Non vedrai un’opera compiuta, ma un abbozzo da cui molte strade si dirameranno senza trovare una meta. Siamo qui, in un punto del tempo, persi, orfani nel mezzo di nulla e camminiamo verso un qualche compimento. Non è finita, no. È  appena incominciata.”

Sentii un brivido: come in un film di fantascienza i protagonisti di quella storia continuavano ad inseguirsi attraverso epoche e millenni, combattendo battaglie inesorabili di cui l’umanità non era lontanamente a conoscenza, ma di cui, ignara, subiva gli effetti.
E, come in ogni film che si rispetti, la povera Eva si trovava a far parte di quel gioco, suo malgrado, solo per avere deciso, un giorno di primavera, di chiacchierare con una donna sola e misteriosa.

“Giorni dopo arrivammo ad Al Uqsur. La prima volta ero arrivata in aereo, atterrando sulle piste accanto alle quali troneggiava una grande scritta “LUXOR” grigio argento in campo bianco.
Luxor aveva il sapore di lusso e gli autoctoni facevano di tutto per sbandierarlo con luci, marmi, decori a metà strada tra ostentazione e patinata tecnologia.
Pur non avendo che poche briciole del suo passato, era la città dei Faraoni e l’atmosfera era permeata dalla loro grandiosità e dal loro potere.
Ne sentivi il peso, come avessi avuto gli occhi di intere dinastie puntati addosso, con tutto il loro mistero mai svelato…perché, diciamocelo, Eva, gli egittologi possono aprire tombe, numerare reperti, fare TAC ed ecografie a tutte le mummie possibili, ma non saranno mai in grado di afferrarne l’essenza.
Capiranno le stesse cose che puoi capire oggi di una civiltà guardando la pubblicità di un detersivo, niente altro.
Il mistero rimane e rimarrà tale.”
Si interruppe per spalmare un po’ di bagnetto verde su un pezzo di pane: “Arrivare via fiume fu per me perfino più traumatico: chiudendo gli occhi vedevo l’attracco come era stato un tempo e non riconoscevo nulla. Sentivo, da qualche parte, la presenza della mia città, ma era come spostata in un’altra dimensione, in uno spazio-tempo invisibile e impercettibile. Non ero a Waset, ero a Luxor. Ed ero straniera.
Per quanto cercassi informazioni, non c’era traccia del Tempio di Iside, né la gente aveva idea di dove potesse essersi trovato, anticamente. Molti sostenevano che quella fosse la città di Amun e che i templi fossero dedicati a lui, ma non era che l’ignoranza di un popolo che ha perduto la sua stessa memoria: ero io, la straniera, a ricordare loro come Tebe fosse descritta come la città dalle cento porte e che ogni divinità o quasi del panteon egizio avesse un suo luogo di culto, ed ero sempre io a ricordare che il nome della città era stato Waset, la città di Iside guerriera.
Alcuni mi guardavano male, altri scrollavano le spalle infastiditi.
Il tempio che descrivevo non aveva lasciato tracce.
“C’erano pochi minuti di cammino tra il Tempio Settentrionale e quello di Aset” spiegai la sera ai miei compagni di viaggio.
“Il tempio di Aset era più chiuso, un insieme di sale che dirigevano verso il centro della costruzione dove c’era la grande statua della Dea presso cui  officiare.
C’era una statua in ogni sala, più piccola della statua principale e ognuna guardava in una diversa direzione, poiché Aset conosce tutte le risposte e tutti  i nomi.
Quando Sua Maestà fu costretto a dedicare le statue del Tempio Meridionale a se stesso e alla sorella in quanto Coppia Reale, trovò la scusa della morte della bambina e del voler invocare la protezione della Dea per far costruire  per me…ehmm, per Aset, una statua alta un paio di metri, piedestallo compreso, in diorite e oro. Aveva le mie fattezze, rappresentava Aset alata e le piume erano tutte intarsiate con lamine d’oro.
La fece sistemare nel cortile d’accesso al tempio, in modo che guardasse verso il Palazzo Reale e la inaugurò con la preghiera di un figlio per il bene dell’Egitto. Tutto il popolo era in estasi davanti a quella meraviglia. La fece lasciare sul piazzale per settanta giorni, poi venne trasferita all’interno del Tempio.
Non ne resta traccia, come ti dissi tempo fa. Non ne parlano i testi dell’epoca e questo mi fa credere che non sia rimasta al suo posto a lungo, dopo la scomparsa del Faraone.
Cercammo qualche riferimento dovunque fosse possibile, ma inutilmente: la statua di Aset Vittoriosa non era mai esistita, come non era mai esistita la Farfalla Blu.
Mi sentivo impotente e frustrata.
I miei compagni non avevano dubbi su di me, erano mogi e altrettanto frustrati per le ricerche infruttuose, ma mai misero in dubbio le mie parole e io mi chiedevo come facessero ad avere tanta fiducia in me, se io non ne avevo una sola briciola.
Giorni dopo andammo in visita alla Valle dei Re.
Papà era riuscito ad ottenere il permesso per visitare la tomba del mio Faraone, e, sebbene io avessi sempre affermato di non essermici mai recata e nonostante sapessimo che non avevo preso parte alla sepoltura, sia lui che i nostri compagni ritenevano che per me fosse molto importante visitarla.
Nonostante ripetessi di non esserci mai stata, quando arrivammo nei pressi degli scavi, mi diressi con sicurezza verso il sito giusto, tanto rapidamente da lasciare indietro sia la guida che i miei.
Non cercai l’ingresso, mi recai in un altro punto poco lontano, in un’area di pietraia. Mi fermai davanti ad una roccia, come in trans, e continuai a fissarla inebetita, finché, con fare indifferente, l’archeologo e Maggie non mi raggiunsero. Fingendo di chiacchierare, Maggie iniziò a parlarmi per scuotermi da quel torpore e ricondurmi indietro.
“Che cosa c’è, qui, Mary? Non possiamo metterci a scavare, nemmeno di notte, finiremmo in guardina in men che non si dica” io la guardavo senza capire: “Che cosa c’è?” continuò a ripetermi. Dopo un bel po’ riuscii a riprendermi.
Avevo un nodo in gola, ma non ero in grado di dire perché o cosa quel posto mi trasmettesse. Era importante, sapevo che era immensamente importante, fondamentale, ma non sapevo perché.
Avevo molto freddo, anche se il sole del tropico era a picco su di noi. Sentivo dolore, una fitta sotto lo sterno, quella fitta che prende quando si è terrorizzati e non si sa da cosa, né come difendersi.

Finalmente entrammo nella tomba, la sua tomba.
Spogliata dei tesori, rivoltata, illuminata da elettricità, era un luogo di una freddezza asettica che mi parve ripugnante.
Di lui, di ciò che Lui veramente era stato, non c’era nulla, a parte dei simboli.
Simboli ripetuti, criptici, dei quali un significato apparente nascondeva chiavi che in qualche modo agivano sull’inconscio, creando effetti ipnagogici che avrebbero potuto manifestarsi entro poche ore o da lì a molto tempo: mesi, addirittura anni, nella veglia o nel sonno, a seconda dei soggetti.
Era come una rete di una frequenza oltre il visibile che si gettava leggera su chiunque si avvicinasse e, forse, anche su alcuni che non potevano farlo materialmente.
La percepivo: leggerissima, delicata, persistente e timida, quasi un profumo sottile che colpiva l’inconscio. “La dolcezza di Kiya…” sussurrò Maggie.
Mi bruciavano gli occhi: la dolcezza che era una delle caratteristiche di Sua Maestà, era la stessa di sua madre.
Ed era là, dopo migliaia di anni, sacra ed incorrotta.
Credo che quelle frequenze non agissero su tutti, non nello stesso modo, ma ero certa che molte persone, ad un dato momento della loro vita, avessero improvvise intuizioni, rivolgimenti nel loro modo di pensare e percepire la vita, che probabilmente non avrebbero mai collegato alla visita della tomba del Faraone Fanciullo, ma si sarebbero manifestati a tempo debito, senz’ombra di dubbio.
Cominciai ad aggirarmi in quei locali, per quel che mi era permesso, in preda all’ansia: “Qualcosa non va!” ripetevo.
Avevo dei flash, ma erano troppo improvvisi ed indistinti, echi, immagini in cui mi vedevo camminare spedita verso la tomba con qualcosa in mano. C’era qualcuno alle mie spalle, forse un servitore. Sentivo il rumore della ghiaia sotto i sandali, ma non riuscivo ad afferrare nient’altro. C’era un bagliore accecante, avevo un abito azzurro spento e un velo attorno alla testa a proteggermi dal sole a picco.
Cercai di trattenere l’immagine, di decifrarla e approfondirla, ma senza successo: “C’è qualcosa di sbagliato, qualcosa non va, qui” mi avvicinai ad una parete e la toccai: “Qualcosa non va, non deve essere così!”
IS!” mi voltai di soprassalto, per un attimo fui certa di averlo lì, alle mie spalle: “Is!” non c’era.
Ma io avevo sentito forte la sua voce, con la leggera eco in quell’ambiente di pietra: “Tu veglierai su di me, come è stato e come sarà per sempre” mi voltai di nuovo: “Am’n!” lo chiamai. Mi sentii toccare il braccio e sussultai: era l’americano, la faccia da bambino preoccupata: “Mary, ci sono i guardiani, stai attenta”
“Qualcosa non va, non è come dovrebbe essere!”
Lui mi guardò perplesso: “Marabel, niente è come dovrebbe essere, qui. Tutto è stato spostato, rivoltato, cambiato. E noi sappiamo che anche le storie dipinte sulla sua vita sono menzogne, come potresti non trovare qualcosa di sbagliato?”
No, c’era altro. “Tu veglierai su di me, perché così deve essere. Io ti proteggerò per sempre, perché così è.”
“Io non veglio su di lui, lui non mi protegge…” ripetevo, come in trans.
C’era qualcosa di strano, là dentro, di malvagio, strisciante, subdolo, qualcosa che non aveva nulla a che fare con il Faraone, ma che lo soffocava. Perfino ciò che Maggie aveva definito come la dolcezza di Kiya, veniva soffocato da quell’odore di rettile.
E cosa doveva esserci, al contrario, non c’era.
Is non c’era.
Sua Maestà era vestito di menzogne, belle, idilliache, volutamente superficiali.
Sua Maestà a caccia, Sua Maestà a pesca, Sua Maestà su un cocchio, Sua Maestà quasi sempre insieme alla sorella.
Is non c’era. Non c’era traccia di lei in nessun modo e nessun luogo.
E, paradossalmente, non c’era traccia nemmeno del Faraone Fanciullo: là dentro, tutto ciò che era visibile non era che un teatrino di cartapesta.
Sua Maestà era nell’impalpabile, vittorioso nei simboli rappresentati per suo volere, nel mistico ed invisibile profumo luminoso che si dipanava attraverso le coscienze, ma in niente altro. 

Mi tornò alla mente il sogno da cui Floyd mi aveva svegliata mesi prima: ero a terra, trafitta da dolori lancinanti, vedevo tutto sfuocato e avvolto in un alone bluastro, stavo perdendo i sensi, qualcuno mi aveva colpita e gridava: “Cagna! Ti distruggeremo! Sarai cancellata dalla storia, dall’eternità! Tu cesserai di esistere!”
Dovevo fuggire…non importa se stavo male, dovevo fuggire, anche se la vita stava fuggendo da me. Potevo morire, ma non finire tra le grinfie di quell’uomo: solo continuando ad esistere nello spirito potevo salvare il mio Faraone. Lui aveva posto in me il suo sigillo.
“È questo che ha fatto…” sussurrai. “Ha cercato di cancellarmi, di annientarmi. Come diceva lui…”
L’americano era ancora di fronte a me, nascondendomi alla vista dei guardiani: “Andiamo via, Mary. Non puoi restare qui, ne parleremo dopo”
Cercò di portarmi via, ma io restai immobile, pesante come piombo, al centro di quella stanza. “Dov’è Iset? Perché lei non è qui? Perché lo hanno lasciato solo?”
Mio padre si avvicinò preoccupato, avrebbe di nuovo dovuto trovare qualche scusa per giustificare il mio comportamento sospetto. “Usciamo, Marabel…ci stanno osservando…”
E poi accadde qualcosa.
Mamma stava cercando di attirare la nostra attenzione su Maggie, ma io non mi rendevo conto di niente al di fuori della mia visione, papà e l’americano erano troppo distratti da me per accorgersi di quello che stava succedendo.
Maggie corse fuori come inseguita dal demonio, si fermò solo dopo almeno duecento metri e scoppiò a piangere.
Dovevamo sembrare davvero una manica di pazzi.
La fuga di Maggie, comunque, mi riscosse e permise a mio padre di riportarmi all’aperto, mentre l’americano correva fuori all’inseguimento della compagna.
Maggie aveva il visto rigato di lacrime: “Ma che cosa hanno fatto?” chiese, spostando lo sguardo da uno all’altro di noi e all’ingresso buio poco lontano: “Che cosa hanno fatto?”
Ci lasciammo alle spalle la Valle dei Re senza una parola e tornammo in albergo.

Più tardi ci raccontò cosa fosse successo.
Non tutti lo sanno, ma, pochissimo dopo la chiusura, la tomba venne profanata, senza che apparentemente fosse portato via nulla, almeno per quel che ne sappiamo.
Carter e Lord Carnavon ipotizzarono che i ladri potessero aver portato via qualcosa di molto prezioso e piccolo, ma che dovessero essere stati disturbati e avessero dovuto fuggire.
Certo, pare strano: chi potrebbe passare per caso dentro una tomba ormai sigillata?
D’altra parte, che cos’altro potrebbe provocare una fuga frettolosa, se non l’arrivo di terzi, almeno secondo la mentalità comune? Un fantasma, direbbero alcuni…
Molti, allora come oggi, ad un secolo di distanza, troverebbero la spiegazione di Maggie romanticamente fantasiosa, frutto di suggestione, ma temo abbia più senso di quella ufficiale.
Raccontò che, appena entrata, aveva sentito delle voci parlare in una lingua che sulle prime aveva pensato fosse arabo, anche se suonava in modo diverso, ma non ci aveva fatto caso: era probabile che ci fosse qualche studioso, intento a decifrare geroglifici.
Invece, entrata nella sala del Faraone, aveva visto nettamente, esattamente come vedeva noi, un ragazzino di una dozzina d’anni inginocchiato in un angolo, in mezzo a vasi e suppellettili, che piangeva disperatamente, la testa tra le mani, voltato verso il sarcofago.
Si era voltata e aveva visto due uomini: uno reggeva una torcia e l'altro si era avvicinato al sarcofago, girando intorno con cautela. Sussurrava ossessivamente qualcosa,  forse una preghiera o scongiuri, l’espressione tesa, lo sguardo incredulo.
Poi aveva osservato i vasi canopi attorno, aveva gridato ai compagni e tutti e tre erano fuggiti.
C'era qualcosa, qualcosa di terribile, talmente terribile che perfino dei profanatori di professione come loro, di cui due adulti ed esperti, avevano trovato terrificante.
Maggie disse che, uscendo dal buco che avevano aperto, incisero qualcosa, un po' come fanno i topi d'appartamento per darsi dei segnali, e richiusero per sempre: nessuno sarebbe mai più entrato là dentro per trentatre secoli.
Disse che il ragazzino continuava a gridare qualcosa agli adulti, implorante, ma uno dei due gli posò le mani sulle spalle scuotendo la testa, come dire che non potevano fare niente e se lo portò via.
Cercammo per anni di capire cosa avessero visto, senza mai arrivare a nulla di esauriente. Forse qualche affiliato a qualche ordine massonico di rito orientale potrebbe rispondere, ma non è detto e non ci sembrò mai una buona idea cercare di coinvolgerne qualcuno. Cosa avremmo potuto dire? “Salve, una nostra amica ha visto dei profanatori di tombe scoppiare in lacrime nella camera del Faraone Tutankhamon, saprebbe mica dirci cosa possa aver visto, di grazia?” No, sarebbe stato quantomeno ridicolo!”

“Avevano visto qualcosa di sconvolgente, tipo...che avevano ucciso...o tentato di uccidere la sua anima? C’era qualcosa nella tomba che mostrava chiaramente questa forma di imprigionamento o quel che era?”
Marabel annuì: “Molto probabilmente. E molto probabilmente il ragazzino voleva che tentassero di liberarlo, ma i tombaroli avevano poche conoscenze magiche ed esoteriche, generalmente quelle che potevano servire loro, cioè scongiuri, protezioni, cose del genere. Per lo più erano gente pratica, terra, terra e priva di scrupoli...ma mai quanto i nemici del mio Faraone, a quanto pare. È chiaro che, anche volendo, non erano in grado di aiutarlo.”
“Quindi la faccenda della maledizione…non era sua, ma su di lui da parte di qualcuno?” 
“Ascolta: tutti i sacerdoti, durante la preparazione delle tombe, incidevano maledizioni per i profanatori, i quali, molto più smaliziati e disinvolti di loro, se ne fregavano altamente.
Il mestiere di tombarolo si trasmetteva di padre in figlio, con tutti i segreti del caso e costoro, già da ragazzini, imparavano che le maledizioni funzionavano, ammesso che funzionassero, solo se venivano lette.
Se qualcuno passava sotto o di fianco ad una di queste senza guardarla e senza leggerla, era come non esistesse, non si “attivava”. Maledizioni che siano perennemente attive, o si attivino con il semplice gesto di passare o entrare in un posto, richiedono, o dovrebbero richiedere, molta energia e non sarebbero nemmeno molto utili: supponi che, per qualche motivo, una tomba debba venire aperta, come spesso è successo, per ospitare al suo interno altre mummie, magari a causa della distruzione della tomba originale, o, come nel caso delle tombe di AkhetAton, debbano essere spostate, o ancora si debba prendere della roba perché si deve approntare una nuova tomba e non c’è tempo per preparare un tesoro proprio, ebbene, pensi che i sacerdoti sarebbero stati così contenti di sobbarcarsi delle maledizioni attive nel compimento del loro dovere?”

“Quindi? La maledizione c'era o no?”
 Marabel alzò gli occhi al cielo: “Ma c’era di sicuro, incisa sull'ingresso, come in tutte le altre, ma chissene...insomma, la maggior parte degli operai di Carter non sapeva leggere il geroglifico, quindi  era al sicuro e lui stesso morì in Inghilterra parecchi anni dopo.
Solo Lord Carnavon, in effetti, ebbe una fine strana, ma aveva avuto un grave incidente tempo prima, che aveva minato molto il suo fisico. In ogni caso, pare sia stato lo stesso Carnavon a mettere in giro quelle voci a scopo pubblicitario e anche per giustificare la lentezza dei lavori dopo la scoperta. Politica, economia, astuzia, pubblicità...in ogni caso, se mai qualche misteriosa maledizione ci fosse stata, non sarebbe certo stato per colpa sua: essere liberato era veramente la cosa che più desiderava. Beh, l'unica, vista la situazione.”
“Chi è stato ad imprigionarlo? E come?”
Sospirò: “Non lo so. Aye  era molto sospetto nei suoi comportamenti, si prodigò, o finse di farlo, finché Sua Maestà fu in vita, ma, una volta liberatosi di lui, desiderò chiaramente ed inequivocabilmente non ritrovarsi mai tra i piedi quell’Anima, né di qua, né di là o altrove. Era come…come se si fosse liberato definitivamente di un peso. Sapeva, ma non tutto, era d’accordo, ma non del tutto.”

“Il male oscuro di AkhetAton?” domandai. Non è che fossi proprio convinta: volevo che Aye fosse il kattivo e lo fosse fino in fondo. E poi era rassicurante sapere di conoscere l’identità del nemico.
“Immagino di si. Un male subdolo, qualcosa che sa di vendetta…occhi in grado di vedere tutto, nascosti nell’ombra, mani e volontà che arrivano ovunque, come dita di sabbia mosse dal vento del deserto, che nemmeno le porte più pesanti riescono a fermare.”

Pioveva e noi non avevamo preso ombrelli. Grigno era corso nel dehors interno al giardino e ora giocava con le gocce, senza un minimo di dignità.
Avevo voglia di muovermi, ma non di una doccia suppletiva. Restammo a guardare la pioggia con un caffè sotto il naso, in attesa che passasse.
“Che cos’è che non c’era?”
“La tomba di Iset. O il suo sarcofago, o qualsiasi cosa fosse. Iset doveva essere là con lui, era…era una promessa, un giuramento, quello che vuoi, ma Iset doveva essere là dentro con lui. Ovviamente questo non faceva parte del protocollo e sicuramente non era gradito.
Se fossi stata la Sposa Reale, o la Seconda Sposa, avrei dovuto essere sepolta nella Valle delle Regine, ma non ero niente. Ero importante, ero sacra, la gente si inchinava al mio passaggio, ma restavo sempre e soltanto un’ancella. L’ancella dello scandalo, per cui il Faraone voleva infrangere qualsiasi regola.
Vedi? Tanti tesori, tante meraviglie, ma ciò che doveva veramente esserci no, non c’era: non c’era la malattia, non c’era la farfalla blu, non c’era la verità. E non c’era Iset.”

La pioggia si stava trasformando in uno scroscio sempre più violento.
Richiamai Grigno, che stranamente rientrò senza protestare, scrollandosi molto carinamente sulla porta, proprio mentre iniziavano a cadere minuscoli frammenti ghiacciati, insieme alle gocce.
“Nell’ottantasette ancora non sapevo esattamente cosa mi fosse successo, come fosse finita la mia vita, ma anche così avrei dovuto pensarci: se Iset era così mal vista, è logico che non fosse là, ci sarebbe stato da stupirsi del contrario, ma…beh, io ero piuttosto confusa durante quel viaggio.
Visioni preistoriche, farfalle blu che sembravano rincorrersi attraverso migliaia di anni e che mancavano, un pettorale che non avrebbe dovuto esseri e invece era c’era, una tomba che aveva qualcosa di strano, piena di anomalie di cui, però, nessuno, almeno ufficialmente, si era mai reso conto o a cui non era stata data importanza.
Perché, poi, il pettorale di Ekhnaton? Perché non crearne uno con i simboli classici, apposta per lui? Non ci volevano settanta giorni per costruire un pettorale e il Faraone da anni lavorava al suo corredo funebre, cosciente della propria fragilità. C’é il pettorale con la mia effige in forma di Maat, per esempio, che avrebbe dovuto essere Aset, ma qualcuno decise di cambiare soggetto.”
“Tu eri dove?!?” strillai rendendomi conto di quello che aveva appena detto.
Lei mi guardò sorpresa: “Eh? Si, c’è una placca pettorale molto bella nel tesoro, rappresenta la Dea Maat alata che danza di fronte al Faraone.
Poco tempo prima dell’incidente, lui la commissionò ad un suo orafo chiedendogli di rappresentare Aset alata e di ispirarsi alla Somma Sacerdotessa. L’uomo venne a casa nostra e chiese a mio marito il permesso di ritrarmi, per ordine di Sua Maestà.
Oh, beh, non è che poi i ritratti fossero così precisi, le statue lo erano molto di più, ma l’orafo compì il suo dovere ottimamente, tanto che Sua Maestà, il giorno dopo, lo definì “dolcemente delizioso”.
Il pettorale c’è, puoi trovarne l’immagine ovunque, io quasi cacciai un urlo quando lo vidi, poi mi accorsi che non era Aset! Qualcuno aveva cambiato qualcosa, eliminando la luna tra le corna di toro e sostituendola con la piuma.
Ma quando? Quando lo consegnarono al Faraone era Aset, era perfetto…quando è stato alterato?”

“Ma c’è anche qualcosa con Iside, però…” protestai, scavando tra i ricordi scolastici: “Si, Aset e Nephthys. Non potevano eliminare Iside da tutto, non trovi? In uno Aset e Nephthys sono inginocchiate di fianco ad uno scarabeo, ma l’altro è molto più interessante: le due Dee sono in piedi, una di fronte all’altra, con le mani tese verso uno Djed centrale. Uno dei simboli più discussi, misteriosi e attraenti per i ricercatori. Ci vorrebbe un’enciclopedia per parlare dello Djed e probabilmente non se ne caverebbe nulla!” disse divertita.
“Io ho sentito alcune cose…” riflettei.
“Oh, hai tutto il tempo che vuoi per farti una cultura, sono state scritte tonnellate di parole sull’argomento.
Alla fine degli anni novanta, mio padre scoprì gli studi di un italiano, un archeologo autodidatta che studiò per molti anni lo Djed, del tutto autonomamente.
Papà aveva dei dubbi su alcune sue affermazioni, ma avrebbe voluto incontrarlo: era certo che la sua esperienza, unita alla nostra, avrebbe potuto portare a nuove prospettive e a trovare anelli mancanti, correggere inesattezze sue o nostre, o qualcosa del genere.
Ne parlò con l’americano, ma, non so…lui viveva a Boston e io non ci tornai, come sai; ero a New York e non volli prendere parte alle loro discussioni in proposito e, soprattutto, non volevo coinvolgere altri o essere coinvolta nelle loro ricerche. A dire il vero, temevo che costoro potessero parlare di me in qualche testo e…temevo di diventare nota, una specie di oggetto di studio, un fenomeno da baraccone e di derisione.
Temevo gli emuli, gli spostati, i fanatici, la gente che ti si appiccica imbevuta di curiosità, famelica, gli esagitati pronti a linciarti nel momento in cui tu non voglia assecondare i loro deliri.
Solo molto più tardi mi resi conto che, se il mio caso fosse diventato noto, lui avrebbe potuto riconoscermi e rintracciarmi. Diventare famosa, essere vista da tutto il mondo, sarebbe stato come essere un faro e lui avrebbe dovuto vedermi per forza, prima o poi, anche se fosse stato nella foresta del Borneo centrale!
Ma a quel punto i miei non c’erano più, io non volli tornare da Maggie e dall’archeologo e…da sola non mi risolvevo mai a contattare quell’uomo. È mancato due anni fa e io, come un’idiota, ho perso un’opportunità (M.Pincherle: Bologna, 9 luglio 1919-Bientina, 23 settembre 2012).
Forse non sarebbe servito a niente, forse mi avrebbe considerata un’arrivista o una pazza, forse no: in fondo, anche lui era considerato un pazzoide e un mistificatore da un sacco di gente e, forse, tra pazzi ci si ascolta, ci si aiuta.
Tante volte ho preso il telefono e poi non ho chiamato, tante volte ho iniziato a scrivere lettere che non ho mai spedito.
Ai tempi di New York mio padre non insistette, ma so che discussero a lungo a casa di Maggie.
Ero molto stanca, sai? Sono stanca, ora più di sedici anni fa, eppure vado avanti, forse per inerzia, forse perché non so fare altro. Forse perché, se mi arrendessi, sarei persa, non saprei cosa fare di questa vita.” Alzò gli occhi a guardarmi: “Ma tu dovresti provare a fare ricerche, su questo Djed.
Una teoria dice che servisse a garantire l’immortalità all’Anima del Faraone e che trasmutasse alchemicamente i cereali in oro. Sua Maestà non voleva maschere d’oro e un sarcofago d’oro per vanità, ma per proteggersi e per, anche in quel caso, lanciare messaggi ben precisi. Purtroppo lo stesso oro così perfetto e duraturo, poteva diventare un’ottima prigione, opportunamente trattato.”

“Fu lui a decidere di avere un sarcofago d’oro?” mi parve strano: ero sempre stata convinta che fosse stato un atto d’amore del popolo e ci rimasi male.
Lo sguardo di Marabel era perso oltre il riflesso del vetro: “La maschera si, fu una sua richiesta. Lui, a dire la verità, aveva progettato una maschera più sottile e una copertura dello spessore di un foglio di papiro ripiegato tre volte su tutto il corpo. Alla sua morte, però, venne deciso diversamente.
La maschera veniva molto più bella e perfetta di uno spessore più importante e presumo fosse più facile da realizzare, anche se più costosa. Il sarcofago fu un’idea dei sacerdoti e di chi gli era più vicino, a parte me, naturalmente. Sua Maestà era divino, perfetto, era puro e nemmeno l’oro più puro poteva eguagliarlo in bellezza, preziosità e purezza. So che ti chiedi se fosse per amore che lo ricoprirono d’oro in quel modo. E lo fu.”
“Tu eri contraria?” scrollò le spalle: “Non ero d’accordo perché il mio Bambino aveva detto una cosa diversa, ma non mi sembrò troppo, né strano, né altro. Lui meritava tutto e molto di più”

Ormai la pioggia si era definitivamente trasformata in grandine. Fissavo ipnotizzata i chicchi che cadevano picchiando furiosamente il cemento dell’impiantito, appena riparato dal tetto del dehors.
Diverse persone erano rimaste bloccate, qualcuno telefonava al lavoro dicendo che sarebbe arrivato appena passata la grandinata.
Davanti ai miei occhi i chicchi bianchi si trasformavano in farfalle blu, pterosauri colorati, piramidi d’oro e foreste incontaminate.
Che sciocchezza la storia delle piramidi come tombe, però! Ci sono piramidi in tutto il mondo, e chissà quante non sono ancora state scoperte, quante scomparse sotto terra o sott’acqua…solo un totale imbecille potrebbe credere davvero che siano solo tombe, tutte tombe!
Alcune lo sono state, si, ma in epoca più recente e probabilmente come destinazione secondaria, ma…perché tutti i popoli attorno al pianeta avrebbero dovuto essere così scemi da fare tanta fatica per delle tombe, suvvia?

Grigno emise uno sbuffo molto seccato e nascose il muso tra le zampe. Non c’erano tuoni, non ancora, se non in lontananza, ma non potevo garantire che non sarebbe scoppiato il finimondo di lì a poco.
Fissavo la grandine e pensavo a Floyd. Più ci pensavo e più mi rendevo conto che non doveva essere stato solo un caso, il loro incontro, che non era meno divino e meno regale del Faraone. Ma non era lui. Ma allora chi?
E Robert? Dov’era il suo bambino? Ormai doveva essere un uomo…doveva avere più o meno la mia età, facendo due conti, forse un po’ di più. Era riuscito a trovarlo?
È terribile vedere la vita che scorre via e non sapere, non sapere che ne è di qualcuno di tanto importante, non se sia vivo, non se sappia di te…pensare che la tua vita possa finire senza aver trovato quell’altra parte di te che ti è stata strappata.
Marabel era stanca.
Lo ero anch’io con lei.
Fissavo la grandine picchiare rabbiosa la striscia di cemento, rimbalzando e spaccandosi, mandando attorno raggiere di  frammenti di sé, quasi a gridare attenzione, ipnotica. Perdersi nella pioggia…nella neve…
“Ma...esattamente…Floyd…cioè, si era iscritto a cosa? Antropologia? Storia? O cosa?”
Non la guardavo, sentii il suo sguardo perplesso su di me: “Storia e cultura indigena. È stato uno dei primi corsi di laurea dell’SKC, assieme a Scienze Forestali e Biologia. Perché?”
Presi fiato: “Non ti ho detto tutto, stamattina…” bofonchiai.
Lei socchiuse gli occhi, studiandomi, un guizzo di curiosità negli occhi marroni: “Ssiiii??”
“Beh, ieri ho fatto un riassuntino a Franco e lui, ecco, eravamo su skype, no, e mentre parlavamo ha cercato un po’. Il tuo amico è piuttosto evanescente, sai?
Qualcosa abbiamo trovato, poco, poco, però”

Deglutì, mi accorsi che l’emozione e la preoccupazione di cosa potessimo aver trovato la stava schiacciando.
“La pagina era del novantadue e non era più disponibile, ma c’era un signor dottor Floyd A Two Bears staccato che aveva dato un Dottorato di Ricerca in Aboriginal, Lan c’era scritto, ma non siamo riusciti a vedere di più. Poteva essere languages?” lei si illuminò, come non l’avevo mai vista: “Oh, si!!! Si, certo che potrebbe! Lui parlava Salish come prima lingua, l’inglese lo parlottava più o meno fino a cinque anni, poi iniziarono ad insegnarglielo per evitare che avesse difficoltà a scuola e parlava altrettanto bene la lingua Siksika, Blackfoot. Inoltre, immagino tu lo sappia, all’origine i Salish erano della West Coast, ma una parte della popolazione si espanse all’interno, verso Est, originando le Nazioni oggi note come Coeur D’Alene e Salish Kootenai, la Nazione di Floyd, appunto; ma la loro lingua è la stessa ed è dello stesso ceppo di altre della Costa Occidentale.
Lui aveva amici Haida, e poi appartenenti alle tribù con cui era entrato in contatto negli anni di Seattle e mi spiegò che c’erano elementi comuni tra le varie lingue, mentre quelle di ceppo Algonkino, per esempio, erano del tutto diverse, anche se più vicine geograficamente.
Come Salish gli era più facile capire la lingua Haida o Tlingit, che non il Cree, che era appena di là dal confine canadese.
Che abbia voluto fare degli studi approfonditi sull’origine dei loro ceppi linguistici, studiarli, si, ha molto, molto senso!
Sosteneva l’importanza fondamentale del mantenere le lingue aborigene, continuare non solo a conoscerle, ma usarle, identificarcisi, usarle come arma per mantenere l’identità culturale. Oh, lo ha fatto! Ha continuato la sua strada! Non sai altro? Come sta, cosa fa?”
Era entusiasta, ma le tremava la voce.
Forse non lo aveva amato come avrebbe dovuto o voluto, o non voluto, ma di certo era ciò che di più caro avesse avuto nella vita.
“No, non abbiamo trovato nulla di nulla. Franco ha cercato anche su facebook, sai, ma non ha trovato niente. Parecchi Two Bears, ma non a Flathead o dintorni. Cioè, io da come ne parli, non me lo vedo appiccicato ai social, ma se per esempio fosse un docente o un ricercatore al College, dovrebbe apparire” lei si mordicchiò un labbro: “Mah, non so. Docente si, se vai nel sito ufficiale del College i docenti dovrebbero essere citati, come ricercatore non è detto. Comunque, sui social non me lo vedo nemmeno io e, se mai ci fossero sua sorella o suo fratello, dubito metterebbero nome e cognome, penso userebbero un nick. Beh” sospirò rasserenata: “Hai fatto più di quanto abbia fatto io in venti…ventotto anni!”
Fissò la grandine, basita: “Ventotto anni! Mioddio! Sono passati ventotto anni!”
Sembrò spaventata: non la spaventavano tremila anni e ora si spaventava per ventotto! Eppure aveva ragione: una vita è un soffio, e lei vedeva gli anni scivolare via, senza arrivare a nulla.
Mi sentii stringere lo stomaco, un brivido mi percorse la schiena: doveva trovarlo!

La gente, in qualche pausa del temporale, se l’era svignata per correre al lavoro, eravamo rimaste noi, i proprietari e qualche pensionato o chi non aveva tutta questa fretta.
Un’insegnante correggeva dei compiti con una bic rossa ad un tavolo poco lontano, qualcuno chiacchierava, un ragazzo era appiccicato ad un tablet con gli occhi sgranati.
Entrò un venditore di ombrelli, un cingalese con un sorriso divertito largo come tutta la faccia, e ne prendemmo un paio anche noi. Il tizio rideva, contò gli avventori e si rese conto gongolando che la sua giornata sarebbe terminata entro pochi minuti.
Ci avviammo.
L’odore della pioggia si mescolava agli odori cittadini che smorzava, tentando forse di rimettere a posto le cose, senza riuscirci: l’odore di terra, di bosco e nebbia che, per sua natura, avrebbe dovuto esserci, era debole, mescolato all’odore della pietra e del cemento, anche se arrivava una freschezza verde dagli alberi lungo il corso e dal parco, poco lontano.
Era buono comunque. L’odore della pioggia, se non si fa alluvione, è sempre buono.

Camminammo per i viali deserti del parco, Grigno si divertì a rotolarsi nell’erba bagnata, correndo qua e là come un ossesso, libero padrone di tutto uno spazio che di solito gli toccava dividere con altri cani e con un numero imprecisato di umani.
Le corse terminarono, come era prevedibile, al chioschetto dei panini, dove si guadagnò un bel paio di salsicciotti tutti per lui. Fulminai il proprietario, lui si fece una risata, e tornammo verso casa.
“Pioveva in Egitto?”
“Raramente, molto raramente, ma a volte, si, certo, c’erano temporali, soprattutto quando eravamo a Men Nefer. Il cielo si faceva scuro, l’acqua cadeva giù, prima tiepida e poi, via, via, sempre più fredda, e poi, appena tornava il sole, il deserto germogliava.
Mi stupiva sempre quello spettacolo: non riuscivo a capire come fosse possibile che dalla terra brulla, dalla sabbia, così improvvisamente, nascessero effimere pianticelle, che poi tornavano a sparire in breve tempo.
Te ne dimenticavi, vivevi la tua vita pensando che non fosse che terra secca, là, dove le piene non arrivavano, sabbia priva di vita, ma io ero cosciente che così non era. La vita era là sotto, da qualche parte, in attesa della prossima pioggia. Mi sembrava magia. Mi scuoteva, quell’improvviso rigoglio di verde, un verde diverso da quello cui eravamo abituati lungo le sponde del Fiume, mi smuoveva qualcosa di indefinibile.”
“Un ricordo?”
“Forse” concesse: “Io pensavo si trattasse di una specie di stupore per quel verde nuovo, un piacere malinconico che mi derivava da quel miracolo destinato a svanire in poche ore.
Ma una volta Sua Maestà volle fare un viaggio a cavallo; aveva una quindicina di anni e, se stava bene, cavalcava ancora. Mi chiese di andare con lui, naturalmente acconsentii ma, mentre eravamo fuori da Men Nefer, nel Deserto Bianco, ci colse un temporale e le guardie ci condussero presso un’oasi non lontana per ripararci.
Come puoi immaginare, le famiglie che abitavano quel posto ci accolsero come una benedizione e ci prepararono un banchetto con tutto ciò che di meglio avevano.
Restammo in casa fino al pomeriggio inoltrato ad intrattenerci con i nostri ospiti, il Faraone passò il tempo ad ascoltare le storie dei vecchi, benedire bambini e, beh, a fare più o meno quello che gli toccava fare ogni volta che aveva udienze pubbliche, ma in modo molto più informale e piacevole.
Più tardi uscii e il deserto era coperto da un tappeto verde chiaro, tenero e meraviglioso che si perdeva a vista d’occhio. Restai incantata, seduta in mezzo all’erba per non so quanto, finché mi resi conto di averlo al mio fianco. Sedette accanto a me, restò silenzioso per un pezzo: “Non ricordi, Is?” chiese dopo un bel po’, in un sussurro così sommesso che, da principio, mi domandai se non l’avessi sognato.
Mi voltai a guardarlo, sorpresa e vidi che i suoi occhi avevano un aspetto strano. Malinconico, distante, sembravano infinitamente vecchi e risplendevano di una luce propria che non gli avevo mai visto, né rividi mai, se non negli ultimi giorni della sua vita.
“Non ricordi?” sussurrò di nuovo e io mi accorsi di avere la faccia bagnata di lacrime di cui non mi ero accorta.
Odiavo quella domanda, mi spiazzava, mi faceva sentire ignorante, limitata, stupida, impotente, ma quel giorno scoppiai a piangere. L’aria profumava di temporale, di sera, di sabbia e di verde. Profumava di libertà, una libertà cui non eravamo abituati e la luce che precedeva il tramonto rendeva il tutto più struggente.
Forse era questo, forse tutto l’insieme, il viaggio, la gente incontrata, quell’esplosione di vita inattesa, la magia del Deserto Bianco e dei suoi mille incanti, che mi commossero oltre ogni dire, ma…ma no, c’era dell’altro, un altro inafferrabile che  mi faceva sentire disperata.
Provavo una malinconia indicibile, dolorosa. Piansi abbracciata a lui, che mi teneva come una bambina tra le sue braccia, con quella delicatezza che non trovai mai, in migliaia di anni, in niente e nessun altro.
Credo lui mi avesse portata là per un motivo preciso, credo fosse un tentativo di farmi ricordare, ma temo sia stato inutile. Qualcosa si, si mosse dentro di me, ma niente di più.” Sospirò.

Infilai la mano in tasca, prendendo le chiavi: “Io so che il Deserto Bianco è considerato la parte più straordinaria e misteriosa del Sahara, o mi sbaglio? Sai, la persona per cui ho lavorato da ragazza, era un grande collezionista oltre che commerciante di minerali. La maggior parte della sua merce arrivava dal Marocco e, finché la situazione politica lo permise, da Algeria e Tunisia, ma a volte si spingeva verso l’Egitto.
Io ero una ragazzina e lui spesso raccontava di quel deserto…parlava delle Silica Glass, anche, discuteva della loro origine con mineralogisti e geologi, cercando di capire se si trattasse di pietre meteoriche o di fusione da impatto. Raccontava anche di cose molto misteriose, come un’area in cui si trovava un cimitero di cetacei.
Quel posto, anticamente, doveva essere una terra rigogliosa e in parte un’area marina, abbastanza ampia e profonda da essere abitata addirittura da balene.
Dimmi, Marabel…il sogno della foresta, mentre poco più in là, nel deserto, venivano edificate le piramidi…ha a che fare con questa tua malinconia? Di quali tramonti non riuscivi a ricordarti mentre ti graffiavano l’anima?”

Lei abbassò la testa, non rispose.
Non pioveva, per il momento, ma l’aria era satura dell’odore di elettricità che prometteva fulmini a raffica, di lì a poco. Sperai smettesse prima di sera: non mi sarei sognata di accendere il pc, in quel caso, se non per la durata della batteria e la nostra serata skype avrebbe avuto il tempo contato.
I gatti erano seduti impettiti davanti alla porta finestra della mia terrazza, piuttosto contrariati e pretesero bocconcini extra lusso a risarcimento della solitudine patita durante il temporale.
Grigno, invece, stanco per le corse sotto la pioggia, tracannò un’intera scodella d’acqua fresca e si ritirò sul suo tappetino preferito.

Misi su l’acqua per un thè bollente, cercai la scatola delle tegole e mi sistemai di fronte alla mia ospite.
“Ho un rapporto strano con il tramonto, è un momento che trovo insopportabile, soprattutto in certi ambienti, lontano dalla città o verso la costa. Il tramonto e gli uccelli che si alzano a stormi, riempiendo il cielo di richiami, mi facevano stare male fin da bambina, tanto che non riuscivo a non essere colta da una malinconia tale da dover piangere.
Ricordare quell’episodio mi colpì profondamente: fin da bambina avevo pianto ad ogni tramonto, come quel giorno nel Deserto Bianco, tra le braccia del mio Faraone, ma poiché lui ora non c’era, non restava che la malinconia, vuota e priva di risposte.”
 
“Quando hai ricordato quel viaggio nel deserto?”
Ci pensò un po’: “Mah, esattamente credo fosse…il novanta, forse il novantuno, però avevo avuto diversi flash, in precedenza, di un viaggio con Sua Maestà nel deserto.
Lui aveva sempre i capelli rasati, ma per qualche motivo in quel periodo li aveva lasciati crescere. Il viaggio non durò solo il giorno del temporale, restammo via per alcuni giorni e un ricordo che continuava ad emergere era di lui in piedi davanti ad un lavatoio, presso un villaggio, che si rovesciava in testa una giara d’acqua, poi scuoteva i riccioli ridendo. Io lo vedevo un po’ dall’alto, ero a cavallo e anche le guardie intorno a noi. Lui si voltava a guardarci con gli occhi brillanti, e si scuoteva come uno spinone l’acqua dai capelli.
Un’immagine bella, inusuale, probabilmente: benessere, risate lontano dalla corte, capelli lunghi quel tanto da arricciarsi che si mostravano neri, sottili, lucidi. Non crespi, come ci si aspetterebbe, ma con riccioli.
Nel guardarlo pensai che fosse bellissimo, così. Forse fermai quell’immagine, l’istantanea di un momento di serenità e di pace che mi restò impressa in qualche recesso dell’anima.
Non sopporto il tramonto. C’è qualcosa di intensamente doloroso, lontano, inafferrabile, che mi fa sentire smarrita.”

“Ma dopo aver recuperato quell’episodio non è cambiato?”
“No. Non posso tornare laggiù, non posso recuperare l’incapacità di Iset di ricordare, non posso suggerirle nulla, o sostituire la mia coscienza alla sua. Lei, laggiù, tremila anni fa, sta ancora piangendo tra le braccia del Faraone.
Comunque, quando scoprii quel ricordo, si, ci fu un collegamento immediato con il sogno delle piramidi e fummo certi, c’era anche l’americano con noi, che ci fosse un collegamento netto con la visione collettiva avuta ad al-Qāhira.”

Prese una tegola e la sbocconcellò riflettendo. Dubitavo che fosse davvero cosciente del biscotto, a dire il vero, immagino non si sarebbe accorta della differenza se avesse sbocconcellato un biscottino di Grigno, tanto era distante.
“Dunque, vediamo…” intervenni: “La vostra visione riguardava un’epoca che potremmo definire meravigliosa che comprendeva una piramide molto grande e complessa, il tuo sogno riguardava una, no, tre piramidi meno complesse, almeno apparentemente, in un mondo verdissimo che però, a quanto pare, stava rapidamente desertificando e, secondo il vostro amico, era di molto precedente all’età ufficialmente indicata per la costruzione delle piramidi, e tu, voi, eravate già stati lì millenni prima.
Poi, tu piangi in un deserto traboccante di storie misteriose nel quale si dovrebbero trovare pure i resti di cetacei, i quali, notoriamente, non gironzolano nei deserti. È chiaro che ci sia un collegamento tra questi elementi: piramidi, l’uomo al tuo fianco, foreste verdissime che ora non esistono più, animali estinti, luoghi scomparsi.
Una storia ignorata, luoghi e tempi diversi, i quali sembrano avere un punto di intersezione in quella sera e in quel deserto.
Come in quel maggio dell’ottantasette ti fecero viaggiare sul Nilo per cercare di stimolare la tua memoria, così fece Sua Maestà cosa con molto anticipo. Ma non servì, evidentemente, quella volta.”
Raccattò qualche briciola con i polpastrelli: “Non sono sicura che sia servito molto nemmeno questa volta” bofonchiò.
“Ma non è vero! Guarda quante cose ti sono tornate alla mente!” lei mi guardò pensierosa: “Siii, d’accordo, ma…nella pratica…a che diavolo sono servite? Non è successo niente di veramente utile, né per quell’epoca, né per oggi!”

Restai a guardarla come un’idiota: erano immagini fantastiche, si, che parlavano di epoche e luoghi scomparsi, a volte ipotizzati, a volte nemmeno sospettati o forse immaginati da qualche scienziato troppo sognatore o da qualche mente con eccessiva produzione di DMT, ma, effettivamente, a che servivano? Se era così importante che Iset ricordasse, cosa doveva ricordare, esattamente?

 “Quindi, nel novantuno hai ricordato cose avvenute quando lui aveva appena una quindicina di anni, mentre diversi anni prima, direi nell’ottantaquattro, avevi ricordato una quasi promessa di matrimonio ed episodi avvenuti almeno tre anni dopo. Significa che i tuoi ricordi non si manifestavano in modo cronologico?”
Marabel fece una smorfia buffa: “No, magari! In effetti, non sapevamo mai dove sarei finita durante la seduta.
Di solito c’era una sequenzialità, si, ma dopo quella lunga pausa e la famosa visione durante la Cerimonia, le cose cambiarono. Come Maggie aveva avvertito, se si fosse trattato di fantasticherie, la Cerimonia mi avrebbe guarita e tutto sarebbe scomparso, ma, se si fosse trattato di reali esperienze e ricordi, nel mio inconscio si sarebbero aperte delle porte e probabilmente tutto si sarebbe fatto più intenso. E così accadde.
Se hai notato, prima, i miei sogni iniziatici, per quanto questo termine sembri esagerato, erano rari, avvenivano solo dopo le sedute o subito prima, oppure erano provocati da stati alterati di salute, come le cefalee tensive, forti tensioni o arrabbiature, il tutto condito da analgesici.
Dopo la Cerimonia, invece, presero a manifestarsi improvvisamente, durante le fasi di sonno profondo, probabilmente in fase REM. Oh, beh, a dire il vero, Floyd sosteneva che non avvenissero in REM, ma in uno stato di coscienza simile a quello delle trans sciamaniche.
Non voleva turbarmi, per cui, in quel mese e mezzo che passammo lassù nel Maine, ne parlò sempre poco, cercando di glissare, ma lui doveva avere un’idea molto chiara di cosa mi succedesse.
Quando ero con lui mi sentivo al sicuro, comunque. Andavo a dormire, ci abbracciavamo, mi nascondevo contro di lui o lui mi si abbarbicava usandomi come cuscino, e io ero tranquilla. Non mi assalivano dubbi, o paure, come: “Oh, mioddio, adesso mi addormento e cosa sognerò, avrò incubi? Vedrò cose spaventose?” ero serena. Mi sentivo perfettamente al sicuro.
Senza nemmeno pensarci, sapevo che non poteva accadermi niente di male con Floyd lì, insieme a me, e probabilmente anche per questo ero terrorizzata all’idea di allontanarmi da lui: senza di lui non ero al sicuro.
Ho dovuto imparare a convivere con l’insicurezza e a cercare di non aver paura, in seguito.
Verso la metà degli  anni novanta, comunque, arrivai alla fine di quella vita e gli incubi, una volta svelato il loro significato, diminuirono fino praticamente a scomparire.
L’ultima volta che passai del tempo a New York, come ti ho detto era il novantotto, Robert mi fece delle…delle cose, non delle Cerimonie, diciamo delle sedute terapeutiche, insomma, creò delle protezioni per me e poi mi costruì dei Dream Catchers.
Mi disse che non avrei mai dovuto separarmene, che non avevano niente a che fare con la paccottiglia che si trova in giro, ma erano fatti come si deve e benedetti come si deve.
Li ho ancora e, a volte, come lui mi aveva suggerito, attacco una pietrina che abbia un qualche significato o una piuma trovata in qualche posto particolare. Ne ho cura e loro hanno cura di me. Se li tocchi sono caldi, emanano sempre una specie di tepore. Ho attaccato due frammenti di quarzo piccini, che si erano staccati dal pezzo che mi hai regalato.”

Mi sentii fiera di essere nei suoi Dream Catchers, coinvolta attivamente in qualcosa che la proteggeva: “E poi, un paio di volte al mese, li affumico con un po’ di Sweet Grass. Anche se me ne restano una treccia e mezza, dovrò procurarmene” aggiunse contrariata.
“Dovrai tornare da loro?” chiesi speranzosa: “No, non direi. Non posso fare un viaggio negli Stati Uniti per una treccia d’avena, suvvia! Ci sono un paio di persone che possono procurarmene, gente che viaggia tra l’Europa e gli States, anche se in alcune zone alpine l’Avena Odorata cresce. Non è proprio la stessa cosa, ma posso accontentarmi, per il momento.”
Reclinò la testa, le labbra strette, studiandomi: “Stiamo divagando un sacco, sai?”
“Non importa, è bellissimo! Mi sembra di essere dentro la rete di un Dream Catcher! Mi guardo attorno e le cose sono lì, come immagini cristallizzate, magari un po’ in disordine, ma posso riordinarle io. O è una sciocchezza?” aggiunsi preoccupata.
“No, non lo è.” Rispose lei.
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Una luce improvvisa balenò sopra le mie finestre, seguita a meno di tre secondi da un boato secco, che continuò a rotolare più sordo dopo la prima esplosione.
I gatti si erano volatilizzati prima del tuono, Grigno si infilò sotto la poltroncina di vimini con le zampe sulla testa, guaendo penosamente.
“Forse conviene chiudere le persiane, dovrebbero sentirsi più al sicuro” propose Marabel.
Il cielo, sopra di noi, era livido, di un nero violaceo compatto che non prometteva niente di buono. Erano le cinque e mezza, eravamo d’accordo con Franco di collegarci alle sette e un quarto.
Due ore dovrebbero bastare per un temporale.

“Bene!” sospirò Marabel: “Io direi che a quest’ora potremmo cominciare a fare sul serio, che dici? Da stamattina non abbiamo fatto che chiacchiere disordinate e io non so nemmeno più dove eravamo arrivate e cosa ti ho detto e cosa no, miseriaccia! Fa copiare un po’ dai tuoi appunti?”
Presi il blocco: “Beh, come fai a non ricordarti? Le ultime cose in ordine cronologico riguardavano la visita alla Valle dei Re e il relativo racconto di Maggie. Io vorrei tanto sapere cosa avessero visto quei profanatori di tombe, sai?”

Si stiracchiò sul mio divano, lasciò cadere le scarpe e si accoccolò con le ginocchia contro il corpo, tirandosi addosso una copertina con i pinguini che avevo sullo schienale. Non faceva esattamente freddo, ma c’era vento di tempesta e la temperatura si era abbassata notevolmente. Mi rannicchiai anch’io dopo essermi avvoltolata nel pile della mia squadra del cuore. “Ehi, la tua è rossa, è più calda!” protestò Marabel. Io ridacchiai.
Una luce fredda, improvvisa, squarciò la penombra, più vicina, seguita ad un paio di secondi da un boato più forte e più secco, che mi fece rimbalzare il cuore un paio di volte: non temo i temporali, a volte trovo concilino il sonno, ma certi tuoni, così secchi e vicini, che piaccia o no, danno notevoli contraccolpi. Nemmeno un vulcaniano potrebbe restare indifferente, almeno a livello fisico.
“Povere creature!” brontolai.
Andai a controllare i gatti, trovai la porta del mio guardaroba un po’ aperta e, sbirciando dentro, vidi quattro palline fluorescenti che mi fissavano risentite, manco fosse stata colpa mia.
Grigno se ne stava sotto la poltroncina appiccicato al muro, e non c’era niente che potessimo fare, se non continuare la nostra conversazione con calma, così
da rassicurarli.

“Si, il racconto di Maggie colpì molto tutti noi, ma nei giorni seguenti analizzammo parecchi elementi. La percezione netta, che avevamo avuto più o meno tutti, di quella rete di energia che aleggiava sospesa nella tomba, combattendo contro l’energia sgradevole e stantia, che Maggie vedeva come di un verdastro petrolio, che invece sembrava essere stata introdotta da qualcun altro. Istintivamente in verde petrolio mi fece tornare in mente Aye, come al solito, ma non volli assecondare quella sensazione: non ero mai obiettiva con quell’individuo.
Pensai alle leggende che gravavano sulla tomba e sul Faraone, al terrore che, qualcuno raccontava, aveva colto gli operai egiziani all’ingresso nella sala del tesoro.
Non so se quei racconti non fossero che mistificazioni, ma è probabile che gente più in contatto con una dimensione magico religiosa dell’esistenza, avesse percepito una lotta tra forze opposte.
Presumo che, appena aperto il sepolcro, l’energia, rimasta stagnante là dentro per millenni, dovesse essere molto più condensata, molto più intensa di oggi o di trent’anni fa.
La cosa interessante era che una pareva rimanere ad una certa altezza, sopra le nostre teste, mentre l’altra era in basso, come più pesante e materica. In alto luminosa, profumata, in basso scura e opprimente, con l’odore di…beh, di tomba. Un odore sgradevole che ricorda la muffa, i barattoli chiusi da troppo tempo, l’acqua stagnante sul fondo di un vaso.
Noi avevamo sentito tutti l’odore di fiori e incenso, compresi mamma e l’ipnotista, ma ci chiedevamo se fosse normale o se la gente, di solito, percepisse soltanto l’odore di vecchio e di pietra.
La sera cercai di carpire qualche informazione ai turisti presenti nell’albergo; ovviamente non potevo andare lì e dire: “Ehi, signora, ha sentito il profumo d’incenso nella tomba del ragazzetto?” avrei dovuto trovare qualcosa di accettabile e insospettabile. Non avevo legato con i compagni di crociera e ora non sapevo come avvicinare le facce un po’ più familiari tra turisti per lo più sconosciuti.
Me ne stavo lì, sola soletta nella hall, in attesa che i miei tornassero da un giretto souvenirs e cartoline, quando una signora piuttosto corpulenta e con un’acconciatura che mi faceva pensare ad una pecora mi si avvicinò sventolandosi con un depliant: “Oh, buonasera!” mi apostrofò amichevole.
Ero in imbarazzo, non sapevo se la conoscessi o meno e le rivolsi un cenno educato e un sorriso neutro: “Oggi siete stati anche voi alla Valle dei Re, vero? Ma non siete tornati con noi…non vi ho più visti, la signora americana mi pareva un po’ scossa…” quindi ci conosceva: “Eh, si, sa, lei è mezza scozzese e viene dal Maine, anzi, quasi al confine con il Canada. Questo clima la uccide e nella tomba soffocava, povera donna!”
La pecora annuì comprensiva. Anche gli occhi avevano un che di ovino: “Come la capisco! Noi stiamo nel Sussex, vicino a Brighton, sa…un bel clima, mare, verde…è mai stata a Brighton?” feci cenno di no, non esattamente, ma conoscevo il Sussex a grandi linee: “Beh, è molto meno rigido del Maine, sicuramente, ma la differenza rispetto a qui è comunque abissale!” sospirò sventolandosi con maggiore enfasi: “E nelle tombe! Oh, santo cielo! E poi, io non so…non ha notato niente di strano?” sgranai gli occhi, innocente: “Strano?”
La pecora si guardò attorno, mi si avvicinò furtiva: “Si, nella tomba di Tutankhamon…io credo ci sia qualcosa di andato a male!” la guardai sbalordita: “Signora, dopo migliaia di anni, cosa potrebbe esserci di andato a male? Al massimo rinsecchito da secoli!” lei si lasciò cadere contro la spalliera del divanetto rosso: “Ah, non so. Quell’odore amaro, mi ha preso allo stomaco. Mio marito dice che sono una visionaria, lui non ha sentito niente, solo odore di chiuso, dice.
Lei ha sentito qualcosa?” era la mia occasione: “Non saprei, ecco, anche io ho sentito odore di vecchio, di muffito, ma penso sia normale, però, al contrario, vicino al sarcofago, c’era una specie di profumo, come, non so, incenso fiorito. Ma forse era un profumo addosso a qualcuno…”
La pecora mi rivolse uno sguardo molto ovino e scosse il vello biondiccio: “Dice?? Ma che strano…mio marito, mentre eravamo dentro la tomba, mi ha chiesto se avessi comprato un profumo nuovo. Ho detto di no, ma ora che mi ci fa pensare, perché me lo ha chiesto là dentro?” si alzò come in trans. Rendersi conto che l’ottuso marito poteva essere più evoluto di lei doveva averla profondamente turbata.
Più tardi, a cena, la intravvidi a tavola con un signore stempiato dall’aspetto gioviale e gli occhiali da intellettuale. Stava scherzando con altri due commensali e la moglie lo guardava con uno strano timoroso rispetto negli occhi ovini che presumo fosse del tutto nuovo.
Non trovammo altro al riguardo, né testimonianze di gente che ammettesse di aver sentito strani profumi floreali in qualche tomba o altro. Se di odori si parlava, erano quelli che normalmente ci si aspetta, pietra, muffa, vecchio.
Cercammo anche di capire se c’erano testimonianze di luci, giramenti di testa, senso di leggerezza o, al contrario, di pesantezza alle gambe, ma l’unica cosa che trovammo in diversi visitatori del presente o del passato, fu un senso di vertigine e paura.
I locali sostenevano che fossero forme di claustrofobia latente mescolati a suggestione, a causa delle leggende che girano sulle tombe egizie, niente di più; qualcuno, più pittoresco, sosteneva che fossero i resti delle magie antiche, ma niente di speciale o di diverso da quel che avremmo potuto aspettarci. Se qualcuno aveva avuto esperienze diverse, non si sbottonava.

Decidemmo di fermarci ancora qualche giorno, invece di tornare con il resto del tour, avremmo preso la nave seguente o quella dopo.
La sera ci concentrammo sul reticolo luminoso, cercando di capire se avessimo visto e sentito tutti la stessa cosa o di mettere insieme le esperienze e vedere cosa saltasse fuori.
Maggie si procurò grossi fogli di lucidi e ognuno buttò lì quello che gli era parso di vedere, con appuntate attorno, vicino al bordo, delle annotazioni personali. Alla fine, prese i fogli e li mise uno sopra l’altro e restammo per dieci minuti buoni a fissarli come ebeti, ammutoliti: avevamo disegnato, un po’ per uno, figure geometriche formate da puntini o stelline e ora, messi così, apparivano come mappe. Mappe stellari.
Le mappe del mio sogno e della visione nel corridoio di Opet.
Ancora una volta, riusciva a mandare messaggi a millenni di distanza.
Dopo un interminabile silenzio, Maggie alzò gli occhi verso di me: “E hai ancora il coraggio di dire che sono solo sciocchezze?”

Sognai quella notte. Sognai una donna strana che mi diceva strizzandomi l’occhio che avrei visto con i miei occhi com’era. Aveva un abito a metà tra la tunica greca classica e la fata turchina, una pettinatura alta sulla testa, divisa in due e adorna di perline…strana, almeno per i nostri canoni.
Forse in una realtà onirica era un normale abito da impiegata.
Sognai un mondo meraviglioso, verdissimo, Lui che correva tenendomi per mano, rideva, gli ridevano gli occhi, era felice, io cercavo di vedere il suo viso, ma vedevo soltanto gli occhi e il sorriso, ma non insieme, così che non riuscivo a ricostruirne i lineamenti. Eppure sentivo il calore della sua mano, la sensazione della sua pelle, la sua presenza che permeava la mia.
C’erano, in lontananza grandi uccelli colorati e io mi domandai se fossero davvero uccelli. Lui mi chiamava, io non riuscivo a capire il mio nome, anche se c’era una sillaba, in mezzo, come “Rei” o qualcosa del genere.
Io non ero quella donna, ero io, come nel ventesimo secolo, ed ero smarrita in un'altra vita che non sapevo ricordare. Mi portò sotto un grande albero che aveva qualcosa di familiare, ora era di fronte a me. Sentii qualcosa, come un’esplosione calda al centro dello sterno, mi accorsi che lo stesso succedeva a lui, c’erano due sfere di luce intensa come due piccoli soli al centro di quel calore, uniti da fili di elettricità, piccoli fulmini che li univano. Poi il mio sole fu nel suo e il suo nel mio.

Mi svegliai con un senso di panico, tanto era forte la sensazione.
Restai inorridita a fissare il buio: lo avevo respinto, non avevo avuto il coraggio di lasciarmi cadere completamente in quell’esperienza, terrorizzata dalla sua intensità.
Le sue parole, nella Visione, mi riecheggiavano nella mente: “Mi stai rifiutando, Is. Perché non mi vuoi?”Mi mandi via. Abbracciami, Is. Non tenermi lontano!”
Nonostante tutto la Cerimonia non mi aveva guarita, la razionalità, la paura, il bicchierino di plastica che si frapponeva tra me e la realtà non ordinaria, l’esperienza totale di appartenenza era ancora lì, beffardo, ridicolo, totalmente fuori luogo. Io lo allontanavo, lo rifiutavo, temevo la forza di quelle esperienze per timore di perdermi, di non sapere più tornare indietro e rimanere sospesa tra la speranza e la vanità del mio cercare.
 Il giorno dopo Maggie e l’archeologo vollero andare al Tempio di Karnak. Avrebbero voluto che andassimo anche noi, ma mamma non si sentì di tornare e mio padre e io avevamo il ricordo schiacciante della nostra esperienza nel Viale degli Arieti.
Restai nella suite per tutto il pomeriggio: non riuscivo a restare un po’ da sola da quando Robert era venuto a farmi la guardia a New York. Quando tutti se ne furono andati, mi spiattellai sul letto con l’idea di analizzare i notes degli appunti e mi addormentai in cinque minuti.
Ero stanca. Ero stanca di una stanchezza che non se ne va con un pomeriggio di sonno, ma per la quale un pomeriggio di sonno in solitudine è un toccasana. Negli anni avrei imparato a rifarlo, a volte, ad isolarmi, chiudere fuori il mondo e semplicemente dormire.
Era da poco passata l’ora di pranzo e mi svegliai verso cena, quando tornò la combriccola.
Nessuno mi chiese niente, dormivo tra quattro o cinque quaderni e poteva sembrare mi fossi impegnata molto, fino a poco prima.

A cena Maggie mostrò una pila di polaroid scattate nel tempio, soprattutto nel Viale degli Arieti.
Non erano grandi foto, quelle istantanee, ma era l’unico modo che avessimo per confrontarci immediatamente su quel pomeriggio.
Il Viale non era cambiato negli ultimi tre anni, molte delle sfingi criocefale erano del tutto in rovina, alcune sgretolate giacevano sul viale, a terra.
Quella notte, nel buio, mi erano parse tutte integre.
“Vorrei che tu provassi ad andarci prima di partire, Mary” disse Maggie mentre sfogliavo le piccole istantanee con la bocca amara: “Almeno vediamo se sia ancora possibile qualcosa. Tu hai una connessione con quel posto che nessuno di noi ha e…e chissà che questo non metta in movimento qualcosa” sospirò.
“Ma con tutta la gente che gironzola, non penso sia una buona idea” protestai debolmente.
“Una visita notturna sarebbe l’ideale. La notte il tempio è ben illuminato e molto suggestivo, non fa caldo e i turisti sono pochi, soprattutto all’ultima visita” chiosò l’americano.
L’ipnotista sedette accanto a me: “Sarebbe interessante tentare una nuova seduta il giorno dopo, o addirittura subito dopo e vedere se succede qualcosa” concluse.
Era chiaro che dovessero già essersi accordati tra loro, nel pomeriggio.
Deglutii: tornare alle regressioni. Vederlo peggiorare, morire…scoprire cosa fosse successo quella notte in cui gridavo nel deserto. “Floyd, portami via!” pensai.
Maggie aveva ragione: avevo trovato una via di fuga, in quel ragazzo.
Allontanai il pensiero e mi concentrai sul presente: “D’accordo, andiamoci una sera” acconsentii.
“E poi dobbiamo andare al Tempio Meridionale, Mary. Il Corridoio di Opet potrebbe essere la cosa più importante.”

Due sere dopo andammo al Tempio durante l’ultima visita serale. C’eravamo noi sei e uno sparuto gruppo di coreani con una guida, nessun altro.
L’atmosfera era suggestiva, si, ma totalmente diversa dalla volta precedente, al buio, noi soli in un silenzio assoluto, colmato dai bisbigli dei millenni e dei misteri che ci circondavano.


Entrammo dall’ingresso principale, anch’esso preceduto da un viale di arieti più corto e mutilato da faraoni successivi, che non mi diede sensazioni particolari, tranne per un senso di profondo fastidio: era troppo corto, e quelle grandi porte erano di troppo (quelle del primo Pilone, inesistente ai tempi di Iset, per costruire il quale una parte degli arieti vennero spostati). A dire il vero, molte cose mi parvero fuori posto, ma il complesso templare era stato modificato così tante volte, che non poteva essere diversamente, almeno se ci riflettevo razionalmente.
Camminavo sotto la stessa Luna di un tempo, con passo leggero e silenzioso, mi pareva di essere sola, là, mentre alle mie spalle camminavano a passetti regolari sei o sette coreani carichi di macchine fotografiche e stupore.
Avevo fretta, allungai il passo, sentii la tunica sfiorarmi le gambe. Ero infastidita dalla gente che mi seguiva, che non avrebbe dovuto stare lì.

“Dov’è il Gran Sacerdote?” pensai. Di solito mi attendeva al centro del Tempio, oltre il  lungo colonnato.
C’era qualcosa che non andava, qualcosa di sbagliato, c’erano cose diverse, altre mancavano, eppure i miei piedi mi guidavano rapidi attraverso l’immenso complesso templare.
Non era così grande, non doveva essere così grande e il colonnato non era al suo posto…era troppo grande. Quelle colonne gigantesche erano assurde!
Sua Maestà voleva lavorare in quella sala, aggiungendo alle colonne esistenti, costruite dal faraone Hatshepsut, altre colonne che avrebbero portato incise scene dell’origine degli dèi e della terra d’Egitto, ma la corte non era d’accordo: volevano un colonnato imponente, il più imponente mai visto, tanto imponente da schiacciare chiunque vi si fosse avvicinato, ma rifiutavano le decorazioni progettate dal Faraone e io ero molto irritata.
Perché vedevo quelle colonne, ora? Non dovevano esserci, le colonne di Hatshepsut erano aggraziate e leggiadre.
Alcuni visir volevano che Sua Maestà distruggesse ogni cosa edificata per volere di Hatshepsut, ritenevano di dover epurare la storia dalla sua presenza infame.
Infame? Hatshepsut era stata una donna forte, forse non così limpida nelle sue scelte, forse più dispotica di altri lungo la storia, ma non c’era alcun motivo di cancellarne la memoria.
“Ma come si permettono?” avrei strangolato qualcuno con le mie mani, uno di quei giorni!
Era notte fonda, la luna non era ancora al primo quarto, i miei piedi percorrevano rapidamente i viali, i cortili e i colonnati, senza bisogno dell’aiuto degli occhi…dov’era il Gran Sacerdote? Lo chiamai sottovoce, in quel silenzio profondo la mia voce echeggiò a lungo.
“Luna Nascente!” sobbalzai, mi voltai verso una voce aspra e sprezzante.
Il Generale. Che voleva, che faceva là, di notte?
“Generale, con quale autorità ti presenti nel Tempio?” lui sorrise, non era un sorriso amichevole.
Vedevo solo il brillare umido dei suoi occhi e il bianco dei denti.
Il cuore accelerò i battiti, quell’uomo era il doppio di me a dir poco e non c’era nessuno. Certo, io conoscevo ogni angolo del Tempio molto più di lui, potevo fuggire, ma percepii altre presenze, oltre le colonne: non era solo. Perché?
“Dov’è il Gran Sacerdote?” chiesi con voce gelida.
“Oh, che succede? Avevi qualche incontro galante, questa notte? O forse tu e il tuo amico cospirate nel buio?” che accidente stava dicendo quel grosso idiota? “Non voglio sentire idiozie, Generale, il mio mestiere è compiere riti di fronte agli dèi con il mio omologo di Amun e questo non ti riguarda, né ti riguardano le nostre conversazioni” si avvicinò, mi ritrassi.
Lui rise, una risata che riempì l’aria immobile di un suono sgradevole.
“La Signora ha paura, forse?” mi canzonò. “Che cosa vuoi, Generale?” mi resi conto che la mia voce, al contrario di quel che sentivo dentro, era ferma e minacciosa. Anche lui se ne accorse.
Mi fece un giro attorno: “Un tempo vestivi di nero, Signora. Per quale ragione hai smesso? Eri conturbante, sai? Notturna, misteriosa, profumavi di guerra. Che ti è successo? Il matrimonio ti ha domata?”
“Niente e nessuno mi ha domata, Generale, ma l’aver imprigionato i nemici del mio Signore mi ha liberata dalla necessità di un abbigliamento guerriero. In ogni caso, nemmeno questo ti riguarda”
“Vero” ammise: “Ma, come dicevo, ci guadagnavi in fascino e mistero. Ho fantasticato spesso su di te, durante le campagne. Sei altera, donna, troppo. Sei troppo fiera, troppo convita della tua intelligenza e del tuo potere, non mi piaci, ma ho desiderato spesso il tuo corpo. Domarti. Ma tu sei intoccabile, non è vero?”
Mi sorprese, feci un passo indietro, cercando di non mostrare altro che ribrezzo per quell’uomo, sperando non sentisse odore di paura, lui che lo conosceva meglio di chiunque.
Mai avevo pensato potesse degnarmi di più di uno sguardo, mai avevo avuto il minimo sospetto, ma il Faraone doveva saperlo. “Lui ti proteggerà” aveva detto costringendomi al matrimonio.
Percepii alle mie spalle la posizione delle colonne, le vie di fuga, i posti che avrei potuto usare come nascondigli.
“Si, sono intoccabile. Soprattutto per te. Dimmi, Generale, sei qui per compiere azioni contro il volere del tuo Faraone? Sei forse il traditore che non fu mai trovato?”
Sentii il suo stupore e la sua rabbia strisciare verso di me. “Quali sciocchezze formula il tuo pensiero malato, donna? Io sono la benedizione di quel ragazzino presuntuoso e insolente.
Avrebbe dovuto ricoprirmi d’oro ogni giorno della sua vita, per quello che ho fatto!”
“Sei un buon soldato, Generale, un grande condottiero, ma non sei niente altro. Le vittorie in battaglia sono tue, ma le decisioni che avresti preso per tuo volere, sarebbero state rovina per l’Egitto, senza la guida di Sua Maestà.”
Stavo rischiando, e molto, ma non intendevo lasciarmi intimidire, dovevo studiarlo.
Nella fioca luce lo vidi stringere i pugni.
Era buio, ma io avevo la tunica bianca. Il buio non era così totale da inghiottirmi completamente con quella veste, improvvisamente ebbi chiaro il suo riferimento al mio abito: il soldato era sempre all’erta in lui.

“Marabel!” sentii il cuore saltarmi in gola per la sorpresa. Ero nel ventesimo secolo, al sicuro, lontano da quell’uomo.
“Marabel!” era Maggie. La guardai ammutolita: “Che ti succede? Stavi quasi correndo, poi ti sei fermata qui e non rispondevi, sembrava volessi uccidere qualcuno”
“Oppure qualcuno voleva uccidere me” sussurrai, ancora scossa.
Sapevo di non essere morta nel Tempio, il Faraone era vivo e io gli ero sopravvissuta, almeno per un breve periodo, quindi, qualsiasi cosa fosse successa, Horemheb non mi aveva uccisa. Ma perché era nel Tempio, e per giunta di notte? Cosa cercava? E il Gran Sacerdote? Dov’era?
“Credo dovremmo sbrigarci” disse la voce dell’ipnotista, alla mia destra. Ero al centro dell’immenso colonnato istoriato, opera di Ramsess il Grande, tra una foresta di pietra che, come avrebbero voluto i dignitari del mio Faraone, faceva sentire una formica il più potente tra gli uomini.
Un luogo estraneo per me: il colonnato di Sua Maestà non era mai stato edificato, ma, qualche generazione dopo, probabilmente Nefertari aveva raccontato al consorte del progetto del Fanciullo e della diversa volontà della sua corte.
Evidentemente l’ambizione e la mania di grandezza di Ramsess aveva fatto sua la proposta della corte, poiché egli non era in grado di creare le opere magiche e multidimensionali che prendevano forma nell’animo del Bambino Sacro.
“Ramsess ha distrutto opere del mio Bambino e ci ha messo questo”
“Questo ed altro” chiosò mio padre. “Sappiamo che distrusse almeno due templi edificati da Tutankhamon, di cui non abbiamo però alcuna notizia, e forse un tempio di Aye o di Horemheb. Come al solito, ricostruire quel periodo è difficile”.
Mia madre aveva portato del succo di frutta, me lo diede, era molto freddo e mi ritrovai a battere i denti: c’erano circa ventitre gradi, la temperatura sarebbe probabilmente scesa ancora di un paio di gradi nelle ore seguenti, ma io presi a tremare di freddo. Mi vergognai, per quanto apparentemente i coreani non ci degnassero di uno sguardo.
“Andiamo via…” sussurrai.
Maggie mi avvolse in uno scialle e ci allontanammo. Non avevamo preso una guida, c’erano un paio di dipendenti a controllare che nessuno toccasse nulla, ma eravamo piuttosto liberi.
Un guardiano ci osservò attentamente, poi dovette pensare stessi subendo lo sbalzo termico e non ci pensò più.
Attraversammo lentamente i cortili, arrivammo fino al lago sacro.
La volta precedente eravamo entrati di nascosto da un passaggio laterale che conduceva direttamente al Viale degli Arieti, dove avevamo avuto quell’esperienza sconvolgente, ma il giro turistico attraversa l’immenso recinto templare, prima di aprirsi sul viale che unisce il complesso principale al recinto di Mut.
Avevo il cuore in gola nel rivedere, ancora di notte, quel viale di cui avevamo percorso soltanto una parte.
Deglutii un paio di volte prima di mettervi piede, ma non accadde nulla di simile alla volta precedente, solo quei caproni sembravano osservarmi divertiti, come riconoscendomi.
Loro ricordavano i miei passi. Loro erano lì, non erano tornati in qualche forma, erano semplicemente rimasti lì per tutto quel tempo, e mi sentii minuscola ed impermanente.
“Guarda, non sono bellissimi?”
“Asini? Ah, no, caproni!”
“Iset! Ma sono arieti!”
“Appunto, caproni!”
“Sei…sei gelosa!”
“No, no!”
“Si! Si lo sei!”
Mi ritrovai a camminare tenendo lo sguardo sui miei piedi, sorridendo e piangendo insieme.
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Era tardi quando tornammo in albergo, ma poiché le immagini delle visioni avute al Tempio erano così vivide, accettai la proposta dell’ipnotista di fare una breve seduta: un quarto d’ora, venti minuti, se il ricordo fosse tornato alla memoria con facilità, avrebbero potuto essere sufficienti.
Maggie bruciò della Salvia, accese alcune candele, mentre, al posto del lampadario, accendevamo due abat jour agli angoli del saloncino.
Mamma, papà, perfino l’americano, si infilarono discretamente nelle loro stanze, lasciandoci soli.
Cercammo di ritrovare quel momento, l’ipnotista mi riportò all’interno del Tempio di Karnak, una notte…cercavo il Gran Sacerdote.

Ero di fretta, avevo un senso di urgenza e avevo una sensazione di pericolo imminente, quasi correvo tra le slanciate colonne di Hatshepsut, diretta verso il Grande Tempio di Amun, dove avrebbe dovuto attendermi.
Quasi sempre, per gli argomenti più riservati, ci trovavamo nei suoi alloggi o nelle mie vecchie stanze presso il Tempio di Aset, ma non quella volta.
Annusai l’aria, cercando si sentire se ci fosse odore di qualche incenso, ma non mi arrivò che l’odore della pietra e di migliaia di anni di offici e cerimonie. C’era altro, però e qualsiasi cosa fosse, mi faceva sentire in pericolo.
Avevo la sensazione che qualcuno mi inseguisse, benché non vedessi nessuno.
Ero al centro della sala ipostila quando percepii un movimento nel buio. Chiamai il Gran Sacerdote sottovoce. Non c’erano lumi ad illuminare quell’area, né io ne avevo bisogno: camminavo spedita nel buio, sicura della via.
“Luna Nascente!” non era il Gran Sacerdote. Quella voce aspra, superba, carica di ironia mi raggelò.
“Generale! Con quale autorità ti presenti nel Tempio? Hai forse una dispensa per questo?” percepii il suo sorriso gelido e sprezzante nel buio, pur vedendo solo il luccichio dei suoi occhi e il biancore tenue dei denti.

Il cuore accelerò i battiti, quell’uomo era il doppio di me a dir poco e non c’era nessuno che potesse aiutarmi; al contrario ora avevo la certezza di essere stata seguita. Tre, forse quattro uomini, nascosti tra le colonne alle mie spalle, piuttosto lontani, si, vicino agli ingressi, ma pur sempre troppo vicini.

“Dov’è il Gran Sacerdote?” chiesi con voce gelida. Si avvicinò, mi ritrassi, lui rise, una risata che riempì l’aria immobile di un suono sgradevole.
“La Signora ha paura, forse?” mi canzonò. “Che cosa vuoi, Generale?” mi resi conto che la mia voce, al contrario di quel che sentivo dentro, era ferma e minacciosa. Anche lui se ne accorse.
Mi fece un giro attorno: “Un tempo vestivi di nero, Signora. Per quale ragione hai smesso? Eri conturbante, sai? Notturna, misteriosa, profumavi di guerra. Che ti è successo? Il matrimonio ti ha domata?”
“Niente e nessuno mi ha domata, Generale, ma l’aver imprigionato i nemici del mio Signore mi ha liberata dalla necessità della veste nera. In ogni caso, questo non ti riguarda”
“Vero” ammise: “Ma, come dicevo, ci guadagnavi in fascino e mistero. Ho fantasticato spesso su di te, durante le campagne. Sei altera, donna, troppo. Sei troppo fiera, troppo convita della tua intelligenza e del tuo potere, non mi piaci, ma ho desiderato spesso il tuo corpo. Domarti. Ma tu sei intoccabile, non è vero?”
Mi sorprese, feci un passo indietro, cercando di non mostrare altro che il ribrezzo per quell’uomo, sperando non sentisse odore di paura, lui che lo conosceva meglio di chiunque.
Sentii nella mia mente la voce del Faraone: “Hai bisogno di un marito. Lui ti proteggerà.”
Si riferiva a questo? Al Generale, ai suoi pensieri segreti su di me, ad altri?
Liberai la mia coscienza, percepii alle mie spalle la posizione delle colonne, le vie di fuga, i posti che avrei potuto usare come nascondigli.
“Si, sono intoccabile. Dimmi, Generale, sei qui per compiere azioni contro il volere del tuo Faraone? Sei forse il traditore che non ci fu mai dato di trovare?”
Sentii lo stupore e la rabbia strisciare verso di me. “Quali sciocchezze formula il tuo pensiero malato, donna? Io sono la benedizione di quel ragazzino presuntuoso e insolente. Avrebbe dovuto ricoprirmi d’oro ogni giorno della sua vita, per quello che ho fatto!”
Non ero certa di riuscire a nascondere l’odore della paura, ma lui non nascondeva quello del risentimento e della frustrazione. Non era più il soldato in adorazione del suo re, non più da quando Sua Maestà aveva posto limiti inattesi alle sue mire di espansione.
“Cosa vuoi? Perché il Gran Sacerdote non è qui?”
“Non può venire. Un incidente ad un sacerdote di Montu. Pensava qualcuno ti avrebbe avvertita, ma io ho pensato, per parte mia, che non fosse una buona idea. Perché rinunciare ad un ufficio notturno agli dèi per così poco? Puoi compierlo da sola o con la mia assistenza, non è vero?” aveva un tono petulante, che non gli era abituale e mi mise in maggior allarme.
“Vuoi forse officiare ad Amon al posto nostro, soldato?” ero più sarcastica di quanto avrei dovuto, meno di quanto avrei voluto.

“Quel ragazzino deve mettere la testa a posto o sparire!” era venuto al dunque così improvvisamente da sorprendermi, la voce aspra come uno schiaffo.
Non risposi, i sensi in allarme, il cuore in gola.
“Donna, lui ti ascolta! Digli di cambiare i suoi piani o non avrà più alcun piano! La sua vita è appesa ad un filo, se…se Ankhesenamon perderà anche questo figlio, io sono pronto a prendere il suo posto. Non ho dubbi che da me avrà figli forti e numerosi!” si avvicinò, sentii l’odore acre della sua rabbia investirmi: “Non c’è alcun impedimento alla mia ascesa al trono, tranne la presenza di quello storpio sognatore”
Sentivo pulsare le tempie, un dolore alla testa si stava facendo più acuto di attimo in attimo: “Sei folle! Pensavo gli fossi fedele! Ti ha reso potente, ricco, ti ha investito di onorificenze che nemmeno ti spettavano, per soddisfare la tua vanità! Come puoi tramare contro di lui, maledetto bufalo?” sibilai, feroce.
“Lui! Lui ha tradito!” sbraitò. La sua voce echeggiò a lungo tra le colonne silenziose.
“Sacrilego!” sussurrai. Anche il mio sussurro riecheggiò, ben più a lungo del suo grido secco, amplificato dall’ambiente, quasi beffardo.
“Gli Ittiti sono deboli! Se lui muore, se io salgo al trono, nel giro di un anno, forse meno, posso indire una campagna verso Oriente e sconfiggerli! La peste ci è alleata, li ha decimati, avranno bisogno di molto tempo per riorganizzarsi…la vittoria sarebbe certa, avrebbero una disfatta totale! E noi, la gloria!”
Era passato parecchio tempo da quel famoso pomeriggio in cui il Faraone aveva imposto la Sua volontà sui presenti all’udienza.
Evidentemente, dopo i primi tempi, in cui aveva dimenticato ogni cosa, doveva aver ripreso a pensare alla guerra contro gli Ittiti e forse aveva perfino tentato di convincere Sua Maestà, inutilmente.
“Tu pensi veramente che Sua Maestà si lascerebbe convincere a portare avanti quella campagna? Ora? Ti stai prendendo gioco di me?” ero allibita dalla sua stupidità, mi domandai come potesse aver condotto con tanto successo le campagne di quegli anni.
“Tu hai un grande ascendente su di lui” bofonchiò, cominciando a rendersi conto del ridicolo della sua richiesta.
“Dobbiamo espanderci verso Oriente e questo è il momento di farlo, non avremo altre occasioni così ghiotte! Conquistare l’impero Ittita ci renderebbe potenti oltre misura!” parlava con forza, come cercando di convincere un auditorio di politici.
“Potenti? Ne sei sicuro? Credi che gli Ittiti sarebbero così lieti e grati di diventare un protettorato o una colonia egizia?
No, Generale, ci odierebbero come conquistatori crudeli più di quanto ci odino ora e, il giorno in cui fossero di nuovo forti, non esiterebbero a ribellarsi, rovesciando le sorti della guerra precedente e forse sterminandoci o iniziando una lunga, infinita serie di guerre. È un paese lontano, non sarebbe così facile mantenerne il controllo.” Obiettai.
“Il paese ha bisogno di espandersi ad Oriente! Se non diventiamo più potenti, i paesi attorno vorranno conquistarci, sottometterci!”
Sospirai: il nostro paese esisteva uguale a se stesso da migliaia e migliaia di anni, protetto dal deserto.
“Non è facile conquistarci o combatterci. La maggior parte dei popoli non è in grado di attraversare indenne il deserto e tantomeno di farlo senza che noi si venga a saperlo con largo anticipo, sconfiggendo gli eserciti prima che raggiungano le aree abitate o le prime oasi. Non abbiamo alcun bisogno di protezione, ci è stata data dagli dèi” risposi quieta.
“Ma che vuoi saperne, donna! Sei soltanto un’ancella resa potente dal capriccio di un ragazzino!” inveì.
“Non ci piace quello che sta combinando” riprese. “Le sue idee sono malsane come il suo corpo! Vuole costruire un nuovo colonnato e decorarlo con assurdità sulla storia, sulle origini della vita e degli dèi. Sostiene che suo padre, o meglio, il suo predecessore, come lo chiama, abbia, come dice? Cancellato la conoscenza profonda con la sua scelleratezza. Sostiene che abbia fatto si che il vero significato dei simboli sia stato dimenticato, in un delirio di magia per ignoranti, che ha reso la conoscenza nient’altro che un effimero velo disteso sul nulla.” Si interruppe, cercando di dare un senso a parole che ripeteva senza comprendere.
“So bene cosa dice” intervenni.
“Che cosa vuole?” ringhiò.
Sospirai. Nemmeno io conoscevo a fondo i suoi piani e non potevo certo raccontargli della sua intenzione di distruggere i demoni creati dagli uomini e ora adorati al posto degli dèi antichi.
D’altra parte, non avrebbe capito una parola.
“Il volere ultimo di Sua Maestà, è chiaro soltanto a Sua Maestà. Non conosco il suo obiettivo finale, solo…”
Si voltò di scatto verso di me, come un leone pronto al balzo: “…Solo so che agisce per il bene del popolo e della terra. Non per ambizione di potere, che peraltro non gli necessita. Sua Maestà ha un cuore puro, il bene del mondo gli preme.”
“Lui ci sta sfuggendo! Lui non vuole percorrere la strada già segnata dalle Dinastie!” mi accorsi, in quel momento, che era terrorizzato. Quell’uomo grande e grosso, che mai aveva arretrato in battaglia di fronte ad alcun nemico, che si faceva beffe della distruzione e della morte, era terrorizzato da un fanciullo inerme e malato.
Mi fece quasi tenerezza: nella sua stolida materialità, quell’uomo temeva la grandezza divina e inafferrabile che non era in grado di capire, né di reggere, nonostante tutta la sua forza.
Viveva nel suo quotidiano, capiva le pietre, il tempio, le navi, i cavalli, capiva i nemici e le loro strategie, non capiva il Divino. Gli dèi erano esseri di pietra che parlavano ai sacerdoti dagli altari, immobili e statici da migliaia di anni, che, forse, entravano nel corpo di chi saliva al trono per poter gettare il loro sguardo sul mondo e compiacersene o rammaricarsene e, in quel caso, far cadere regni, provocare distruzione ed epidemie.
Il resto, era ben oltre la sua immaginazione.
“Per quale ragione hai portato i tuoi uomini?”
Lo sorpresi. Si voltò verso di me, sospettoso: “Quali uomini?” la sua voce era un ringhio sommesso, ora.
“Mi seguivano. Attendevano nascosti tra le ombre dei cortili esterni, mi hanno seguita, direi…tre. Sono tre uomini e sono armati. Un generale e tre soldati per fermare una sacerdotessa disarmata o al massimo armata di un coltello? Non ti pare eccessivo?” c’era una nota di derisione nella mia voce. Perché dovevo sempre provocare e mettermi nei guai? Ero sola contro quattro militari grandi e grossi. E armati.
Non rispose. Non si cammina soli sui campi di battaglia o in terra nemica, avrei dovuto saperlo anch’io.
“Puoi fuggire” disse alla fine, incolore. Sapeva che sarei stata in grado di nascondermi nel buio e di sgusciare tra di loro, inafferrabile.
“Ne avrei motivo?” silenzio.
Faceva freddo nel Tempio di notte.
“Dimmi che cosa vuole!” insistette.
“Sono solo un’ancella, non conosco i suoi piani”
“Menti” lo disse neutro, senza rabbia, quasi rassegnato.
“Lui non vi sta sfuggendo, Generale. Lui non è mai stato in mano vostra, vi è sfuggito il giorno in cui è stato concepito.”
Accusò il colpo senza reagire, in fondo lo sapeva.
“Perché quei bassorilievi? Perché una storia diversa da quella narrata da sempre?” mi sentii sorridere: “Perché è tempo”
Si lasciò cadere contro la colonna alle sue spalle, scivolando a sedere sull’impiantito. Sentii che giocherellava con qualcosa di metallico, evidentemente un coltello.
Io non ero armata, non avrei mai pensato di averne bisogno.
C’erano sempre quei tre soldati nell’ombra, non ci potevano vedere, ma erano lì, all’erta, a guardia delle porte.
“Potrei ucciderti…” rifletté. Lo sentii rigirare la lama tra le dita, lentamente: “Se ti uccidessi…” ebbi la sensazione della sua bocca che si arcuava in un sorriso crudele che cambiò il tono della sua voce: “Se ti uccidessi…ne morirebbe. Troverebbero il tuo corpo qui, nessuno potrebbe mai pensare a me, anzi, forse accuserebbero il tuo amico, il Gran Sacerdote. Oh, si, il Gran Visir non si farebbe alcuno scrupolo a far ricadere su di lui la colpa, sai, non è che proprio lo ami.
E poi, nessuno, nessun wabu, nessun sunu o mago di qualche genere sarebbe in grado di curarlo e la sua malattia avrebbe il sopravvento nello spazio di una luna. Il suo cuore si spezzerebbe. Sarebbe perfetto.
Potremmo piangerlo, disperarci per lui, non dovremmo sporcarci le mani come è stato per altri, non credi? Perché non ci ho pensato prima?” sembrava quasi sorpreso dal non aver mai considerato quella possibilità.
Mentre parlava, misuravo con i sensi la distanza tra me e le colonne, lo spazio, la posizione degli uomini nascosti presso gli ingressi. Sapevo come evitarli, avrei solo dovuto scivolare dietro una colonna e lasciar cadere la tunica bianca.
Arretrai lentamente, impercettibilmente, lui fece un balzo, mi afferrò.
Ci fu un boato, uno schianto, un grido.
Era sorpreso, ma mi teneva ancora più stretta nella morsa delle sue braccia, come a farsi scudo di me. Bene, almeno un uomo era stato colpito, qualsiasi cosa fosse successa, ma non mi serviva se non riuscivo a liberarmi.
Vento, un vento bollente ci investì, della polvere dovette finire negli occhi del Generale, guizzai via dalle sue braccia come un’anguilla, corsi via, lungo il corridoio centrale, lui mi seguì tossendo, poi…poi ci fu una luce abbagliante e lui cadde in ginocchio alle mie spalle.
Mi infilai nella luce e corsi fuori senza voltarmi.
Tranquilla, sono qui, sei al sicuro!”
Mi inseguono!”
“Lo so, ma ora va tutto bene, ci sono io qui, sei al sicuro”.

Mi risvegliai nel ventesimo secolo.”
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Anche io mi risvegliai, quando Marabel smise di parlare. Avevo avuto la sensazione, per tutto il tempo, di essere nel Tempio, di sentire le loro voci duellare nel buio.
Ascoltandola mi era chiaro come i loro sensi, almeno quelli di soldati o di persone come Iset, fossero molto più sviluppati dei nostri.

Parlava dell’odore della paura, della rabbia, come se il loro olfatto non fosse molto diverso da quello di un cane e così pure l’udito o la percezione cinestesica dell’ambiente.
Forse questa è una delle ragioni per cui ai moderni è così difficile capire le menti degli antenati: la nostra percezione del mondo è talmente limitata e grossolana, da non permetterci di leggere altro che i messaggi più materici e macroscopici, cioè forse il 5% di ciò che ci circonda.
“Ma cos’era successo? Cos’era quella luce?” chiesi ansiosa.

Un tuono cadde proprio sopra la casa, così assordante da far scattare gli allarmi di auto e negozi nel raggio di un paio di isolati. La luce era saltata da un po’ e io non avevo intenzione di controllare il salvavita, per il momento.
Grigno era più sottile dello stuoino su cui si era raggomitolato, i gatti mantenevano un dignitoso terrore dentro l’armadio, immobili, in attesa che quel finimondo decidesse di terminare e, a giudicare dai loro sguardi fosforescenti, considerandomene direttamente responsabile.

“Cos’era successo…” ripeté lentamente: “All’inizio pensai si fosse trattato di un provvidenziale terremoto che aveva provocato il crollo di una delle colonne più antiche, ma c'era quella la ventata di aria calda…
 Nel tempio, tra mura spesse e colonnati di pietra, la temperatura era molto più bassa che all’esterno e, se si fosse spalancato un portone per via del terremoto e fosse entrata dell’aria, sarebbe stata più calda di parecchi gradi rispetto all’interno e avremmo potuto percepirla come vento caldo.
Alla luce, invece, non so dare spiegazioni scientifiche o almeno razionali. Io scappai fuori dalla sala, gli uomini del Generale corsero, piuttosto goffamente nell’ambiente per loro estraneo, a soccorrere il compagno e sincerarsi che il loro superiore stesse bene, non pensando affatto a me.
Quando fui fuori, nel viale lungo più del doppio di oggi, vidi nella luce una figura in piedi, con le braccia tese verso di me, ma, dopo pochi passi, tutto scomparve e mi trovai al buio. Ne ero stata completamente avvolta, fino ad un attimo prima e poi –pòf!– sparita e, immediatamente dopo, vidi della gente arrivare di corsa: dignitari, architetti, sacerdoti, che vivevano nella cittadella accanto al complesso templare, preoccupatissimi.
Dissero di aver sentito tremare il pavimento e poi uno schianto provenire dal tempio e di essere quindi corsi a controllare, in tempo per vedermi uscire. Non parlarono di luci, né di vento.”
“Ma il terremoto aveva distrutto altro? Com’era la situazione in città?” immaginavo la capitale invasa da gente in preda al panico, case crollate, feriti, morti…tutto ciò che accompagna queste situazioni in modo più o meno grave.

“Nulla. Era tutto tranquillo, non c’erano stati crolli, né si era avvertito alcun terremoto.
Il terreno aveva tremato, a quanto pare, solo all’interno della cinta di Amon, poi c’era stato lo schianto.
Il resto della città per lo più era tranquillo, solo le zone più vicine al tempio erano un po’ in subbuglio e la gente stava uscendo per vedere cosa fosse successo avendo sentito quel boato.
Presto ci si rese conto che non si era trattato di un terremoto, ma di un cedimento del terreno sotto quella porzione di Tempio, che aveva provocato il crollo della colonna. Era appena passata l’inondazione e, nei giorni seguenti, gli architetti scoprirono che uno dei blocchi che costituivano la colonna era più cedevole del normale e che, al di sotto, si era formata una piccola cavità che aveva indebolito la base, probabilmente un’infiltrazione di acqua che, col tempo, aveva corroso il blocco difettoso. Ovviamente, il peso della colonna aveva fatto il resto.

Non parlai del vento caldo, né della luce. Aspettavo che qualcuno dicesse qualcosa, ma nessuno sembrava interessato ad altro che al crollo, così non ne feci parola.
Il Generale, però, aveva sentito il vento e visto la luce.
Quando arrivarono gli altri era con i due uomini accanto alla colonna crollata, dovette dare spiegazioni per la sua presenza dentro il Tempio, del tipo che era passato con una pattuglia, aveva sentito strani scricchiolii e aveva cercato di entrare a controllare, avendomi vista entrare poco prima.
Io non accennai neppure alle minacce.
Il Gran Sacerdote arrivò di corsa, stupitissimo di trovarmi lì, gli dissi di non aver avuto alcun messaggio da parte sua e mi scortò verso i suoi alloggi per controllare che andasse tutto bene, dove ci raggiunse mio marito, il quale, avvertito del crollo, era saltato immediatamente sul carro per raggiungermi.”

“Non parlasti con loro di quello che era successo?” indagai.
“Si, appena al sicuro a casa del Gran Sacerdote, raccontai loro tutto, per filo e per segno. Mio marito rimase raggelato, sembrava perfino ferito, come non si aspettasse un comportamento simile dal Generale, mentre il Gran Sacerdote, pur profondamente colpito, fu più preoccupato per me e Sua Maestà che per il tradimento. Sembrava quasi darlo per scontato”

“E della ventata? E della luce?”
Si mordicchiò il labbro, prima di rispondere: “Beh, io…non ne parlai nemmeno con loro. Non in quel momento, non me la sentivo. Sembrava tutto troppo incredibile, soprattutto quella figura indistinta che avevo visto nella luce. Volevo parlarne con il Faraone”

Speravo ardentemente che la luce tornasse, insieme alla calma, per poterci collegare con Franco a Parigi: tutta la faccenda diventava sempre più grandiosa!
“E lo facesti? Che disse il Faraone?” la incalzai, pendendo dalle sue labbra come una bimbetta che ascolta fiabe dalla nonna: “Si, in seguito.  Il giorno dopo volli a tutti i costi un’altra seduta, anche se l’ipnotista era contrario.
Non mi importava di stancarmi, volevo sapere cosa fosse successo, come stesse Sua Maestà dopo quell’episodio, perché io ero certa che fosse lui la sagoma che avevo intravisto nella luce e non volevo aspettare un’altra settimana.
Riuscii a tornare abbastanza facilmente a quella notte, a casa del Gran Sacerdote.
Era molto tardi quando smettemmo di parlare, il Gran Sacerdote aveva imbandito la tavola con frutta e formaggio per rifocillarci insieme e restammo a discutere sul comportamento del Generale e sulle possibili conseguenze, finché fu quasi l’alba.
 Stavamo per andarcene, quando un tirocinante di Sekhmet bussò alla porta, chiedendo di me e mi scortò in lacrime al palazzo reale. Sua Maestà, disse, stava molto male e non si riusciva a rianimarlo.

Quando arrivai era cosciente, ma in uno stato di totale prostrazione da cui il medico non riusciva a farlo riprendere. Era esangue le labbra bianche e tremanti, incapace di parlare e di muovere altro che gli occhi, che, pur muovendosi rapidamente, fissavano il nulla.

L’ordine era di non permettere alla Sposa Reale di avvicinarsi e di non rivelarle per nessun motivo lo stato del fratello: era di quasi quattro mesi, quella gravidanza pareva non dare problemi ed era fondamentale che non si agitasse.
Il medico aveva ordinato ad alcune donne di farle un bagno profumato, darle una colazione sostanziosa e poi costringerla ad una gita in barca sul fiume, dove, se si fosse liberato dai suoi impegni, il Faraone l’avrebbe presto raggiunta. Dopo il caos della notte precedente, non fu difficile convincerla che Egli fosse pressato da ogni parte.
Se però non succedeva qualcosa, se lui non si fosse ripreso entro sera, sarebbe stato un disastro.
Accoccolata al suo fianco lo chiamai diverse volte. Gli tenevo la mano e mi accorsi che aveva piccoli scatti, si che stringeva la mia, sperai volontariamente. Lo avvolsi in una coperta di lana e ordinai un infuso di rosmarino e timo oltre a una tintura delle stesse erbe da usare su piedi, polsi e tempie.

Lo massaggiammo a lungo, vedendolo reagire man mano che le sostanze penetravano nel suo corpo, e, non appena fu in grado di deglutire, lo costrinsi a bere l’infuso caldo.
Era ormai la metà del giorno dopo quando fu in grado di muoversi debolmente e di dire qualche parola, ma era quasi del tutto cieco: non vedeva che ombra o luce e la luce gli feriva gli occhi.
Lo lavai con acqua di erbe corroboranti e riscaldanti, lo aiutai a muoversi e poi, un po’ alla volta, lo costrinsi a mangiare. Nessuno capiva cosa gli fosse successo, tutti associavano il suo stato al crollo della colonna, come un terribile presagio, io temevo di conoscere la verità fin troppo bene.

Quando fu in grado di parlare chiese della sorella. Gli fu detto che era sul fiume con alcune ancelle, per una gita in barca, e lui si rilassò un poco, ma era ormai quasi il tramonto e molto presto sarebbe tornata. I dignitari erano pronti a dirle che Sua Maestà era ancora impegnato con architetti e sacerdoti sul luogo dell’incidente, ma l’indomani?
Si sarebbe potuto dirle che era molto stanco e dormiva profondamente, ma l’inganno non avrebbe potuto procedere oltre, presto si sarebbe insospettita e avrebbe scoperto le sue reali condizioni.
“Devo riprendermi” mi disse quando fummo soli: “Se mi vede così rischiamo che abortisca!”
Gli tenevo le mani tra le mie, gliele baciai: “Cos’hai fatto, Am’n?” gli sussurrai. Lui riuscì ad accennare un sorriso: “Quello che dovevo. Non ci riproverà, non finché ci sarò io” sussurrò e si addormentò nuovamente.
Si svegliò solo verso la metà dell’indomani, chiese un po’ d’acqua, gli imposi altro infuso caldo, tornai a massaggiarlo insieme a due giovani wabu, e un po’ alla volta cercammo di fargli muovere mani e piedi.
Si riprendeva, ma lo stato di sfinimento era tale da lasciare tutti sgomenti.

“Il Gran Sacerdote e mio marito ne sono al corrente” gli sussurrai all’orecchio: “Ma non credi che dovremmo fare qualcosa? Non puoi più fidarti di lui! Vuole il tuo trono!” aprì leggermente gli occhi velati dalla cecità e abbozzò un sorriso: “Era lì, lì per averlo, eh?” commentò divertito.
“Ehi!! Come ti viene in mente di scherzarci? Abbiamo passato ore di terrore, non riuscivamo a farti riprendere, ti rendi conto?”
“Uhmmmm”
“HeruRa?!?”
“Questo è un problema…ho un po’ paura, sai? Se non mi torna la vista? Non voglio restare cieco, Is!” sembrava un bambino. Scossi la testa, non sapevo cosa fare: “No, vedrai, andrà tutto a posto!” esclamai, pregando in cuor mio che fosse così.
Sospirò profondamente, cercò il mio abbraccio e si riaddormentò.




Più tardi sentii un trambusto fuori dalle sue stanze ed entrò sua sorella, preoccupatissima.
Le feci cenno di fare silenzio: “Che gli è successo questa volta? C’entra qualcosa il crollo dell’altra notte?”
“Va tutto bene, ora, ha solo problemi alla vista, ma gli succede spesso quando ha svenimenti o dolori di testa. È stanco, si è stancato molto in questi giorni e, sai, è molto preoccupato per te.”
Lei scrollò le spalle: “Lo so. Lo sono tutti. È incredibile, vero? Sono al quarto mese e pare vada tutto bene. Non so se crederci” disse tristemente.
Si lasciò cadere su una sedia accanto al letto, intrecciando le dita sotto il pancino.
Io tenevo lo sguardo ostinatamente da un’altra parte, per timore di quel che avrei potuto vedere. Se ne accorse: “Hai paura di vedere qualcosa di brutto?” chiese ironica.
Mi sentii scoperta, non risposi.
 “Dovresti riposare, Sposa Reale. Anche se le tue ancelle ti aiutano facendoti trascorrere giorni piacevoli, è sempre faticoso, non credi? Tuo fratello è tranquillo, sta riposando, dovresti farlo anche tu. Non succederà nulla, vedrai. Deve solo riposare.”
Lei mi studiò a lungo, pensierosa: “Così dovrei sceglierti io stessa come sua sposa, eh?”
Ero imbarazzatissima: “Non è detto! Se tutto va per il meglio, se il bambino nasce e…”
“Sai benissimo che è una bambina” mi interruppe: “Non sarei al quarto mese, altrimenti. Se anche nascesse sana per miracolo, non avremmo comunque l’erede al trono. Ma c’è un problema. Anzi, due.”
Alzai gli occhi sorpresa. “Tu hai ventisei anni. Sei sposata da oltre tre anni e non hai figli!” le scappò da ridere: “Pensi che Aye e i suoi fidi dignitari non avranno niente in contrario? Potresti essere sterile, anzi, probabilmente lo sei, altrimenti perché non avresti figli? Non possono sostituire me con una donna sterile, non credi?”

“Ma non è così!” protestai.
Lei si strinse nelle spalle, con una smorfietta: “Non puoi dimostrarlo. E direi che non è il caso, a questo punto, di provare a fare un figlio con tuo marito, no? Comunque, credimi, Tey non te la farà passare liscia. Avevano deciso, anni fa, che la sua eventuale Seconda Sposa dovesse essere mia zia” si interruppe, rosicchiandosi il labbro inferiore: “Ma lui è stato davvero astuto…”
La fissai senza capire: “Tu…tua chi?” lei gettò uno sguardo furtivo verso il fratello: “Nefertiti aveva una sorella piccola. Ora ha diciassette anni. Ne aveva appena sette quando mio fratello salì al trono, era piccola e c’ero io, già vedova del precedente faraone, così  venne tenuta da parte.
È sempre rimasta ad AkhetAton, come sacerdotessa dell’Aton. Aye e Tey l’hanno preparata per anni a diventare Seconda Sposa, se non Sposa Reale. Ma lui…è riuscito a liberarsene con un divertente strattagemma.”
“Chi è? Io non la conosco…” dissi, mentre cercavo di far mente locale su una ragazza che avevo intravisto a volte ad AkhetAton, quando ci fermavamo.

“Oh, si, la conosci, almeno di vista.” Indicò con un cenno della testa la porta: “L’ha data in sposa al suo ufficiale preferito, il suo uomo più fedele, circa un anno fa. Non ha mai preso lontanamente in considerazione l’idea di sposarla. Lui vuole te, ma non credo che questo conti molto, a dire il vero. Tu non hai sangue reale, Iset, e nemmeno nobile.”
“Ma…ma nemmeno il Generale!” sbottai, poi mi bloccai di colpo, ricordando che Ankhesenamon non sapeva nulla.
Lei spalancò appena gli occhi, quasi divertita: “Il Generale non conta. Si, lo so, se morisse mio fratello, lui ritiene che il trono gli spetterebbe, ma per arrivarci dovrebbe sposare me. O mia zia.
In ogni caso, lui è un cugino acquisito, un minimo di diritto potrebbe averlo, tu no.”

Non c’era sarcasmo, non giudizio nella sua voce, stava semplicemente elencando dei fatti.
Mi sentivo mancare, sentivo un dolore alla bocca dello stomaco e avevo improvvisamente freddo.
Lei si alzò, tenendosi il pancino: “Beh, hai ragione, sono stanca. Tanto ci sei tu a vegliarlo, buona notte”
Restai là, incapace di reagire.
Sua Maestà si era liberato della zia acquisita con una mossa abile, sostenuta dalla totale e cieca fedeltà del militare, ma non poteva continuare a distribuire mogli in giro per il Regno…”

Mi sentivo male anche io. Per un po’ non riuscii a commentare, ero svuotata: “Ma lui…ma lui…ma come…ma chi?!?”
Marabel mi guardò alla sua maniera, reclinando la testa per studiarmi meglio: “Da qualche parte doveva ben arrivare Nefertari, no?”
“Eh?”
“Nefertari, la Grande Sposa Reale di Ramsess il Grande! Lo sai che era una discendente di Aye, si?”
“Ssssiiiiimaaaaa…”

“Ovviamente non ci eravamo mai aspettati che sarebbe stata una passeggiata, ma il Faraone confidava molto nel rispetto della volontà della sorella, io confidavo in lui. Sapevo del matrimonio, molto fastoso, del militare con una giovane rimasta ad AkhetAton negli anni della restaurazione, sapevo che era molto cara alle due serpi, ma non avevo idea che fosse la zia di Ankhesenamon. Insomma, aveva spedito via alcune coppie, con i nostri visitatori del Nord, e presumo ci fossero un paio di possibili candidate, la più pericolosa l’aveva maritata al suo uomo migliore, ma…non la vedevo bene per niente, soprattutto dopo le parole della Sposa Reale sul mio non avere figli.
E improvvisamente avevo paura.
A tarda sera si risvegliò, e chiese qualcosa da mangiare.
Mi portarono una minestra calda, della carne tagliata finissima e impastata con erbe aromatiche e olio, così fine da poterla mangiare senza la fatica di masticare, e acqua fresca. Era roba molto buona.
Dovettero portare anche dei sostegni da porgli sotto la schiena, perché non era in grado di sollevarsi nemmeno sorretto.
 Lo aveva fatto per me. Era stato ad soffio dalla morte per salvarmi, eppure non mi considerava degna di essere messa al corrente di ciò che riguardava la sua famiglia, nonostante questo riguardasse anche me e molto da vicino.

Lo imboccavo e inghiottivo lacrime.
Dormì ancora un po’, si svegliò che era ormai notte: “Perché piangi?” sussurrò.
“Tua sorella mi ha raccontato” iniziai.
Era come un rospo che non voleva uscire dalla mia gola: “Cosa?” la voce era così sommessa da essere quasi impercettibile: “Non ti permetteranno di sposarmi. E non ho figli, secondo lei questo fa di me una reietta.”
Corrugò la fronte, cercando di capire, restò in silenzio per un tempo interminabile, tanto che pensai si fosse riaddormentato: “Ouf!” sbuffò lui. Un momento dopo il suo respiro era lento e regolare: dormiva profondamente. A quanto pareva, quella faccenda non lo turbava minimamente, non era che una seccatura.

Nei giorni seguenti lo lasciai pochissimo. Progrediva lentamente, ma costantemente, assistito anche da un paio dei suoi medici personali, lasciando ovviamente in mano ad Aye il governo.”

“Ma, no, Marabel, fai capire! Non fece arrestare il Generale?” sbottai, interrompendola. Era follia pura, questa faccenda!
“Eh, facile a dirsi, ragazza mia! Il problema è che io ero sola nel Tempio, quella notte, con il più importante Generale dell’esercito egizio, un uomo di inestimabilisssimo valore e tre suoi soldati. Non c’erano testimoni.
Mio marito era a casa nostra e c’erano testimoni che lo avevano visto là, non avrebbe mai potuto testimoniare, dicendo di essere arrivato e aver visto qualcosa.
Il Gran Sacerdote, disgraziatamente, era stato visto altrove da ancor più persone, e un centinaio di presenti nei cortili erano lì quando lui era arrivato dopo il crollo.
L’unico che poteva testimoniare, e questo solo in virtù della sua Divinità, sarebbe stato il Faraone, il quale, disgraziatamente, era fuori combattimento, e lo rimase per giorni, come sappiamo.
Quando fu sufficientemente in forze, il Generale era partito, con la scusa di difendere le coste dagli attacchi Sherden, che in quei giorni si erano divertiti a prendere di mira parecchi nostri mercantili. Non lo si vide in giro per settimane.” “D’accordo, ma non avrebbe potuto, il Faraone, farlo richiamare e denunciare l’accaduto, comunque, appena si riprese?”

Marabel si lasciò cadere contro lo schienale, studiandomi e studiando ciò che doveva dire.
“Eva…non hai idea, vero? Il Faraone era Dio incarnato, è vero. Lo era dall’alba dei tempi, ma lo era per il popolo, per i sacerdoti, per la corte, per molti nemici, non tutti, e, normalmente, lo era perfino per i familiari e i dignitari di rango più elevato e più a lui prossimi.
Ma, in quel periodo che sta tra Amenophis terzo e Ramsess primo, le cose non andarono esattamente in quel modo: era successo un disastro, un uomo solo era riuscito a radere al suolo millenni di storia e di struttura sociale, culturale e religiosa e i suoi successori dovettero lottare con le unghie e con i denti per tornare al valore di prima.
Peraltro, direi senza riuscirci: Ekhnaton aveva sgretolato la conoscenza dal profondo, facendo si che il vero valore dei simboli, della scrittura reale, venisse dimenticato, lasciando soltanto il valore che possiamo definire alfabetico. Ciò che era perduto non si recuperò mai più e questo provocò dapprima il sorgere della diciannovesima dinastia, una dinastia militare, in seguito disastri come le influenze greche, l’invasione assira di Assurbanipal, che distrusse completamente Waset, e poi ancora le liste tolemaiche, fino all’epoca romana. Il novanta per cento delle antiche conoscenze, a quel punto, era cancellato per sempre.
Noi, al termine della diciottesima dinastia, non potevamo prevedere tutto questo, ma sapevamo di trovarci in una situazione disastrosa, senza precedenti!
Non era sufficiente la grande restaurazione messa in opera dal mio Faraone, non bastava recuperare templi, riportare lo splendore nel paese, la ricchezza, riconquistare terre e potere: mancava qualcosa, qualcosa che non si poteva
quantificare in alcun modo.

Il Faraone era ancora Divino per il popolo, ma non come prima: chi era stato quell’uomo che era scappato a nascondersi, abbandonando il paese a se stesso e che diceva di essere Dio, di essere l’unico? Era Faraone, quindi doveva essere Dio, ma allo stesso tempo era sbagliato, quindi cosa significava? Tutto questo era stato totalmente destabilizzante per il mondo di allora, aveva minato le certezze, la fiducia con cui il popolo si metteva nelle mani dell’immagine divina in terra.
Quindi, Il potere non solo non era più scontato, ma andava riconquistato giorno dopo giorno e con molta abilità, costanza e determinazione. E con fatica, molta fatica. Bastava poco per creare sospetto, per annientare tutto il lavoro fatto fino a quel punto.
La cosa peggiore era che, per alcuni a corte, come sappiamo, i faraoni erano uomini: figli, cugini, nipoti, fratelli, amici d’infanzia, quello che vuoi, ma non dèi! Chi era veramente accanto a colui che sedeva sul trono, era molto più disincantato del resto dell’umanità intera, nemici compresi.
Se avesse gettato in galera il Generale al suo ritorno alla capitale, semplicemente gli avrebbero detto che lui, quella notte, era nelle sue stanze ed era stato molto male.
Molti gli avrebbero creduto, altri no, o meglio, avrebbero pensato che avesse avuto qualche visione dovuta al suo grave stato di salute di quel momento.
Se io avessi confermato le sue parole…ecco, un paio dei miei più scaldati sostenitori, avrebbero colto la palla al balzo per accusarmi di approfittare del grave stato del Faraone per i miei interessi, di volerlo manipolare.
Non aspettavano altro. Se Sua Maestà fosse ancora stato in salute, se avesse ancora avuto le capacità che aveva tempo prima, intendo, allora avrebbe potuto agire, come tempo prima, mostrando il suo potere divino, ma ora…come sappiamo si era indebolito molto e, ancora non lo sapevo, più di quanto credessi, non era più in grado di compiere quelli che alla corte sarebbero parsi prodigi.
Non avrebbe più potuto far cadere in ginocchio il Generale con un cenno della mano.
Era un ragazzo stanco, sfinito, preoccupato e con la spada di Damocle della mancanza di progenie a pendere sulla sua testa.
Con tutto, anche io pensai, in quel momento, che avrebbe dovuto farlo imprigionare.
C’erano almeno altri due grandi ufficiali che avrebbero potuto prendere il suo posto, preferibili al Generale e che lo avrebbero sostenuto, se non altro per il proprio interesse.

Comunque, un po’ alla volta riprese forza, la vista tornò, anche se all’inizio pativa moltissimo la luce, riprese a mangiare da solo e ad alzarsi per un tempo sempre più lungo.
 Un mattino, dopo la visita del medico, di sua sorella e di Aye, mi pregò di aiutarlo a raggiungere il seggio accanto alla finestra.
Per un po’ non disse nulla, lasciandosi cullare dall’aria tiepida e dai profumi che di verde che portava. Era il tempo del silenzio: il fango nero copriva la terra e la vita era sospesa, apparentemente addormentata, in attesa di trionfare rigogliosa. Lui lasciò scorrere lo sguardo fin dove poteva, sorridendo tra sé.
“Ho perduto la mia magia” disse dopo un po’.
Non capii che intendesse: “Cosa?” domandai dopo averci riflettuto un bel po’.
Prese un respiro, esitò mordicchiandosi un labbro: “Non ho più alcuna capacità, Is. Lo sforzo è stato troppo. Sono vivo, ma qualcosa in me si è bruciato. Torno a vedere con gli occhi del corpo, ma sono cieco. Non potrò più contrastare l’avanzare dei miei mali. Se la corte lo sapesse, direbbe che la Divinità mi ha abbandonato, non sono che un ragazzino inerme, ormai.”
 Aveva parlato guardando l’orizzonte, i campi bruni, il fiume, ora si voltò verso di me: “Nessuno deve saperlo, nemmeno mia sorella”

“Perché lo hai fatto?” spalancò gli occhi, sorpreso: “Perché? Sbaglio o avevamo un problemino?”
“Potevi mandare qualcuno ad aiutarmi, potevi lasciare che…” mi fermai, ricordando le parole del Generale e lui alzò un sopracciglio, divertito.
“Non c’era tempo di mandare qualcuno. Dovevo scegliere tra te e la vita, e ho scelto te.” Disse come fosse stata la cosa più naturale del mondo.

Non avevamo più parlato né del matrimonio, né la Sposa Reale aveva più fatto cenno all’argomento, eppure, nelle lunghe veglie di quei giorni, ci pensavo e ci pensai anche in quel momento. “Pensi davvero che potrei sposare un’altra donna che non voglio?” chiese sorprendendomi.
Dovevo aver capito male, aveva appena detto di non avere più alcun potere…chinò la testa sorridendo: “Ho detto di essere diventato cieco, sordo ed inerme, non stupido” aggiunse ridacchiando.
“Non permetterò che mi impongano un’altra sposa politica, Is. Ho chiesto al mio uomo più caro e fedele, colui che per me è padre e fratello, di sposare la sorella di Neferuaton, un po’ più di un anno fa, che volevano impormi, ma lei mi è in un certo qual modo utile, sai? Vedi, Tey l’ha avuta ad oltre quarant’anni, quando né lei, né altri se lo sarebbero aspettato, sai cosa significa questo?”

lo guardai perplessa: “Che poteva farne a meno?” azzardai.
Lui scoppiò a ridere, tanto che quasi scivolava giù dalla sedia. “Beh, forse, anche” disse quando si riprese: “Ma intendevo che potrò usare questo fatto come arma contro di lei. Hai ventisei anni, Tey sostiene tu sia troppo vecchia per darmi dei figli e io le butterò in faccia che è la madre di sua nipote. È vero, lei aveva avuto altri figli, prima, ma il fatto che tu non ne abbia non significa nulla.” Prese fiato: “Avrei dovuto importi almeno un figlio, ma temevo ci sarebbero state altre complicazioni, in quel caso. Tu e io sappiamo perché non ne hai avuti e tuo marito potrà testimoniare, quando sarà il momento, che fu una vostra scelta. Al resto penseremo a tempo debito, è inutile affaticarsi con pensieri vani, ne ho fin troppi di attuali a preoccuparmi” sapevo che pensava al tradimento del Generale.
“Perché non lo fai imprigionare?” chiesi.
“Io l’ho già imprigionato” rispose.
Voltò lentamente lo sguardo verso di me: “L’ho imprigionato nella sua paura. Quello che è successo, anche se non ha mostrato emozioni, lo ha sconvolto. Non ci proverà più, a meno che succeda qualcosa di imprevisto. E penso gli sia definitivamente passata la voglia di combattere gli Ittiti. Non oserà più toccarti e non oserà toccare me: ha visto la mia divinità e per lui questo è fin troppo da sopportare, sai, se anche un giorno avesse il mio trono, non avrebbe mai il mio potere e lo sa perfettamente. Io, al contrario, penso di poter usare l’accaduto a mio vantaggio.” Concluse pensieroso.

Lo aiutai ad alzarsi e a tornare verso il letto: quel lungo discorso lo aveva sfinito, ma non aveva reso me meno preoccupata.
Lo coprii, gli feci bere un po’ d’acqua, e si riaddormentò quasi subito. “Non ci separeranno questa volta” sussurrò scivolando nel sonno.
Gli tenni la mano nelle mie, riflettendo sulle sue parole, mentre lo guardavo dormire.

Il popolo lo amava. Almeno i nove decimi della corte lo amavano. Quasi sicuramente nessun faraone nel corso dei millenni passati, né futuri, sarebbe mai stato amato come lo era lui, eppure non era sufficiente.
Ero certa che, perfino chi sinceramente lo venerava, sarebbe stato disposto a tradirlo per proteggere la linea di sangue pura e nobile o per far posto ad una persona forte, robusta e fertile.
La mancanza di eredi stava logorando la situazione, la gente era spaventata: un re senza eredi era un presagio di disgrazia, i molti aborti erano una sciagura di per sé, ma c’era qualcosa di molto più grave, attualmente: era crollata una colonna del tempio senza apparente motivo e, in quel preciso momento, nelle sue stanze, il Faraone era crollato privo di sensi per un male misterioso e senza causa. Quale più grande presagio di sventura di questo?
Quella bambina, questa volta, doveva nascere e doveva sopravvivere, a tutti i costi e io, quando fosse stato il momento, avrei dovuto dargli un figlio molto rapidamente, se non volevo che la situazione diventasse ingestibile.”  


Il temporale si stava allontanando, Grigno sospirò rumorosamente quando un tuono, relativamente basso, ci raggiunse dopo alcuni secondi dalla folgore e rotolò lontano.
L’acqua scrosciava ancora violenta, a tratti diminuendo di intensità e riprendendo forza, ma pareva che il peggio stesse passando.
“Ma cosa era successo esattamente? Davvero aveva perso le sue capacità?” chiesi preoccupata.
“Nessuno sa…beh, noi non sappiamo, come funzionino realmente determinate cose.
Sappiamo che ci sono maestri d’arti marziali in grado di espandere il loro Ki e compiere cose che ai nostri occhi sono prodigi e miracoli, sappiamo che ci sono grandi Maestri in grado di apparire a grande distanza e in due posti simultaneamente, sappiamo che ancora oggi esistono stregoni o sciamani capaci di volare tra i diciottomila mondi e attraversare oceani di stelle in sogno, ma…non sappiamo come tutto questo veramente funzioni.
È energia, saper sfruttare, gestire la non località della materia-energia, saperla usare, ma non sappiamo se sia tutto qui e non sappiamo come, né quanto. Al contrario, è evidente che quel diabolico ragazzino lo sapeva, o lo ricordava, per usare un termine a lui caro.
La visione di quella figura indistinta al centro del fascio luminoso, fu la visione di qualcosa di presente e non presente allo stesso tempo, come proveniente da una finestra che si fosse aperta e richiusa nel viale d’accesso. Non so, oggi diremmo un ologramma, una proiezione olografica di se stesso.
Sua Maestà era nelle sue stanze, ma, per un momento, fu là, fuori dal Tempio, proiettandosi attraverso una qualche forma di alterazione dello spazio tempo.
Credo anche che il crollo della colonna non sia stato che una conseguenza dell’intensa energia che dovette manifestarsi nel viale, aumentando la temperatura dell’aria e creando un’onda d’urto che spalancò le porte e, come effetto secondario, colpì il colonnato facendo crollare la colonna già indebolita.
Nonostante nella mia memoria il crollo sia stato la prima cosa, poi ci sia stata l’apertura della porta e la ventata, io penso che le cose siano andate diversamente e che lo schianto sia stato l’ultima cosa avvenuta, in ordine di tempo”
“In pratica, prima sarebbe apparsa la luce nel viale d’accesso, che voi non potevate vedere perché il portone era chiuso, questa avrebbe surriscaldato l’aria, provocato il vento caldo che avrebbe spalancato il portone e infine colpito la colonna…giusto?”
Annuì: “Più o meno” acconsentì.
“Però, scusa, resta il problema principale: come riuscì, quella fragile creatura, a manifestarsi in forma di luce creando tutti questi effetti collaterali?”
“È difficile da spiegare in parole povere. Noi siamo delle piccole centrali atomiche viventi, dei minuscoli soli. Siamo formati da energia pesante, materializzata, e da energia pura, prodotta dall’attività cellulare e metabolica, dagli atomi che ci compongono, in parte da energia allo stato puro che non è prodotta dal corpo materiale, ma, al contrario, ne è il motore, la base.
Quelle cose chiamate “Cakra” per esempio, sono motorini energetici che permettono l’esistenza della vita fisica: spegni il motorino e si spegne il sistema organico, tant’è vero che le malattie si manifestano prima sul piano energetico, con un malfunzionamento di uno o più elementi del sistema, poi sul piano fisico, giusto?
Ebbene, Lui riuscì a concentrare e controllare tutta l’Energia prodotta dalla sua minicentrale atomica e a produrre una reazione controllata.
Dovette volerci una enorme quantità di energia coerente, tale da manifestarsi sul piano visibile. Questo produsse l’ondata di calore e l’intensa luce in cui mi rifugiai scappando dal colonnato.
E, immediatamente dopo, l’onda d’urto che provocò il crollo della colonna. 
Naturalmente, questo bruciò i suoi…beh, chiamiamoli i suoi circuiti, dal momento che il sistema era molto debole e non funzionava a dovere. Ti sembra sensata come metafora?”

Tornava, si. Il mio primitivo cervellino scientifico riusciva ad immaginarlo molto bene e, cavolo, ne era assolutamente affascinato. Lo vedevo come una specie di Maestro di arti marziali, di quelli leggendari, in grado di concentrare il loro Ki fino a lanciare avversari grandi e grossi a tre metri di distanza, agitando delicatamente il ventaglio.
Solo che, nel caso del Faraone, il Ki risplendeva, o almeno lo aveva fatto per diversi secondi, quella notte. Era difficile non ritenerlo divino, a quel punto.

“Ha rischiato davvero di morire, quella volta?” accennò appena di si. “Lo sforzo dovette essere immenso. Lui era ormai prossimo ai vent’anni ed era debole, stanco e per di più preoccupato per la gravidanza della sorella.
Non credo che ai giorni nostri ci sia ancora qualcuno in grado di fare una cosa del genere, ma anche a quei tempi doveva essere pressoché eccezionale. Non saprei nemmeno dirti come o dove l’avesse imparato, penso che, semplicemente, lo sapesse fare.
Per fortuna si riprese sempre più in fretta e nessuno si accorse di grossi cambiamenti.
Il Generale non si fece vedere in giro per un pezzo, dopo aver sistemato le cose con gli Sherden partì per controllare confini e paesi vassalli, così le cose continuarono più o meno come al solito. Non lo incontrai più e dubito che si fosse incontrato con il Faraone, in quel periodo.
Aveva anche dei problemi con un generale anziano, già suo superiore ai tempi dell’eresia, e con almeno un altro alto ufficiale. Non so, penso fosse imparentato con il più anziano, ma non ne sono certa.
Erano passati quasi nove anni dall’ascesa al trono del Faraone, otto dall’inizio della sua reggenza, si può credere che fosse un periodo sereno, ma il paese aveva ancora molta strada da fare per ricostruirsi e gli impegni ufficiali erano sempre molti: ogni giorno c’era da ricevere dignitari da uno o l’altro Nome, dirimere questioni economiche o giudiziarie, decidere se tassare o meno qualcosa o qualcuno, rendere giustizia, restaurare, accontentare tutti e non scontentare nessuno. Praticamente, ogni giorno si scontrava con l’impossibile.
Era logorante.
Si, il popolo era felice e questo era fondamentale, ma lui sentiva le forze sfuggirgli tra le dita, sapeva di avere sempre meno tempo e il suo compito doveva essergli sempre più gravoso.”

Mentre il temporale si allontanava brontolando, mi accorsi che erano passate le sei. Tirai un respiro di sollievo quando la luce tornò: a quanto pareva la nostra seratina tra amici lontani non sarebbe stata ostacolata.
“Non capisco, però, era così importante per il Generale, andare a rompere gli zebedei ai poveri Ittiti? Perché non poteva semplicemente lasciarli in pace?”
Lei scrollò le spalle: “Troppo facile! A che serve un grande esercito e un potente capo dell’esercito se non ci sono guerre eroiche da portare a termine? Dubito che una persona ambiziosa come lui potesse minimamente pensare ad un ruolo di gestione delle conquiste e controllo dei confini e poi, come ti dicevo, nonostante sia passato alla storia come artefice di ogni cosa, non era, come è logico, l’unico generale degli eserciti d’Egitto e non andava proprio d’accordissimo con i suoi colleghi. C’era un enorme senso di rivalità e competizione, quantomeno da parte sua.
Oggi molti studiosi ritengono che lui fosse il generale in carica durante il periodo amarniano, Paatonenhab, mentre altri pensano si tratti di due persone diverse.
Per quanto mi riguarda, so che Paatonenhab era un uomo retto, che seguiva un suo codice d’onore molto preciso, più anziano del futuro Horemheb, e penso si tratti di una delle persone con cui, in quel periodo, il Generale aveva problemi. Penso che Paatonenhab fosse stato il suo maestro d’armi, il suo superiore, ad AkhetAton. Che fosse rimasto in ombra, dopo la restaurazione, perché doveva effettivamente credere all’eresia, ma allo stesso tempo abbia accettato il cambiamento, forse a malincuore, o forse rendendosi conto che si trattava della cosa migliore.
Oggi penso di aver capito cosa fosse successo, anche se ci sono molti punti oscuri…soprattutto sul rapporto tra Aye e il Generale, se ho ragione. Ma è bene arrivarci con ordine.

Tornata ad Al-Qāhira avrei scoperto qualcosa di così scandaloso da lasciare noi tutti in uno stato di frustrazione vera e propria e ci fece capire come la storia avrebbe potuto essere totalmente diversa da come invece si svolse, anche se Sua Maestà non avesse potuto completare la sua opera.
Quel giorno, intanto, la seduta venne interrotta sulle mie riflessioni al fianco del Faraone addormentato e le mie paure per un futuro che si prospettava tutt’altro che roseo.

Passammo il giorno seguente a fare i turisti e comprare stupidaggini, e il giorno dopo ancora ci recammo ad Abu Simbel, dove io quasi vomitai sulle scarpe delle guide che si vantavano di come il grande Tempio fosse stato abilmente spostato dal sito originario, pietra per pietra.
Mamma mi costrinse al silenzio, ma papà, sentendo come ogni elemento componente il complesso, fino al più piccolo sassolino, fosse stato numerato e ricomposto nel nuovo sito, chiese candidamente come fossero riusciti a numerare gli elementi esoterici e magici, se con un pennarello o inchiostro simpatico.
I turisti lo guardarono per lo più interdetti, alcuni ridacchiarono, i locali desiderarono ardentemente ridurlo in striscioline sottilissime, ma si limitarono a fulminarlo con occhiatacce.
Poi, dopo una doverosa visita a Philae, venne il turno del Tempio Meridionale.

Incontrai quelle famose statue della Coppia Reale, sgradevoli, tristi, sgretolate qua e là, che ancora mostravano sorrisi formali ed innaturali. Le osservai a lungo: erano davvero la cosa meno somigliante che avessi mai visto, quasi deformate nei lineamenti, sgradevoli, almeno ai miei occhi.
Poco dopo mi trovai davanti al Colonnato di Amenophis e al Corridoio di Opet: le grandi colonne, in parte erette dal nonno, in parte dal mio Faraone stesso, parvero abbracciarmi.
Sentivo la realtà ordinaria sovrapporsi ai miei passi leggeri di migliaia di anni prima, mentre percorrevo il lungo colonnato a naso in su, incantata dal procedere del volere del mio Faraone.
Eppure, un passo dopo l’altro, non potei fare a meno di provare un profondo sconforto: “Non c’è più niente, qui! Non può più succedere niente, guarda che disastro! È tutto rovinato!”
Lui c’era, però. Nonostante la distruzione, le parti mancanti, graffiate, erose, lui c’era.
Come nella Tomba, percepii una leggerezza, qualcosa di dolce, gentile, amorevole, quasi profumato, nell’odore della pietra.
Mi guardai attorno per assicurarmi che non ci fossero guardiani, mi avvicinai alle pareti più di quanto fosse permesso, le toccai.

“Luna Nascente! È finito, è grandioso!Devi vedere cosa ha combinato quel ragazzino!”
“Perché non cadiamo?”
“Non lo so, penso sia una specie di visione”
Non c’era nessuno, gli operai erano tornati nella cittadella per la notte. L’indomani avrebbero dovuto solo dare alcuni ritocchi, ripulire un po’ i pavimenti e le pareti, niente altro.
Il mondo riposava nell’immensità delle cittadelle esterne e solo noi, il Gran Sacerdote e io, eravamo all’interno dello spazio sacro.

Ma ora, quella meraviglia era sgretolata, il suo potere svanito tra le volute del tempo.
Sua Maestà, per le decorazioni, aveva usato diverse foglie d’oro e immagino che siano durate giusto il tempo della sua sepoltura, intatte. O forse Aye non le toccò, forse durarono per il breve tempo del suo regno e poi ci pensò il Generale, l’ormai faraone Horemheb a farle sparire, prima di apporre il proprio nome a tutto quel che gli capitava sotto tiro o epurare decenni di passato.
Ignorante. Diciotto dinastie e finire in malora sotto le zampe di un ignorante narcisista con manie di grandezza!

“Cos’hai sentito l’altra volta, mamma?” mi voltai verso mia madre che mi osservava pensierosa, in un angolo. “Credo…” esitò: “Credo la sua presenza. Malinconia. Rimpianto. Sono quasi sicura che qualcuno mi osservasse, ma non da un qualche punto preciso, da ovunque. Però, io non so, sai, non sono cose mie, quelle, io non me ne intendo.” Si scusò.
Malinconia. Rimpianto.
“Se non riuscirò a portare ogni cosa a compimento, verrà una notte di cui nemmeno io riesco a vedere l'alba”
Lui non aveva potuto portare a compimento la sua missione, ed era scesa una notte di cui ancora non era sorta l’alba.
Era notte. Era notte per noi, era notte per il mondo intero.

“Non accadde nulla di particolare, comunque, a parte quel sovrapporsi di realtà l’una sull’altra, mostrandomi strane aree vuote dove ciò che mi circondava era troppo recente o cambiato per la mia memoria.
Eccezionale, presumo, per qualcuno che si trovi a vivere dei flash back, quasi banale per la mia esperienza. Malinconia, senso di perdita, rimpianto, erano le emozioni che si dibattevano dentro di me. Lasciai quel luogo per non tornarci mai più: non c’era più niente, per me, là.

Girare per le strade della moderna Al Uqsur non serviva a granché, se non a rattristarmi.
Passammo i giorni seguenti a fare i turisti, visitammo diligentemente il Tempio di Hatshepsut, la Valle delle Regine, più o meno tutto quello che restava da vedere là intorno, ed infine i Colossi di Memnone che restai a guardare come un’ebete per un buon quarto d’ora.
“Perché Memnone?” chiesi ad una guida: “È il nome con cui i greci chiamarono queste statue, signorina” rispose quello con sussiego: “Lo so questo, ma è Sua Maestà Amenophis terzo, perché accidente lo chiamavano come un principe greco? Finito maluccio, per giunta?”
L’uomo mi guardò risentito: non sapeva che rispondere, lo avevo messo in difficoltà e la cosa non gli piaceva. Vidi nei suoi occhi una luce sgradevole, irritata, in cui lessi il fastidio di essere stato messo all’angolo da una donna.
Non erano così primitivi, gli Egizi. Mi sembrò di essere non solo in un’altra epoca, ma su un altro pianeta, selvaggio e regredito.
L’eresia di Ekhnaton, per quanto immediatamente ripudiata dal figlioletto, poi epurata dalla damnatio memoriae dei suoi successori, aveva vinto: il mondo è dominato da tre grandi religioni monoteiste, che predicano pace e amore, ma costruiscono violenza, costrizione, schiavitù e un immenso decadimento intellettuale e morale. Schiavi. Facili schiavi in mano ai potenti, travestiti da un unico dio con tre facce fameliche.

Sai, oggi quei due enormi cosi di pietra, sgretolati e corrosi, sono lì, in mezzo ad una piana brulla, qualche mucchio di pietre transennate qua e là ad indicare che qualcosa, un tempo, c’era, niente altro; scavi, scavi continui tra quei sassi, ma ai tempi di Iset non era così!
Il Tempio funerario di Amenophis era immenso, sfarzoso, carico di fregi, ornamenti, statue, bassorilievi, un grandioso monumento ad un faraone che…beh, da qualcuno Ekhnaton doveva aver preso, in effetti…sai, la leggenda vuole che Amenophis non fosse figlio di Thutmose quarto, ma di Amon. Egli sarebbe apparso a Mutemuia con le sembianze del faraone, in una nuvola di fumo d’incenso, e l’avrebbe sedotta, ingravidandola del futuro faraone.
Mutemuia non era una Sposa Reale e nemmeno una Seconda Sposa, ma una delle tante mogli secondarie dell’harem di Thutmose e non divenne Grande Sposa Reale fino all’ascesa al trono del figlio, di cui fu la reggente per circa un decennio, poiché che era un bimbetto di sei o sette anni.
La Vecchia Governante raccontava come tutti, ai tempi del Regno di Amenophis, fossero completamente convinti delle sue origini divine e di come lui fosse totalmente identificato in quell’idea, che, d’altra parte, non era molto diversa dal solito, visto che, al momento dell’ascesa al trono, l’erede diventava divino.
Lui, però, faceva di meglio: dio ci era per nascita e questo lo metteva in una posizione superiore a chiunque altro.
Il tempio funerario, quindi, in cui egli appariva affiancato dalla madre, divinizzata in quanto “sposa” del dio, doveva essere quanto di più grandioso si fosse mai visto.
Oggi il complesso templare di Karnak è considerato il più esteso ed imponente al mondo, ma, ai tempi di Amenophis,  era molto più piccolo di oggi e, soprattutto, molto più del Tempio dei Colossi.
Eppure non c’era più nulla. Due statue di quasi venti metri, quasi un mucchio di pietrame ammonticchiato e in perenne restauro. Terra brulla. Niente altro.
Pur non avendo alcun legame con quel faraone, se non in quanto nonno del mio Bambino, fui profondamente colpita e amareggiata da quel che mi trovai di fronte.
Era straordinario, quel tempio: splendente, pieno di colori, di meraviglie, di opere d’arte, di magia di cui potevi sentire l’odore attraversando il cortile davanti all’ingresso.
Ora, il nulla. Un nulla amaro e scarno, arido, spazzato dal vento del deserto, turisti a naso in su a chiedersi cosa fossero quei due giganti senza faccia, un tempo.
Il faraone figlio di Dio è privo di faccia come l’umanità è priva di memoria. Forse, chissà, non è per disgrazia che i Colossi sono ridotti così.”

Avevo spesso sentito parlare di Amenophis terzo, vuoi perché nonno del faraone più famoso del mondo, perfino più del grande e megalomane Ramsess, vuoi per la fama del suo regno, ma mai avevo sentito questa storia sulla sua nascita divina.
Mi ricordava, in modo inquietante un’altra storia, parecchio più recente.

“Lui era definito figlio di Amon…e il figlio tocco si definì figlio dell’Aton. Un vizietto di famiglia, a quanto pare. Ma se Amenophis era figlio di Amon, il figlio tocco ci credeva? Era invidioso? Decise di essere figlio dell’Aton per far dispetto a papino? Oppure voleva copiare?”
Marabel si sganasciò letteralmente dalle risate: “È interessante, vero? Un figlio venuto male, non destinato a diventare re, figlio di un re divino, che si crea una propria nascita divina e, come hai detto tu una volta, fa su il più gran casino della storia.
Si, viene da chiedersi se non fosse una specie di rivincita generazionale. Sicuramente gli odierni psicoanalisti avrebbero parecchio da ridire.
Noi sappiamo, se prendiamo per buone le parole della Governante e poi, molti anni dopo, le confidenze del Fanciullo, che Amenophis non aveva nessuna intenzione di sistemare sul trono il figlio omonimo, ma teneva in grandissimo conto il principe Thutmose, cui, tra l’altro, il trono avrebbe dovuto spettare di diritto. Alla morte dell’erede, forse non ebbe altra scelta che far ascendere il figlio tocco, o forse la gentil consorte non gliela diede.
Come che sia, Ekhnaton doveva avere parecchi sassolini nei sandali: nato e cresciuto in casa di dio, dovette davvero desiderare con tutto se stesso un qualche tipo di riscatto, e quale più adatto se non rifiutare l’ascendenza del padre per crearsene una propria, ovviamente divina, ma di una divinità diversa ed improvvisamente totalitaria?
Ma prendi in considerazione questo, Eva: Sua Maestà non si considerava figlio di Ekhnaton, ma si considerava nipote di Amenophis e figlio di Kiya. Definiva il primo suo nonno, la seconda sua madre, ma mai disse “mio padre”, parlando di Ekhnaton.
A quel tempo non diedi mai troppo peso a questo fatto: il Faraone, da piccino, mi aveva detto che Ekhnaton non era come lui, non aveva la sua stessa origine, e io presi semplicemente per buona quella risposta.
Oggi, a migliaia di anni di distanza, un paio di domande me le pongo…”

Me le ponevo anch’io, ma non avrei saputo da che parte andare. Sapendo che, biologicamente, quei tre erano nonno, figlio e nipote, come era possibile che quello di mezzo non fosse imparentato con gli altri due, ma gli altri due lo fossero tra loro?
Certo, prendendo per buoni gli esami del DNA di Kiya, che la darebbero come figlia dello stesso Amenophis, è chiaro che il piccolo Tutankhamon sarebbe stato comunque nipote di Amenophis, pur non essendo figlio del padre.
Però, dal momento che la sua salute era quella che era proprio a causa di suo padre, come poteva il ragazzetto non riconoscerlo come tale? Lui stesso aveva detto ad Iset “lui è soltanto il mezzo attraverso cui sono venuto al mondo”, ergo sapeva che il faraone eretico era effettivamente suo padre biologico, non aveva mai pensato ad un bel paio di corna da parte di Kiya.

Ma se sia il nonno che il figlio si ritenevano figli di divinità, ma non della stessa, in che modo lo erano? Ritengo improbabile che il dio Amon si fosse materializzato in camera di Mutemuia, per di più con le sembianze del legittimo faraone, saltandole addosso per farle procreare un marmocchio divino e ritengo ancor più improbabile che il Divino Disco Solare abbia fatto altrettanto con la regina Tiye, nel qual caso, per essere dio, ‘sto figlio gli sarebbe uscito davvero piuttosto difettoso.
Viste così, queste manie sembravano semplici eccentricità di gente abituata alla grandeur da troppi secoli e troppe generazioni, ma erano proprio le parole del Principino a far pensare: il piccolo sembrava l’unico dotato di buonsenso in quella gabbia di matti, eppure si esprimeva in modo così categorico nei confronti del padre.
Un rifiuto, un semplice e tenero tentativo di un bambino di fuggire da un genitore sgradito, non amato e causa di malattia? Immagino che qualsiasi psicologo direbbe così.
Peccato che il nonno si fosse fatto fare un supertempio in cui ogni pietra lo definiva dio e il padre si fosse addirittura fatto un’intera città che diceva la stessa cosa.

E poi c’erano le visioni di Marabel: un uomo piccolo, scuro, dai tratti brevilinei e piuttosto rozzi, che, curato da gente molto alta e raffinata, dall’aspetto totalmente diverso e una tecnologia per lui (e noi) impensabile, chiede: “Siete dèi?”
D’accordo, questa visione potrebbe non avere nulla di reale, ma il Faraone Fanciullo è passato alla storia per la sua fanciullezza, quando non fu né il primo, né l’ultimo a salire al trono in giovanissima età, ma, forse, dico forse…fu l’unico a governare in giovanissima età.

Mutemuia fu reggente per una decina di anni accanto al figlio, significa che, se le fonti sono attendibili, dai circa sei, sette anni, fino ai sedici, diciassette, ma la storia non definisce Amenophis terzo come “Faraone Bambino”, per quanto fosse ben più giovane del nipote all’ascesa al trono. Me lo ero chiesta molte volte, a scuola e in seguito, e mi ero semplicemente risposta che, essendo morto molti anni dopo, aveva perso il diritto a quell’appellativo, poiché era diventato adulto, padre e, per l’epoca, a circa quarantacinque anni, non proprio giovane.
Questo avrebbe senso, naturalmente, ma, se la mia fonte era attendibile, Aye fu reggente per meno di un anno a fianco del nostro Faraone, dai dieci e mezzo agli undici e mezzo circa, ed ecco che, vista così la faccenda, il nome di Faraone Fanciullo assume tutto un altro significato ed è un significato grandioso: quel bimbetto gracile, sofferente e malato, sarebbe stato veramente l’unico bambino nella storia a portare sulle proprie spalle un intero regno, per giunta un regno potente ridotto ad uno straccio dal proprio “padre”, riportandolo in pochissimo tempo ad un fasto e un benessere perfino superiori a prima.
Un Divino Fanciullo per davvero, altro che Mozart!
E qui, torniamo al punto: chi era divino? E come? C’era un nesso tra la leggenda su Amenophis, morto ben prima della nascita del nipotino, e la profezia che voleva il Fanciullo figlio di Ausar e sposo di Aset? Come poteva essere Divino? Era soltanto un bambino prodigio o era qualcos’altro? E perché aveva restaurato il culto di Amon, prendendo il suo nome, e non quello di Ausar? TutankhAusar non suonava bene? O era una ragione politica?
Amon, però, era qualcosa di speciale: increato, misterioso, inconoscibile, mentre le altre divinità erano nate da qualche parte e avevano un carattere decisamente più umano e capriccioso, nelle loro vicende personali. Facevano, effettivamente, pensare ad entità umanizzate, create dall’umanità a proprio vantaggio, mentre Am’n o Im’n (Marabel pronunciava Am’n con una a chiusa, molto breve e quasi gutturale) sembrava distaccarsi da tutto ciò, nel suo essere inconoscibile e nascosto, così come Am’net.
Era decisamente più affascinante.

“Io mi sto ponendo delle domande, non so se siano le stesse…”
Le esposi a casaccio le cose che mi erano venute in mente poco prima, forse ripetendomi e forse dimenticando dei pezzi.
Lei ascoltò attentamente: “Dunque, iniziamo dalla fine. C’era qualche profezia che parlasse della venuta di un piccolo Essere divino, già ai tempi del nonno?
Questa è una domanda molto più interessante di quanto sembri: indovini ed aruspici venivano interrogati spesso, quasi ogni volta che nasceva un bambino di sangue reale, però, solitamente, i magi si riferivano semplicemente alla vita e alle opere del neonato su cui vaticinavano, non sulla sua discendenza.
Mutemuia non era nessuno, a corte, potrebbe avere inventato la storia del dio Amon per ottenere attenzioni? Viene da pensare in modo molto malizioso: la giovane sposa secondaria si sente molto trascurata, il consorte manco si ricorda della sua esistenza e si intrattiene volentieri con altre mogli e con la Grande Sposa Reale.
Lei, ad un certo punto, ha una scappatella con qualcuno della corte, magari della famiglia, e ci scappa il marmocchio…l’idea di andare dal faraone e dirgli, tutta trepidante: “Maestà, il Dio Amon mi apparve con le tue sembianze, giacque con me e mi rese gravida di un figlio divino” sarebbe una genialata.
Le donne, nell’antico Egitto, erano molto libere, potevano sposarsi oppure no, avere o meno figli, divorziare, avevano rapporti prima del matrimonio, ma l’adulterio non era una cosetta da niente.
Gli egizi sopportavano qualsiasi cosa, tranne le corna. Metterle ad un normale popolano era un pessima idea, metterle al faraone, ecco…
Quindi, inventarsi una visita divina, riuscendo a far si che tutti ci cascassero, sarebbe stata una mossa vincente su tutti i fronti: salvi la pellaccia, tuo figlio diventa sicuramente faraone, e ti guadagni un sacco di punti sulle altre smorfiosissime mogli e concubine.
Ciò che è interessante è che Mutemuia non fu mai Sposa Reale sotto il regno del consorte, lo divenne soltanto all’ascesa al trono del figlio, come abbiamo già visto, quindi, forse, tutto sommato, Thutmose quarto non dovette cascarci così facilmente, sempre ammesso che la storia non sia successiva alla sua dipartita.
Oppure, stiamo sbagliando tutto e c’è un’altra spiegazione, forse più di una.”
Stavo praticamente sbavando alle sue parole: “Tipo?”
“Non so, mi pare tu non abbia simpatia per certe idee troppo ardite. Gli pterosauri non ti piacevano, mi pare” bofonchiò lisciandosi la gonna sulle ginocchia. “Lascia perdere le lucertole e spara!” intimai.

I gatti stavano uscendo guardinghi dall’armadio, Grigno li osservava un po’ vergognoso per non avere tanto ardimento, l’aria profumava di freddo e rigoglio del verde.
Sentii un rumore di acqua corrente provenire da una delle cassettine e un rumore di qualcosa di rosicchiato dall’altra, entrambi accompagnati da un certo disappunto.

“Beh, non è una certezza, bambina, ma quando gli uomini definiscono “dèi” altri esseri? Quando li vedono molto diversi da sé e molto progrediti come conoscenze e tecnologia. Io sognai più volte esseri del genere, i quali, a quando pare, avevano dimora in una terra fantastica nell’odierno Pacifico. Costruivano piramidi, molto grandi e diverse da quelle che poi vennero edificate in Egitto, ma molto simili a quelle edificate molti, molti secoli dopo, nel centro e sud America.
Quindi, avrebbe senso pensare che lo spirito che discese nella diciottesima dinastia ai tempi di Mutemuia, il futuro Amenophis terzo, fosse un’anima appartenente a quella razza.
Sia chiaro, non penso affatto che biologicamente Amenophis fosse figlio di costoro, anche se avrebbe potuto discenderne, ma io direi che la sua divinità dovesse essere animica e la storia raccontata nel bassorilievo di Mutemuia, nella Camera della Nascita di Amenophis, fosse una parabola, qualcosa di simbolico.
Gli egittologi danno ovviamente per scontato che si tratti di un’invenzione di Amenophis stesso, evidentemente per legittimare la sua ascesa al trono, ma questo non ha senso: Thutmose ebbe almeno altri due maschi, prima di Amenophis, è vero, ma non gli sopravvissero.

Egli stesso, tra l’altro, si diede natali non divini, ma prodigiosi, attribuendo alla volontà divina la propria ascesa al trono con un romantico sogno, inciso su una stele, oggi nota come Stele del Sogno.
Noi non attribuiamo importanza ai sogni, non siamo capaci di sognare, ma loro lo erano: sogni, visioni, premonizioni, vaticini, come abbiamo visto avevano un ruolo fondamentale nelle società antiche, Egitto compreso.
E qui casca l’asino! Thutmose non era né figlio unico, né primogenito.
Era figlio di un faraone crudele, maniaco della sua forza fisica, che creò un regime totalitario e sanguinario, maschilista, tanto da non registrare mai i nomi della Sposa Reale o di spose secondarie, così da togliere alle donne peso ed potere a proprio esclusivo vantaggio.
Forse il legittimo erede sarebbe stato della stessa pasta? E allora che accadde? Sacerdoti e veggenti decisero con quel ragazzo di costruire un mito per farlo legittimamente ascendere al trono e porre fine ad un periodo cruento che stava prendendo una piega preoccupante?
Oppure, qualcuno apparve veramente e guidò la scelta del nuovo faraone, spianando la strada, in questo modo, all’ascesa di una linea di successione che sarebbe culminata con il Fanciullo?

Supponiamo che esistesse una razza evoluta di cui il Piccino faceva parte,  una razza che potrebbe, dico potrebbe, non essere stata fisicamente sulla terra, ma che avrebbe potuto esserci stata molto tempo prima e poi…chissà, forse le condizioni climatiche o ambientali non erano più adatte alla loro esistenza, oppure accadde qualcosa che li fece sparire, magari qualcosa di drammatico.
Potremmo pensare che alcune anime di costoro potessero vegliare sull’umanità e guidarne alcune scelte da qualche luogo, da una sorta di Shamballa, o di Agarthi, per esempio e che, in alcuni casi, qualcuno di questi esseri progrediti, potesse nascere in forma umana.
Pensa a Krishna, a Gesù, a Shakyamuni…e chissà quanti altri che non conosciamo. Anime progredite che, agli occhi della gente comune, sembrano dèi, o tali diventano nel corso delle epoche, grazie a leggende, miti, scritti che li descrivono come prodigiosi o divini”

“Ma…se così è, allora non si trattava di una sola razza, ma di almeno due, decisamente opposte l’una all’altra e qui mi stai rispondendo alla domanda riguardo chi fossero i figli di Seth.
Non semplicemente degli avversari politici, nel senso comune, ma qualcosa di molto più importante. E pericoloso.” Obiettai.
“Ah! Vedi che quando ti applichi…”mi canzonò Marabel: “Si, per quanto possa essere difficile da digerire, se la mia teoria è corretta, è in atto, da migliaia di anni, una guerra tra forze opposte che adopera gli esseri umani come soldatini e pedine del risiko. I Figli di Ausar (o Amun) ed, evidentemente, i Figli di Seth. Se così fosse, i cospiratori avrebbero dovuto avere qualcuno a tirare le fila delle loro operazioni davvero molto, molto in alto, in Altissimo!
Qualcuno che o era legato a coloro che il Gran Sacerdote chiamò Anunnak, oppure…”
“…ne faceva parte!” terminai. “Per la miseriaccia, Marabel! Ma il Gran Sacerdote aveva definito Aye come Anunnak!”
“Beh, ecco, no, non lui, il vecchio eunuco lo definiva così, quando noi eravamo bambini. Certo, al Gran Sacerdote quell’epiteto doveva piacere un sacco…”
“E si presta pure un sacco, eh?” puntualizzai.
Marabel rifletteva giocherellando con un giocattolo per gatti: “Io continuo a chiedermi…” borbottò: “Insomma, Sua Maestà, Kiya ed Amenophis terzo facevano parte di quelle anime progredite, ma Ekhnaton no. Il Principe Thutmose si. Ma Thutmose era per intero fratello di Ekhnaton. Quindi, come mai erano così diversi? Non ne ho alcuna certezza, ma se Thutmose non fosse stato figlio di Tiye? Questo spiegherebbe un sacco di cose…compresa la sua leggerezza nell’eliminarlo.
C’era una sorta di ossessione nella famiglia di Aye, Tiye, Nefertiti per la loro linea di sangue, sul volerla sostituire alla linea originaria…è chiaro che la loro era la linea di Seth, mentre quella di Amenophis era chiaramente l’altra. Ed è pure piuttosto chiaro che la linea di Ekhnaton doveva essere quantomeno accettabile, per i figli di Seth, in quanto portante il sangue, o i geni, di Tiye, mentre quella di Kiya non doveva avere nulla a che fare con loro, quindi inaccettabile.
Potrebbe trattarsi di una trasmissione genetica, quindi? Eppure, il Faraone definiva Iset come appartenente a “quelli come lui”, ma Iset non era di sangue reale. Però la profezia le definiva figlia di Aset, sposa di Ausar, quindi confermava l’appartenenza alla stessa specie.
Forse non è un gene vero e proprio, ma una conformazione favorevole ad accogliere queste anime, che potrebbe non essere necessariamente legata ad un asse ereditario diretto? O c’è qualcos’altro?
Nota che il corpo del Principino, in teoria, non sarebbe stato adatto ad ospitare un’anima tanto grande e potente, lui stesso diceva che quel corpo era troppo fragile per contenerlo.
D’altra parte, lo disse anche riguardo a questa vita. Parole decisamente criptiche, ma che assumono un significato ben diverso, se prendiamo in considerazione questa eventualità fantascientifica.”

“’Somma, stiamo dicendo che, almeno fino alla fine della diciottesima dinastia, esisteva un qualche gene…divino? Non solo simbolicamente divino, ma per davvero? O perlomeno, di un’altra stirpe, forse superumana?”
Lei acchiappò il gatto e se lo mise in grembo, dove quello iniziò immediatamente a fuseggiare come un trattore: “Beh, qualcosa, a quanto pare, c’era, cosa, esattamente, è un altro paio di maniche.
Sappiamo che Sua Maestà doveva essere qualcosa di molto importante, sappiamo che aveva conoscenze che sembrerebbero innate, non acquisite, aveva doti che non appartenevano al resto della famiglia, doti che però, a causa delle sue malattie congenite, gli provocavano un…sovraccarico, o qualcosa del genere. Sosteneva che la sua gente non fosse nata sotto il suo stesso tetto e passò la vita a chiedermi di ricordare.”
“Beh, è evidente che ti riconosceva. Però, io vorrei sapere cosa sia successo, e quando, che ti fece perdere la memoria, qualcosa di cui LUI non conosceva la risposta! Chiedeva a te perché non ricordassi, quindi lui non lo sapeva!” esclamai.
Era un giallo. Un giallo storico con risvoltini fantascientifici. E comunque, non se ne veniva a capo: eravamo veramente nella marmellata!

Restammo in silenzio, lei a coccolare i gatti, tutti e due, e io a fissare il vuoto.
“Ha smesso di piovere, andrei a prendere le pizze” disse dopo un po’.
“Eh?!?” avevo in mano una matita, di quelle rubate all’IKEA, il notes su cui avevo tentato di tracciare un piccolo albero genealogico alternativo, con in cima il disegnino di uno pterosauro e la guardavo totalmente ebete.
“Sono le sette. Tu adesso accendi il pc, chiami Parigi, prepari la tavola e io vado a prendere le pizze. La solita diavola? Prendo anche un po’ di farinata?”
“…ssette…pizze…”
“No, non prendo sette pizze, Eva! Due, tre se proprio pensi di avere tanta fame, sette no!”
Finalmente uscii da quel sogno ad occhi sbarrati: “Aaahh, le piiizzee!! Si, si, io diavola, ma…”
“Perfetto, prendo la farinata. Porterei Grigno, ma mi sembra ancora un po’ scosso. E poi oggi ha corso più di Boldt!” afferrò la borsa e uscì prendendo l’ombrello, che non si sa mai.
Erano praticamente le sette, in effetti. Dove era finito il tempo?
Si, avevamo passeggiato, perso un paio di ore al parco a far correre il cane, c’era stato il nubifragio e tutto il resto, ma mi pareva che fosse arrivata un’ora prima. Oppure millenni prima. Anch’io vivevo uno sfasamento spazio temporale.
Fissavo il notes con il mio minuscolo pterosauro dal lungo becco in cima ad un pasticcio pieno di linee e punti interrogativi. La parola che ricorreva più spesso, effettivamente, era un ?.
È questo che conosciamo di noi, della nostra storia? Non molto più di un ?


Accesi il pc. Franco risultava collegato su skype e mi aveva già mandato un paio di messaggi piuttosto perentori: “Allora, dove sei finita?”
“Non avrete intenzione di darmi buca, vero?”
“Ehiiiiiiiiiii, ragazzeeeeeeee?!?!?!?”
Uff! L’appuntamento era per le sette e un quarto, che cavolo!
“Eccomi!”
Non avevo ancora finito di scrivere che squillò il telefono sul pc: “Finalmente!” esclamò spazientito il mio socio: “Dove eravate finite? Stavo cominciando ad essere in ansia!”
Sbuffai: “Frà, che rompiballe sei! Sono le sette e cinque! Dovevamo sentirci tra dieci minuti, ho acceso prima perché Marabel mi ha detto di farlo, mentre lei andava a prendere le pizze”
“Siiii, ma non vi siete fatte sentire per tutto il giorno! Nemmeno un messaggino!”
“Accidenti a te, ma hai cinque anni? E poi c’è stato un nubifragio ed è andata via la luce.”
“Col cellulare potevi!” mi rimbeccò petulante.
“Sai…hai presente quella faccenda che sei sfigato con i fidanzati? Beh, fattele due domande!”
Mi arrivò una pernacchia.
Non avevamo considerato che il pc non è come il telefono. Grigno, sentendo la voce del suo umano, iniziò a correre per casa cercandolo e scodinzolando con tutto il retrotreno, senza curarsi di quel che abbatteva.
“Champagne, tesoro, vieni a salutare papà!” esclamò Franco vedendolo scorrazzare e uggiolare per tutto il mio salone-cucina: “Frà, no, abbatterà qualsiasi cosa!” strillai.
Grigno era già con le zampe sul tavolo e stava leccando il MIO schermo.
Dopo qualche minuto di lotta libera, riuscii a tranquillizzare il quadrupede, meno il bipede collegato, che nel frattempo si era commosso peggio del cane e continuava a sbaciucchiare lo schermo (il suo), chiamando la creatura con tutti i nomignoli più scemi che si possano immaginare.
Nel frattempo era rientrata Marabel che osservava la scena da un angolino accanto alla porta: “Bene!” disse fregandosi le mani: “Considerato che siete parecchio più suonati di me, posso stare tranquilla!”
E, non appena il cane ebbe liberato la visuale di skype, e non appena io fui riuscita a rendere impeccabile il mio povero schermo, Franco e Marabel si incontrarono.
Fu una scena pietosa: Franco non finiva si sperticarsi in complimenti su come lei fosse assolutamente affascinante, tentò un baciamano da oltre settecento chilometri e cominciò a sbavare come un marpione professionista.
Ero basita. Anche Marabel. “Scusa” sussurrò: “Ma non era gay?”
“Mah, così pareva.” Riposi perplessa, mentre l’idiota dall’altra parte dello schermo declamava nientepopodimeno che poesie di Tagore e versi del Cantico dei Cantici.
“Frà?” chiamai dopo un po’: “Marabel è una donna…” lui si voltò verso di me, indispettito: “LO SO!” esclamò.
“E sono anche un po’ grandina per te…” azzardò lei, sempre più allibita.
“Oh, come puoi perderti in questi dettagli irrilevanti, cos’è mai qualche annetto di fronte all’eternità? E non sono forse la tua grazia e la tua beltade superiori all’eterno?” sprofondai la faccia tra le braccia conserte. Marabel lo guardava a bocca aperta con gli occhi di fuori. Doveva essere del tutto rimbecillito!
Finalmente riuscii a sistemare il portatile a capotavola, posizionandolo in modo che noi due potessimo vedere perfettamente Franco e che lui potesse vedere altrettanto bene entrambe, infilai la farinata nel forno caldo per dopo e abbordammo le pizze.
Poco dopo ci stavamo confrontando, discorrendo come persone incredibilmente normali, riguardo ad argomenti di quotidiana ordinarietà, come continenti perduti, teorie evoluzionistiche alternative, civiltà sotterranee, deja vu, fino a sfiorare teorie su civiltà aliene, dove io stoppai Franco senza troppi complimenti.
“Insomma, durante quella permanenza a Teb…ehm…a Luxor, non ci furono altri episodi succosi come quello del colonnato?”
Marabel scosse la testa: “No, è buffo, perché il colonnato odierno, come sappiamo, è totalmente ricostruito da Ramsess, ai tempi di Iset non c’era.
Cioè, si, c’era un colonnato, una sala ipostila con un corridoio che metteva in comunicazione due aree del complesso templare, ma totalmente diverse da quello che possiamo osservare oggi.
Tra l’altro, le colonne di Ramsess a me non piacciono: sono troppo massicce, troppo imponenti, troppo troppe. Evidentemente lui voleva schiacciare l’osservatore, farlo sentire minuscolo e totalmente soggiogato dall’imponenza del monumento, e ci riuscì benissimo. Solo che non mi pare una gran bella cosa, ecco.”
Franco ci pensò un po’: “Oh, io ci sono stato una volta, avevo, uhmm,  vediamo…diciannove anni. Era una gita organizzata, ma non potevo permettermi di meglio e mi era sembrata un’occasione più che ghiotta, così mi ero letteralmente precipitato. All’epoca non ne fui deluso, però avrei voluto maggior intimità con i siti che visitammo, invece c’era sempre qualche motivo di fretta. Probabilmente, era solo che la guida si annoiava e voleva finire prima possibile. Perlomeno, non vendevano pentole, non ce l’avrei fatta!
Comunque, cara, sono d’accordo con te, quel colonnato è opprimente e oggi è praticamente a cielo aperto, non oso pensare come dovesse essere con un tetto da sorreggere.”

“Il colonnato precedente era molto più slanciato e armonioso. Il mio Faraone voleva allungare il corridoio centrale con colonne simili, ma più innovative, rispetto a quelle di Hatshepsut, e la sua idea era di avvolgere a spirale ogni colonna nuova in foglia d’oro battuta e incisa.” Spiegò.
“Ma cosa voleva rappresentare?” domandò Franco con una cipollina di antipasto in punta di forchetta.
“Oh, beh…aveva dei disegni preparatori, li aveva schizzati lui personalmente. C’erano geroglifici molto antichi, risalenti a ben prima della diciottesima dinastia, che dovevano essere letti seguendo un andamento dal basso verso l’alto, a spirale attorno al fusto colonnare e con una precisa cadenza, cantilena. Cosa raccontassero, però, non mi è molto chiaro, ma aveva a che fare con l’origine della terra e con qualcosa di fortemente simbolico. Le parti in oro dovevano…spe…”
Chiuse gli occhi, cercando di concentrarsi e trovare le parole giuste: “Avrebbero dovuto avere una funzione di stimolazione dell’Occhio di Ra, cioè, della ghiandola pineale e mettere in moto dei processi che lui definiva strati ed intersezioni. Da quel che posso capire, questi processi mentali avrebbero dovuto creare delle visioni olografiche, stimolare la pineale fino a permettere di vedere qualcosa in ogni colonna e tra tutte le colonne.
Lui diceva che si sarebbe trattato di un processo di visione, di apprendimento iniziatico rivoluzionario, ma la corte nicchiava, soprattutto i sacerdoti: non capivano un accidente di quel che dicesse, ma la parola rivoluzionario, era loro veramente indigesta.
Un giorno lo trovai a litigare con Aye e Maya: il costo del colonnato non sarebbe stato molto elevato, si trattava di una decina di colonne in tutto e del restauro, doveroso, del colonnato esistente, ma loro si opponevano dicendo che non potevano permettersi un’opera del genere, o meglio, che sarebbe stato uno spreco poiché, così come la voleva, era un’opera inutile.
Secondo il Gran Visir sarebbe stato molto meglio abbattere il colonnato preesistente (come fece in seguito Ramsess) e costruire di sana pianta un grande colonnato che illustrasse come il giovane Faraone avesse preso un regno in rovina e lo avesse reso il più splendente mai visto, con tanto di scene di vittoria nelle battaglie, cortei trionfali, schiavi prostrati ai suoi piedi. Ovviamente, tutta roba inventata di sana pianta, come noi sappiamo. Secondo lui, però, sarebbe stato molto più costoso, ma utile, avrebbe mostrato al mondo la nuova potenza dell’Egitto, non uno spreco.
Inoltre era contrario all’uso della foglia d’oro sui bassorilievi, ma di oro, soprattutto con gli invii di Huya, ce n’era una quantità incredibile nei forzieri di Waset e la foglia che Sua Maestà voleva applicare alle colonne avrebbe dovuto essere una lamina sottile mezzo millimetro, che avrebbe dovuto aderire perfettamente allo strato di pietra sottostante, tale da evidenziare e rendere tridimensionali le incisioni. Doveva salire a spirale, creando uno strato dorato e uno a pietra viva, così da dare un effetto grafico, una variazione cromatica e lineare che non si era mai vista in precedenza, del tutto innovativa. Ma la serpe era contraria.”

Franco roteò la forchetta: “Mi sembra fantascientifico, ma molto sensato. L’uso di immagini e parole cantate ritualmente, assieme al richiamo all’attenzione dei punti luce, dati dal metallo sui rilievi e al movimento apparente dei medesimi da diversi punti di vista sull’insieme delle colonne, nonché tra l’una e l’altra, diciamo…beh, è fantastico. Geniale. Un uso perfetto e sinergico di diversi stimoli mentali, che vanno ad agire sull’attenzione cosciente, verbale, visiva, cinestesica e sull’inconscio. Si, evoluto. Terrificantemente evoluto. Mi fa pensare ai moderni stereogrammi, solo molto più affascinante”

Marabel emise un sospiro di sollievo nel vedere che era riuscita a farsi capire perfettamente: “Purtroppo questo colonnato, come dicevamo, non venne mai edificato. La sua idea non piaceva, coloro che erano contrari, a corte, sostenevano fosse troppo bizzarra e lontana dai canoni classici e che Sua Maestà doveva attenersi di più alla tradizione, se non voleva creare nervosismo.
Secondo loro ne aveva già combinate troppe, a partire dall’imbalsamazione della bambina” sospirò.
“Giusto!” esclamò Franco: “La bambina! Non gliel’avevano perdonata, eh? Però le mummie dei due feti furono tumulate con lui, in ogni caso…da come ne parli, non avrebbero dovuto farle sparire, secondo le loro logiche?”
Marabel fece le spallucce: “Dimentichi che Ankhesenamon era viva e vegeta, a quel tempo e, come ho detto più volte, soltanto alcuni, una minoranza purtroppo molto potente, era contro di lui. Altri, pur non condividendo o non capendo le sue azioni, rispettavano sinceramente la sua volontà e le sue scelte.
Durante le udienze, in cui si discusse di quel colonnato, che, a parer mio, sarebbe stato un’opera di una finezza e meraviglia uniche, sentii più volte dignitari e funzionari discutere tra di loro di come le idee del giovane sovrano fossero affascinanti, curiose, ma mirabili e lo dicevano con profonda ammirazione, solo che…temevano fossero troppo rivoluzionarie, come dicevamo. E lui era figlio di sappiamo chi, questo era il problema!
Maya, Aye, la nobile Tey, pochi altri che, nella mia memoria, non sono che ombre grigiastre di volti avidi, erano contrari. Immagino che, se le cose fossero andate diversamente, alla fine l’avrebbe avuta vinta lui, ma così non fu. Un mese dopo il crollo la Sposa Reale perse la seconda bambina. E fu l’inizio della fine.”

Eravamo curiosi, eppure, sapendo verso dove stavamo andando, non avevamo nessuna voglia di sbrigarci. In particolare, Franco sembrava voler a tutti i costi approfondire degli argomenti precisi, e non riguardavano la fine della storia, anzi! Forse, discutere e approfondire altre cose, era un modo per tenerlo in vita il più possibile.
Discussero ancora un po’ degli effetti dei bassorilievi, delle sfingi del Viale al Tempio Settentrionale, delle sue esperienze…io li ascoltavo finendo la mia pizza in santa pace, calda, una volta tanto, e spiluccando un po’ alla volta le fettine di salamino piccante lasciate a bordo piatto.
C’è una soddisfazione impareggiabile nello sbocconcellare le fettine di salamino piccante una volta finita la pizza, una soddisfazione che, quella volta, non volevo perdermi lasciandole raffreddare.
Lasciarli discutere, mentre le loro pizze si freddavano, aveva qualcosa di profondamente appagante.
“Io, però, voglio sapere che cos’era quella cosa rivoluzionaria che hai scoperto tornata al Cairo” intervenni alla fine, leccandomi le dita.
“Ehi, io voglio parlare degli pterosauri!” protestò Franco, impuntandosi come i bambini.
Marabel approfittò della nostra scaramuccia per ingollare una bella fetta ancora tiepida: “Su, non fate così, sono solo le otto! Abbiamo tutto il tempo del mondo, per questo!”
Rifletté un po’, pensando se avesse dimenticato qualcosa di importante, poi riprese: “Tornammo con un’altra nave, e passammo il tempo, al ritorno, a fare calcoli, studiare fotografie e cercare sui libri in nostro possesso e a fare i turisti in vacanza. Io avrei voluto, tornata al Nord, fare una capatina nel Deserto Bianco, anche se eravamo piuttosto convinti che avremmo potuto trovare cose affascinanti oltremisura, ma non inerenti a quel periodo e, forse, in quel momento non era il caso di confondermi ulteriormente. Non potei trattenermi dal pensare che, se ci fosse stato Floyd, mi avrebbe appoggiata, fregandosene altamente di un’eventuale confusione. Ma non c’era. Non ci sarebbe stato mai più e dovevo accettarlo.
Per tutta la navigazione, comunque, vissi con un senso di pena, di privazione, che mi assaliva all’improvviso e questo quando mi sovveniva la visita alla tomba.
Continuavo a chiedere dove fosse Ist e questo meravigliava tutti, perché lei non avrebbe proprio dovuto trovarsi con là dentro, anche se fosse stata la Seconda Sposa. Razionalmente, tutto ciò aveva senso, lo sapevo, ma io, in cuor mio, sapevo che Is doveva essere là. Assolutamente.

Tornati ad Al-Qāhira ci prendemmo un paio di giorni di riposo da quella vacanza e l’ipnotista decise di fare una regressione. Era passato parecchio, ormai, dalle ultime e lui, presto, avrebbe dovuto tornare a Londra.
Quello che vissi fu dolce e terribile, ci lasciò tutti con un senso di totale sconforto e delusione verso l’umanità.”
“RACCONTA!!” esclamammo in coro.
“Beh, era sera, una sera limpida e stellata appena prima della Luna piena. Una bimbetta di forse dieci anni stava lustrando vigorosamente la statua di diorite di Aset, nel Tempio, e le sacerdotesse giocavano ad una specie di antico telefono senza fili, sedute a terra in cerchio.
Erano parecchie, ormai. La mia novizia era diventata sacerdotessa a tutti gli effetti, era una giovane donna saggia e intelligente, molto devota alla Dea e molto legata a me. Mi piaceva avere una sorella, mi dava un senso di famiglia, di appartenenza, che mi era nuovo.
Qualcuno arrivò dicendo che dovevo andare al palazzo reale, passando dal vicolo.
Era quello un termine per indicare il famoso passaggio pressoché segreto che usavamo per gli incontri informali, quindi significava che il Faraone voleva parlarmi in privato, ma chiaramente non dovevano esserci problemi di salute.
Sgattaiolai via e mi avviai verso il corridoio di servitù.
Dovevo passare, ad un certo punto, non lontano dal casotto delle guardie e, non vista, sentii un ufficiale discutere con un suo sottoposto: ridevano, piuttosto sguaiatamente, e sentii nominare il Generale e la parola “Hatti”, così mi arrestai e restai in ascolto.
A quanto pareva gli Ittiti erano in una situazione drammatica a causa della pestilenza che non accennava a terminare, dopo almeno due anni: una situazione anomala, che continuava a mietere vittime e logorare la popolazione, impoverendo sempre di più quel grande regno delle sue risorse, poiché le provviste arrivavano con difficoltà, quando spesso le derrate erano ormai andate a male.
Le guerre di espansione di quella gente non erano mai cessate, nemmeno all’inizio della pestilenza, e l’impero aveva raggiunto la sua massima espansione e ricchezza, ma ora le scaramucce con i Kaška erano troppo gravose per un regno schiacciato dalla malattia, che doveva comunque continuare a guardarsi dai paesi sottomessi.
I due ufficiali, con un encomiabile senso di pietà, stavano ridendo di quella situazione: “Se continua così” diceva uno: “Non dovremo nemmeno preoccuparci della guerra! Non ci resterà che aspettare e poi andare a raccogliere quel che resta di quei maiali e prenderci le loro terre, il loro oro e le loro città!”
Sgusciai via, mi infilai nel passaggio e, un attimo dopo, ero nei corridoi che portavano agli alloggi di Sua Maestà, così amareggiata che mi fermai in un angolo ad inghiottire la rabbia.
Erano nemici. Erano un grande regno, così come lo eravamo noi, molto più di noi. Erano valorosi, erano bellicosi conquistatori che non conoscevano rivali, e ora stavano soffrendo per una guerra che non sapevano affrontare. Avrebbe potuto capitare a noi, un giorno o l’altro.
Immaginai la paura che dovevano avere, l’angoscia del male che li decimava, impotenti, il terrore che a quel male oscuro si sommassero orde di eserciti che sarebbero arrivati a terminare il lavoro iniziato dalla malattia.
Ritenevo che l’onore pretendesse il rispetto per i nemici, e non la derisione. Quale valoroso deride il suo nemico mentre cade eroicamente, in una battaglia impari?
Con questo spirito entrai negli alloggi del Faraone. Era seduto presso la finestra, la gamba distesa su uno sgabello, lo sguardo perso verso la Luna.
“Cosa ti turba?” domandammo insieme, l’una all’altro, ci fermammo e scoppiammo a ridere.
“Ho sentito dei soldati deridere gli Ittiti, HeruRa, appena ora, passando accanto alla casa di guardia. Penso non vi sia onore a deridere un nemico sofferente per un male terribile, è come attirare su di sé la stessa disgrazia”
Lui annuì: “Di questo ti volevo parlare. Ho riflettuto molto, da quando proibii al Generale di condurre la campagna contro Hatti. Ormai sono due anni che vengono flagellati dal male ed è vero, sono deboli, ma lo rimarranno per poco. Conosco quella gente: non gli ci vorrà molto a riprendersi, rimettersi in forze e tornare ad espandere il loro dominio come non hanno mai cessato di fare e loro sono forti, Is. Valorosi, bellicosi, potenti, hanno un impero vasto e ricco di popoli indomabili.” Sospirò: “I miei ufficiali non vorrebbero mai sentirlo, ma io ti dico che non avremmo speranze, su di loro, in tempi prosperi: sono più forti di noi.
Non importa l’abilità dei nostri arcieri e la rapidità delle nostre bighe, potrebbero perdere qualche scaramuccia, ma, credimi, in una guerra vera e propria, finiremmo probabilmente per avere la peggio.
Finora abbiamo avuto una buona protezione creandoci una cinta di regni vassalli, ma io non credo che quei popoli ci saranno fedeli a lungo: temo, in pochi anni, un voltafaccia e un’alleanza con gli Ittiti, che per noi sarebbe la disfatta e non vedo molte vie di scampo”

Ero sorpresa dalle sue parole: stava dando ragione al Generale, improvvisamente? Possibile che fosse tornato tanto sulla sua determinata decisione di non “infastidirli” come usava dire?
“Vuoi approfittare della peste ed attaccarli ora, HeruRa?” domandai incredula.
Lui scosse la testa: “No, ho un’altra idea, ma se va male, questa volta mi fanno la festa!” esclamò imbronciato come da bambino.
Sedetti accanto a lui, in attesa: “Ho chiamato un paio di capitani Keftiu, in segreto. Arriveranno in questi giorni, travestiti da comuni mercanti, così da mettere a punto la mia idea nei dettagli.
Domani convocherò un’udienza, apparentemente per le solite faccende di reggenza. Mia sorella non ci sarà, non voglio affaticarla, ormai è nel quinto mese…e sono sempre più nervoso e preoccupato. Stanno accadendo cose strane, sgradevoli, che molti interpretano come segni di sventura, non ultimo il crollo della colonna, in contemporanea con il mio malore. Molti lo hanno visto come un avvertimento che il Faraone sta per crollare, altri dicono che ho sconfitto la morte, ma non è una bella situazione, ad ogni modo.”
Prese un respiro profondo, si mordicchiò il labbro cercando le parole: “Io ho in animo una cosa che sarà molto, molto sgradita alla corte. Scandalosa, direi.”
“Allora non farla!” esclamai. Un sorriso gli si allargò sul viso: “Quando, dimmi, ho evitato una cosa perché scomoda o sgradita alla corte, Is?” ecco, era una buona domanda, quella.
Il sorriso si fece ancora più ampio, ma non raggiunse i suoi occhi preoccupati. “Voglio inviare un convoglio all’impero Ittita con grano, orzo, erbe medicinali e vino d’uva, derrate non facilmente deperibili durante il tragitto, ma soprattutto voglio inviare ogni genere di sostanza medicinale, adatta alla cura dell’epidemia. Due navi da carico viaggeranno sottocosta fino a Tarsa, dove verranno affidate alle genti locali che se ne occuperanno, distribuendo gli aiuti lungo la strada fino ad Hattusa. Per rendere sicuro il tragitto, evitando attacchi degli Sherden, farò scortare le navi da carico da leggere imbarcazioni militari, chiedendo aiuto ai Keftiu che navigano abitualmente in quelle acque. Per questo, come ti ho detto, ho chiamato un paio dei loro capitani, mi fido totalmente di queste persone” Disse.
“Pensi che questo li renderà tuoi servi, per gratitudine, HeruRa?” c’era un tono dubbioso nella mia voce.
Non rispose, restò a riflettere per un po’, con le mani giunte tra le ginocchia. Mi sembrava così indifeso, eppure così forte, nella sua fragilità.
“Ascolta, nonostante la pestilenza, questa gente non si è piegata: hanno sconfitto tutti  i nemici che si sono opposti o hanno tentato di ribellarsi al loro potere e tenuto a bada i Kaška, ma ora Mursilis è convinto che la pestilenza sia causata dai peccati del padre…che buffa idea, mi chiedo quale piaga avrebbe dovuto colpire l’Egitto, se così fosse…” si interruppe un attimo, conscio di essere egli stesso, con la sorella, a scontare i peccati delle generazioni passate, non con la pestilenza, ma con ben altre piaghe.
“Io sono certo che una guerra ora, pur piegandoli, ce li renderebbe ben più nemici di ora e, un domani fin troppo prossimo, la loro ira li condurrebbe a voler conquistare l’Egitto con una caparbietà che, forse, non avrebbero in altro caso, ma credimi, non esiste un modo migliore di arrestare la loro sete di conquista, di un grande debito di gratitudine. Solo, io temo che la corte sarà contro di me.”
“Ma io non ho voto, nelle udienze. Come posso aiutarti?”
Lui mi tenne strette le mani nelle sue: “Non sono più in grado di impormi sulle loro menti. Dovrò imporre la mia volontà come hanno sempre fatto i miei predecessori, dicendo “Io sono il faraone e si fa come dico io!” ma non so quanto servirà: percepiscono la mia debolezza.
Se mi ascolteranno, questo creerà un precedente, una rivoluzione nella storia, sai, non si è mai visto che un regno soccorra il suo nemico senza chiedere nulla in cambio.
Cambierà il modo di vedere, la logica di regni ed imperi, creerà una nuova strada, una possibilità che prima non esisteva. Forse si imparerà a discutere, prima di colpire. Sarebbe una prospettiva interessante, non trovi? Le guerre non dovrebbero essere l’ultima risorsa, invece che la prima?”
Era tutto bellissimo, ma ancora non capivo come avrei potuto aiutarlo, se non essendo al suo fianco. “Se le cose non dovessero andare secondo i miei piani, dovrai occupartene tu, dovrai mettere i Keftiu al corrente della mia volontà nei dettagli e discuterne con loro. In segreto, naturalmente.”
Finalmente era chiaro: “Vuoi perseguire la tua idea, contro la volontà della corte?”
Annuì. “Domani vediamo come va, non parlare, ascolta ed osserva, ma tieniti in disparte. Mostrati stupita della mia idea, come lo saranno gli altri. Il giorno dopo ci troveremo, anzi, la notte di dopodomani, e discuteremo i dettagli, poi incontrerai i Keftiu e li metterai al corrente. Vorrei ci fosse tuo marito, sa come comportarsi, è un buon negoziatore e, beh, lo sai, mi fido ciecamente.”
Sapevo che non era soltanto questo: era vero, mio marito era un buon negoziatore, aveva avuto spesso a che fare con genti straniere, negli anni, e conosceva abbastanza la lingua micenea, ma non era la ragione per cui lo voleva al mio fianco, per cui lo aveva sempre voluto al mio fianco. Sapeva che avremmo potuto trovarci in pericolo, e non voleva che io fossi sola.
Mi tornarono in mente le parole del Generale: “Se io ti uccidessi…lui ne morirebbe” e quell’uomo sapeva bene quel che diceva, da abile stratega qual era.
Io ero la forza del Faraone, ma ero anche il suo punto debole.
Lo abbracciai, restai a lungo abbracciata a lui, poi sgattaiolai nella notte per correre a mettere al corrente il mio sposo.”

Meno male che avevo finito la pizza. Franco, invece, aveva l’ultima fetta in mano, che ciondolava sulla tastiera, là dalla sua parte, lasciando cadere un filo di mozzarella e pomodoro sui tasti, gli occhi sgranati, la lingua letteralmente di fuori: “OHMMIODDIO!!!!!!!!” esclamò quando riuscì a riprendere a respirare.
Non era chiaro se l’esclamazione fosse per il pomodoro sulla tastiera, o per il racconto di Marabel, ma ci stava a fagiolo.

“Ma…no, ma…no, ma…” non facevo che ripetere, come un disco rotto.
“Si?” fece la nostra ospite, spalancando gli occhioni innocenti. Avevo una badilata di pensieri che mi si affollavano in mente, tutti insieme. “Dunque. Numero uno. Lo fece?”
“No” rispose quieta Marabel.
“Ecco. Cosa non funzionò?”
Lei prese fiato: “Parecchie cose, ma vorrei vederle una per una. Punto due?”
“SE lo avesse fatto…cosa sarebbe successo in seguito, nella storia? Ci sarebbero in ogni caso state guerre continue tra Egitto e Hatti o sarebbero diventati amici, quantomeno si sarebbero rispettati? O sarebbe andata ancora peggio? Mi spiego: sarebbe stato possibile che i paesi del bacino Mediterraneo pensassero di aver a che fare con gente mollacciona, o stupida, per aiutare un paese nemico? Sarebbe stato possibile che i paesi vassalli tentassero ribellioni?”
Marabel mi guardò in tralice: “Interessante…la tua stima per la specie umana è davvero al di sotto dei minimi storici, eh?” mi sentii in imbarazzo: “Ecco, beh…” lei ridacchiò. “Non c’è problema, posso capire” mi rassicurò.
“Beh, io dubito che le società dell’epoca avrebbero confuso un gesto di profonda pietà come una debolezza, soprattutto venendo da un paese che aveva precedentemente steso tutti i possibili nemici ed antagonisti sulle terre limitrofe, un paese ricchissimo che non si faceva problemi ad imporre tributi in preziosi, merci e uomini ai paesi conquistati. L’Egitto non aveva mai mostrato debolezza, se non negli anni bui dell’eresia, e non aveva mai mostrato soggezione o paura nei confronti degli Ittiti. Aveva agito, fino a quel momento, con una certa prudenza, limitandosi a difendere i confini, non attaccando direttamente il vicino impero, ma niente di più.
Penso che Mursilis abbia avuto paura, vuoi dell’Egitto, vuoi dei paesi confinanti già conquistati o meno, solo in quel periodo di pestilenza, in tutta la sua vita: sapeva che l’espansione di Hatti era stata rapida ed immensa, sapeva di avere raggiunto un potere senza precedenti, ma sapeva anche di essere improvvisamente fragile.
Doveva sentirsi addosso il fiato di tutti i popoli dell’antico Medio Oriente, Oriente e Occidente, Sud e Nord. E certamente le idee che frullavano da tempo nella testa del Generale, erano sorte pure nella sua, probabilmente in forma di incubo.
Un gesto di solidarietà, di comprensione, era fuori dalle logiche di chiunque, era destabilizzante ed incomprensibile. Sinceramente, io credo che avrebbe lasciato sbigottito l’intero mondo conosciuto per parecchio. Immagino sovrani prostrarsi con timore e confusione davanti ad un giovane e misterioso Re Divino, incapaci di raccapezzarsi, ma certamente con il massimo del rispetto.
Gli Ittiti avrebbero avuto un debito d’onore che non avrebbero potuto dimenticare per molte generazioni e non sappiamo a cosa avrebbe condotto, ma, vista la situazione, direi che tutto avrebbe potuto essere, tranne un atto di debolezza, anzi, al contrario…un atto di clemenza molto pesante, più di una sconfitta, direi.”

Franco, intanto, era riuscito evidentemente a ripulire la tastiera: “Umiliante?” intervenne, continuando a lustrare i tasti uno per uno.
Marabel strinse le labbra per un po’, poi scosse la testa: “No. Non credo. Per questo era tanto rivoluzionario. Un grosso problema, per il figlio di un eretico pazzo da legare, ma un atto di immenso coraggio, se si considera la grande restaurazione che stava avvenendo in quegli anni, dalla sua ascesa al trono. Pesante, che avrebbe imposto il tributo del rispetto, come dire: “Siamo talmente potenti, che possiamo farvi vivere o morire” in un certo senso. Non so, un po’ come sbandierare la propria divinità. Umiliante direi di no, ma certamente molto pesante.”

“Insomma” ragionai: “Un po’ come quando ti ha detto di aver imprigionato il Generale nella sua stessa paura…che mi fa pensare parecchio. L’odio del Generale verso tutto ciò che riguardava non solo l’eresia, ma tutto ciò che c’era stato dopo, sembra eccessivo, almeno ai nostri occhi.
Se veramente il Faraone era diventato per lui qualcosa di spaventoso, l’ossessione nel volerne cancellare ogni traccia diventa piuttosto logica.
Ma tu mi stai dicendo che non fu per bontà d’animo, ma per un preciso calcolo, per una tattica, che aveva ideato questa operazione di soccorso?”
Si, d’accordo, lo stavo trasformando da dolce ed amorevole anima cristica in un abile calcolatore, ma mi pareva più sensato, tutto sommato.
“Sicuramente era molto abile a calcolare e valutare, o non avrebbe avuto la capacità di restare tanto a lungo sul trono, né tantomeno di sottrarre potere al Gran Visir e al Consiglio di Reggenza, come invece aveva iniziato a fare molto presto.
Lasciava ad ognuno un potere, senza esagerare, ma soprattutto aveva l’abilità di far credere a chi gli era intorno di aver preso una decisione diversa da quella che aveva in mente, ma di averlo fatto di propria volontà. Quando ci si rendeva conto di essere stati, ehmm, turlupinati, era troppo tardi.
Io, però, penso ci fosse anche una forte componente di compassione. Non lo dico per affetto, ma ricordatevi che era una persona che conosceva fin troppo a fondo la sofferenza, la solitudine, la paura, il dolore del lutto. Lo conosceva fin da quando aveva aperto gli occhi. Quando è così, non hai che due possibilità, o befanizzarti completamente, o sviluppare una sensibilità molto più profonda del normale.”
Restammo zitti per un po’.
“Quindi? Che accadde a quell’udienza?”
“Eh, che accadde…c’erano i soliti, ma non il Generale. Come vi ho detto, era sparito un paio di giorni dopo quella notte e restò lontano un pezzo. Il Faraone evitava di nominarlo e, se proprio doveva, si innervosiva visibilmente. Penso che Aye avesse subodorato qualcosa, a quel punto.
Quando Sua Maestà espresse il suo progetto, nella sala cadde un silenzio che non penso sia possibile sentire nemmeno nel deserto più remoto in un giorno senza vento.
Tutti lo fissavano, totalmente sgomenti. Io, nel mio angolino accanto ad un paio di donne, osservavo, simulando lo stesso sbigottito stupore.
Ci volle un po’ perché Aye si schiarisse la voce e tentasse di mantenere un tono calmo.
Non riuscii a ricostruire cosa esattamente avesse detto: ne potevo vedere l’espressione, sentivo l’intonazione della sua voce, ma non riuscivo a percepire esattamente il discorso. Lo stesso vale per Maya e per quei pochi altri presenti, tra cui un paio di ufficiali e la guardia alla sua destra, l’onnipresente che da anni lo sorreggeva e spesso lo portava in braccio nelle sue stanze, lo soccorreva e proteggeva. 
Negli anni precedenti, in nessuna seduta avevo avuto la sensazione che egli prendesse attivamente parte alle conversazioni, sembrava semplicemente essere lì, accanto al suo Re, pronto a proteggerlo a qualsiasi costo, ma, quella volta, mi resi conto che doveva avere un ruolo diverso da quello di semplice guardia, perché prese la parola e fu l’unico a schierarsi dalla sua parte.
Disse con veemenza che l’idea del Faraone, per quanto rivoluzionaria, era assolutamente vincente e spiegò, o tentò di spiegare, le conseguenze pratiche che avrebbe potuto avere.
Osservavo talmente attonita che una parte della mia mente si bloccò e l’ipnotista dovette portarmi fuori dalla regressione in tutta fretta.
L’altra parte, però, era piena di gratitudine, ebbi una specie di attacco di euforia affettuosa verso quell’uomo.
Una volta tornata alla realtà ordinaria, ne discussi con i miei compagni: all’improvviso mi tornarono in mente le mille volte in cui avevo visto una guardia al suo fianco, o di come una guardia fosse venuta a prendermi per portarmi da lui segretamente, o di quella volta in cui la nobile Tey aveva cercato di sbarrarmi la strada e il soldato che mi aveva portata alla reggia mi avesse gentilmente presa per la vita, facendomi girare attorno alla biga e allontanandomi da lei.
Era sempre lo stesso uomo. Un uomo alto, prestante, molto forte. Silenzioso, ma onnipresente.
E mi tornò in mente un particolare cui non avevamo fatto caso: Tey era una personalità importantissima, ma quel soldato non l’aveva degnata di uno sguardo. Mi aveva presa e portata via facendomi girare attorno alla biga, senza nemmeno alzare su di lei lo sguardo, come non esistesse. Nessun soldato avrebbe mai osato tenere un comportamento simile, per quanto potesse odiarla! E mi venne in mente che, si, c’era il giorno famoso del ceffone e si era messo tra me e lei, impedendo ai soldati di catturarmi.
Non era un soldato qualsiasi…chi era? Mentre discutevamo sentii che era importante, più importante del Generale! Ma chi? Qual era il suo ruolo? Era un parente?
“Marabel, Ankhesenamon non ti aveva detto di un’abile mossa nella quale il fratello aveva fatto sposare la zia con il più fedele dei suoi uomini?” intervenne mio padre.
Si, lo aveva detto, io lo avevo riportato poco prima, infatti.
Lui lo aveva definito padre e fratello, e uomo più fedele. Ankhesenamon aveva avuto una reazione interessante quando io avevo citato “il Generale” come possibile aspirante al trono.
Quale Generale, aveva  chiesto. No, quel Generale non aveva alcun diritto al trono. Quel si riferiva sicuramente al futuro Horemheb, che non era aspirante al trono e non era, nonostante la sua sconfinata ambizione, l’ufficiale più importante.

Non si sa, ancora oggi, chi effettivamente fosse quell’uomo, quale fosse il suo nome prima dell’ascesa al trono, e nemmeno io sono mai stata in grado di ricordarlo.
L’unica cosa che riuscii a fare fu dire chi non fosse. Se mi viene dato un nome, spesso riesco ad associarlo ad una persona, ma non riesco a fare il contrario….
Comunque, quel che sappiamo, è che doveva avere una qualche parentela con la famiglia reale, quantomeno acquisita, come disse la Sposa Reale. Un cugino acquisito. Uno che, senza meriti, alla fine salì al trono.
Coloro che sono a favore della tesi dell’omicidio di Sua Maestà, sono sempre divisi sul “mandante” o sull’esecutore materiale che fosse, ma i candidati sono sempre e comunque due: Aye o Horemheb.
Io provavo un’avversione tremenda verso il Gran Visir, mentre il Generale non mi dava grosse emozioni, fino ad un certo punto. Lo ritenevo borioso, vanesio, ma molto valoroso, non un traditore.
Dopo quella notte, però, mi accorsi che probabilmente c’era lui dietro la morte del Faraone.
O, meglio ancora, tutti e due. Aye non era innocente, questo lo so per certo.”

Incantata, come al solito, dal racconto, non mi ero accorta di un rumorino di tastiera piuttosto frenetico: “Ma allora, dicci, ciccina, chi era costui??” trillò Franco da Parigi, esaltatissimo.
Quella storia lo stava destabilizzando più di quanto non lo fosse per i fatti suoi, cominciavo a preoccuparmi.
“Chi era, eh? Uno fatto sparire alla morte del Faraone, ecco chi. Horemheb sposò effettivamente la sorella minore di Nefertiti, una volta asceso al trono, mentre noi sappiamo che costei, intorno ai sedici anni, venne appioppata ad un altro uomo, che la accettò sicuramente per compiacere il suo Re. Questo può significare soltanto che…”
“…la ragazza era rimasta prematuramente vedova!” terminai.
“Non esiste la possibilità che i tuoi ricordi siano un po’ confusi e Horemheb fosse l’uomo che aveva sposato costei anni prima? Voglio dire, tu non sai il nome di questo generale, non potrebbe essere il futuro Horemheb? Mentre il traditore era un altro generale? Non potrebbe starci?”
Intervenne Franco, continuando a tempestare la tastiera a velocità prossima a quella luce.
“Ma dai, Frà! Ti pare che una persona così fedele avrebbe piantato su tutto quel po’ po’ di casino? Non avrebbe mai cancellato dalla storia una persona cui era così profondamente legato, dai! O no?” chiesi ripensandoci.
Marabel mi rivolse un sorriso smagliante: “No, non lo avrebbe fatto. Penso gli avrebbe piuttosto costruito un tempio, divinizzandolo.
È strano, vero? Lo vedevo quasi sempre nelle regressioni, ma non mi ero mai resa conto di quanto fosse importante. E dovevo volergli bene, stimarlo molto, quantomeno, perché la sensazione che provai quando prese la parola, schierandosi dalla parte del Faraone, fu di trionfo ed euforia, perché ero certa che lui lo avrebbe sostenuto, anche mettendosi contro tutto l’Egitto!
Se prendete delle immagini di Horemheb, vedrete che aveva un aspetto un po’, come dire, da patelavache (che da sberle alle vacche, un sempliciotto). E ha l’espressione di qualcuno che è riuscito a sistemarsi sulla poltrona dei suoi sogni, che però non è della sua taglia e non gli sarebbe mai spettata.
Non ha un aspetto regale, né nobile, non carismatico o autorevole. Autoritario doveva esserlo, fin troppo, ma rozzo, grezzo.
Nei miei ricordi prendeva la parola senza permesso, a volte, tendeva ad alzare la voce e aveva una gestualità piuttosto brusca e marcata.
L’uomo che ricordo al fianco del Faraone, invece, non parlava praticamente mai. Ascoltava. C’era. Appariva quando c’era bisogno di lui, quasi per magia.
Ed era una persona di notevole eleganza nel movimento, nel camminare, un fisico notevole, ma non sgradevolmente eccessivo. Era armonico, invece.
Aveva sguardo riflessivo, ma penetrante, un viso regolare dai tratti piuttosto marcati, soprattutto la mascella, ma per nulla volgari o rozzi. Era molto carismatico, sembrava che la gente non aspettasse altro che obbedirgli.
L’opposto di Horemheb, insomma.
Noi, però, in quegli anni, non avevamo proprio idea di chi potesse essere o meno, anche mio padre avanzò i tuoi stessi dubbi, Franco. Gli venne da pensare, poiché Horemheb salì al trono e ci salì con Mutnodjemet, che fosse lui l’uomo fedele e che il Generale che non sopportavo e che mi aveva minacciata, fosse in realtà un altro uomo, si, proprio come ipotizzavi tu poco fa.
Però, a parte questi due particolari, tutto il resto non torna, soprattutto, come dicevi tu, Eva, il suo comportamento nei confronti dei predecessori.
Tornando a quell’udienza…ci fu una discussione parecchio animata, e l’incontro si interruppe senza una decisione definitiva.
Quel giorno il consiglio di reggenza si schierò con molta forza contro Sua Maestà, del tutto apertamente, non come a volte era successo in passato, quando obiettavano e cercavano di convincerlo a cambiare le sue posizioni con rispetto e, almeno in apparenza, cauta diplomazia.
Mi accorsi che Maya, di nascosto, aveva ordinato agli scribi di non registrare quel punto. Nemmeno il più famoso contabile della storia era del tutto fedele.

Sicuramente, nei giorni seguenti, le cose avrebbero potuto cambiare a favore del Faraone, o lui, semplicemente, alla fine avrebbe esercitato il suo potere ordinando di inviare il convoglio, come mi aveva predetto, ma non accadde mai: pochi giorni dopo, infatti, la Sposa Reale perse la bambina.
Non si può immaginare il lutto che cadde sull’intero paese, sulla corte, sul popolo, sembrava che perfino il fiume e gli déi nei templi piangessero e, almeno per quel momento, non si parlò più né di Hatti, né di convogli di soccorso. Non si parlò di parecchie cose, a dire il vero, perché tutto si concentrò sul quel disastro annunciato.”

Era bello, per una volta, vedere la faccia basita di Franco con il naso appiccicato allo schermo. Era confortante vedere qualcun’altro che restava a bocca aperta ad ascoltare il racconto della mia amica. “Miseriaccia, è vero! La bambina!” esalò.
“È vero, hai detto che era di quasi cinque mesi la notte del crollo…ed era passata qualche settimana, vero?” Marabel annuì: “Si. Direi il tempo di rimettersi abbastanza in forze e riprendere le normali attività di reggenza. Purtroppo, per quanto non inattesa, quella disgrazia fu quanto di più terribile per il paese.
Il popolo era spaventato, soprattutto per via di quell’incidente nel Tempio, del presagio che aveva rappresentato per i più. Vedevi la gente piangere per strada, le persone che si incontravano, senza magari conoscersi, si abbracciavano e piangevano insieme.
Mi correvano incontro, si gettavano ai miei piedi chiedendo del Faraone, che chiamavano il Fanciullo d’Oro, come stava, si tagliavano i capelli e li offrivano perché fossero bruciati come sacrificio, offrivano tutto ciò che avevano…terrorizzati, si, ma non da lui, come oggi si potrebbe pensare, ma per lui, perché soffriva. Però, sopra ogni cosa, erano letteralmente terrorizzati all’idea di perderlo.

Non avevo conosciuto i tempi di Amenophis, non so come la gente avesse vissuto la sua malattia e la sua morte, ma quando era morto Ekhnaton, beh, non avevo visto nessuno piangere per davvero.
C’erano lamentatrici, a corte, come no, ma erano pagate per strapparsi le vesti e disperarsi! Piangevano coloro che si erano arricchiti nella città eretica, qualche parente e dignitario fedele, nessun altro. A dire il vero, al di fuori dell’Orizzonte di Aton, il popolo aveva accolto con sollievo e gioia la sua morte. Ora, soltanto l’idea di sapere come quel ragazzo soffrisse, gettava ognuno nella disperazione: c’erano file di penitenti che chiedevano perdono agli déi, bruciando offerte nei giardini delle case per propiziare il bene del Faraone, chiedendo pietà e promettendo al cielo bontà e pentimento, non importa per cosa. Era incredibile e commovente.”

A me, però, continuava a frullare un’idea nella testa, che nulla aveva a che fare con la bambina: “Ma, senti, Marabel…”
Si voltarono entrambi verso di me: “Ma tu, avevi incontrato i marinai cretesi?” fece le spallucce, perplessa: “Oh, beh, io non ho mai avuto riscontri diretti, in regressione, ma sono certa di si. Dovevo incontrarli due sere dopo l’udienza, quindi devo averlo fatto certamente, ma perché?”
“Beh, perché questo spiegherebbe un mistero storico”
Franco sbuffò rumorosamente: “Uno! Tutta questa storia è un mistero!”
“Vero, ma, se non vado errando, da che ero piccola ho sempre visto che gli storici trovavano quantomeno strano o curioso che Ankhesenamon, con tanti paesi attorno, vassalli o alleati, avesse chiesto soccorso proprio al più grande nemico dell’Egitto. E non solo!
Mursilis, invece di mandarla a stendere, per ben due volte aveva risposto immediatamente al suo appello! Perché? Ammetto che il trono d’Egitto dovesse fargli gola, ma non ha senso niente!
Non ha senso che lei si sia rivolta a lui, e non ha senso che lui sia stato così sollecito, soprattutto dopo la scomparsa misteriosa della prima delegazione!
Voglio dire, se io fossi un re Ittita e il mio peggior nemico mi dicesse: “Ehi, ti do il trono se mi levi dagli impicci!”, intanto ci penserei molto bene e poi, dopo che la mia delegazione scompare nel nulla, mi incacchierei come un esercito di bisce! Andrei, altro che, ma con carri ed eserciti, tanto più che si parla di un paese in un momento difficile!
Lui, invece, che fa? Gli manda addirittura il figlio!
E a quel punto, visto che nemmeno lui arriva in Egitto e scompare nel deserto, pur arrendendosi all’evidenza che magari non é il caso, non minaccia, non prende posizioni, non fa nulla.
Non è strano? Erano nemici, molto nemici, moltissimo nemici! Perché non approfittare della situazione? Aveva un regno nemico senza re, con in più la scusa del chiaro attacco ai suoi! Un’occasione più che ghiotta!
Però, se Hatti, almeno la corte di Hattusa, fosse stata al corrente del tentativo di aiuto da parte del Faraone, allora si che tutto quadrerebbe! Sia le lettere della Vedovella Reale, sia il comportamento degli Ittiti!”

Marabel ascoltò attentamente: “Si, Eva. Sono certa che Mursilis fosse al corrente della volontà del giovane Re d’Egitto e le tue parole sono molto azzeccate. Hatti, in quel frangente, sembrò adottare un comportamento cauto, ma molto diplomatico e pacifico, rispettoso direi e la ragione potrebbe veramente essere questa sorta di gratitudine, anche se per qualcosa che non aveva mai avuto luogo. In seguito, come sappiamo oggi, non accadde più niente del genere e Ittiti ed Egizi continuarono a darsele di santa ragione, fino alla grande battaglia di Qadesh, che ancora oggi non si capisce come sia realmente andata a finire.
Il rispetto dovuto al Fanciullo d’Oro non era certo dovuto ai suoi successori, che dovevano piuttosto essere, agli occhi degli Ittiti, traditori di quel fragile, eroico re, e io penso sapessero molto più di quanto noi oggi immaginiamo e più di quanto realmente potremmo mai scoprire.”

Franco fissava lo schermo come in trance: “Riguardo alle circostanze della sua morte?” domandò.
“Anche, si, ma non solo.”
La studiai di sottecchi: “Cosa ci stai nascondendo? Parla, donna!”
Lei ridacchiò: “Nulla, cerco solo di non saltare di nuovo di qua e di là come è già successo altre volte! Comunque, si, c’è qualcosa di molto forte, accaduto nel periodo seguente, negli ultimi sette, otto mesi della sua vita.”
“Più degli pterosauri?”
“Uhmmm…”
“Ok, andiamo avanti. Siete tornati al Cairo, hai scoperto questa storia del convoglio, è mancata la bambina. Bene. E poi?”
“Ah-ha, non ho intenzione di continuare senza quella brodaglia calda che hai il coraggio di chiamare caffè!” rispose.
Mi lanciai sul pentolino e lo misi sul fuoco, recuperando due bicchierini appositi: “Tu, Fra, caffè?” “Oh, altro che, grazie! Voi volete un petit cochon o una grenouille?” rispose, come fosse stata la cosa più naturale del mondo (dolcetti a forma di maialino o ranocchia, coperti di marzapane).
Eravamo decisamente una banda di suonati.

“Insomma, una profonda tristezza, sgomento, lutto, erano caduti sul paese, ma si avvicinava anche il momento della verità: presto Sua Maestà avrebbe dovuto prendere una Seconda Sposa.
Si attendeva, fingendo che questa eventualità non esistesse, che la Sposa Reale si rimettesse e cominciasse a cercare una donna da mettere al proprio posto, poiché su questo il Faraone era stato molto chiaro e determinato già da tempo.
Immagino che Aye e la consorte si fregassero le mani, sicuramente certi di poter manovrare a piacimento la nipote, ma ostentavano una rispettosa condiscendenza.
Ankhesenamon si riprese piuttosto in fretta da quel parto prematuro e disgraziato, comunque.
Il Faraone, invece, stava sempre peggio: la sua salute aveva avuto un peggioramento netto, tanto che non si alzava quasi, mangiava pochissimo e soltanto imboccato, se si presentava a qualche udienza veniva portato in braccio e poi riportato allo stesso modo alle sue stanze.
Non saprei dire se a dargli quel colpo fosse la disperazione per la bambina, sapevo che c’era altro, ma…” si fermò a riflettere: “Io ero terrorizzata. Vederlo così fragile, spezzato, e pensare di non potergli essere accanto come avevo sempre fatto, era il mio incubo diurno e notturno: ero sicura che un’altra donna non sarebbe stata compiacente come Ankhesenamon, verso di me, si sarebbe intromessa, avrebbe fatto in modo di allontanarmi ed emarginarmi, approfittando della debolezza dello Sposo.
Ma, come tutto questo non fosse bastato, Sua Maestà si impuntò nuovamente nel volere a tutti i costi dare delle esequie reali al feto, che poi avrebbe dovuto essere posto accanto alla sorella, in una camera della sua tomba.
Se la prima bambina era morta durante il parto, questa non era vitale già da prima delle doglie, tanto che era stata la sua morte a provocare il parto prematuro; non era nemmeno del tutto formata, oltre ad essere fortemente deforme, così, se la prima volta voler mummificare la bambina era stato un’eresia e uno scandalo, questa volta venne visto come una vera e propria follia, il delirante capriccio di un demente, che andava a sommarsi alle recenti stranezze.
Questa volta anche io ne ero spaventata: in quei giorni lo avevo visto molto poco poiché dopo il parto mi aveva chiesto di stare in disparte il più possibile, così non capivo se stesse portando avanti un suo piano di qualche genere o se stesse davvero cadendo preda di ossessioni folli.
Mi sentivo sgomenta e tutto mi pareva buio, cupo, senza speranza.

Passarono forse tre settimane, un giorno venne a chiamarmi, in lacrime, un giovane sacerdote di Sekhmet, scortandomi dal Faraone con urgenza, poiché era successa, disse, una cosa terribile.
Non volle aggiungere altro, avrei saputo tutto a corte, disse singhiozzando.
Poteva avere tredici, forse quattordici anni e gli occhi scuri erano spaventati, saettavano attorno colmi di impotente disperazione.
Trovai il Faraone solo nelle sue stanze, rannicchiato su un divano coperto da pesanti stoffe arrotolate, pallido, il viso smunto rigato di lacrime silenziose.
Corsi al suo fianco, lui mi gettò le braccia al collo e si rannicchiò contro di me come quindici anni prima: “Is! Non ho speranze, non ne ho più!” esclamò.
“Che è successo? Quali speranze, cosa c’è?” chiesi tastandogli la fronte, cercando la gamba malata, guardandogli gli occhi. “Ricordi le squadre di esplorazione che ho mandato più o meno ai quattro angoli del mondo? A cercare gli antichi strumenti di potere per guarirmi, per guarire mia sorella?” si, ricordavo.
Avevamo fantasticato tante volte su testi antichi e di cui si ignorava ormai il vero significato: “Sono tornati. Beh, due ne sono tornate, di una terza non ci sono notizie e si pensa siano dispersi e già questo è orribile, di per sé,  ma gli altri sono presso la piana a Nord, alla statua del Grande Leone, e hanno mandato notizie attraverso questi che sono arrivati.”
Si guardò intorno scuotendo la testa, come cercando di raccapezzarsi: “Dunque? Dimmi, ti prego!” lo implorai. Lui mi si abbarbicò come una pianta di convolvolo, non disse nulla per un po’, sospirando nel cercare parole.
“Non hanno trovato nulla, né nelle terre di mia madre, né ad Oriente, né a Nord.
Hanno descritto i racconti di Kiya alla sua gente, parlando della Piramide d’Oro così come lei raccontava e come io ho riferito loro, per tutto ciò che posso ricordare, ma nessuno pare avere la più pallida idea di a cosa possa trattarsi.
Questo monumento meraviglioso, di dieci gradoni e un ultimo piano su cui dovrebbe trovarsi la cupola che raccoglie la forza vitale dal cielo e dalla terra, immersa tra foreste di alti alberi verdissimi e profumati, nessuno ha idea di dove mai possa essere, né ha sentito alcuna storia al riguardo. I miei emissari hanno trovato molte indicazioni che però portavano sempre agli ziqqurath, altre volte a templi lontani, ormai scomparsi sotto le sabbie, sgretolati, o comunque perduti. Hanno trovato tante leggende, ma niente da potermi portare o cui potermi portare.
La squadra dispersa si è spinta fino oltre le terre del lontano Oriente, dove sono le Montagne inaccessibili, ma, appunto, non si hanno più notizie di loro.
Coloro che sono a Men Nefer, invece, sono  hanno studiato i testi antichi, ma niente fa loro pensare di poter trovare lo Djed.
Ho suggerito che possa trovarsi sotto o dentro una delle piramidi là vicino, ma loro hanno scavato e scavato, perché, sai, il mio bisnonno aveva dissepolto il grande leone dalla sabbia, ma non le piramidi e non sono riusciti a trovare  alcun ingresso, né niente che possa far pensare a passaggi o qualcosa dove lo Djed possa essere nascosto.
Dicono che ci vorrebbero almeno due, tre anni per poterle liberare del tutto dalla sabbia e poi trovare il modo di entrare senza rischiare di rovinare o far crollare qualcosa.
Non sono certi di nulla e io non ho tutto questo tempo, non ho anni a disposizione!
Le descrizioni di Kiya mi fanno pensare che la Piramide d’Oro debba essere a Nord, così ho discusso a lungo con i nostri ospiti delle terre del Nord e con la loro stregona, prima che partissero,  ma non siamo approdati a nulla.
Loro mi hanno parlato di alcuni Dun, torri di pietre magiche, in cui in alcuni giorni dell’anno il sole entra da un’apertura in alto e avvolge di luce chi sia in un punto preciso dentro la torre, procurando grandi guarigioni con l’assistenza dei sacerdoti bianchi, e hanno parlato di luoghi dove le pietre sono in piedi, in cerchio, dicono che anche questi siano luoghi magici, ma non somigliano per nulla ai racconti che ho fatto loro.
Pensano che nemmeno le loro torri possano salvarmi, ma se sono certi che potrebbero essermi d’aiuto…però, Is io come potrei arrivare fino là? Ho bisogno di qualcosa che possa essermi portato, qualcosa che possa essere trasportato facilmente, come lo Djed o l’acqua dalla cupola della Piramide d’Oro.
Mia madre parlava di un tavolo di guarigione, diceva che l’acqua era trasformata in un liquido che ricostruiva il corpo, qualsiasi fosse il male che lo affliggeva. Ma non si trova nulla, nulla, e io non ho più né tempo, né forza!”
Si fermò, soffocando un singhiozzo: leggevo nei suoi lineamenti contratti che stava pensando alla bambina, alle bambine e ai figli persi prima di avere forma, negli anni passati.
Restò a fissare il vuoto, una ruga tra le sopracciglia, il viso stanco. Non aveva ancora vent’anni.
Tornai ad abbracciarlo, lo accarezzai con la guancia: “Io continuerò a curarti e terremo lontani i mali il tempo necessario a trovare quella piramide leggendaria oppure lo Djed. O qualsiasi altra cosa possa essere risolutiva. D’accordo? Hai fiducia in me?” lasciò andare il fiato: “Ne ho, si, ne ho eccome, ma sono così combattuto. Sai, io penso che loro ce l’abbiano tanto con te proprio perché il tuo tocco mi ha sempre curato, lontano dal loro controllo.
Tey ti provocò con tanta perfidia conoscendo il tuo carattere così ribelle e volitivo, sapendo che non saresti riuscita a controllarti. Non ce l’ha con te per quel vecchio schiaffo, ma lo ha sempre usato per metterti contro la corte, per poterti diffamare e infangare il tuo nome. Io credo che avrei dovuto essere più duro nel raccomandarti di stare attenta.”
Mi vergognai: lui me lo diceva da quando era piccolo, di stare attenta! Ero io che mi lasciavo trascinare dalla passione!
“Ma perché? Sono così infastiditi dalla tua buona salute? Come possono?” lui fece le spallucce: “Mah, non è proprio questo. È…è che lo sapevano! Ekhnaton lo sapeva! Tiye lo sapeva! Loro sapevano che il loro sangue è veleno per noi!”
“Noi? Loro? Voi chi, Am’n? Chi sono loro?” si scostò da me per potermi guardare negli occhi e i suoi occhi erano così sofferenti!
Mi prese le mani: “Iset! Aye, Tiye, Tey e come loro Neferuaton ed in parte l’uomo che è chiamato mio padre non sono come me, te, Kiya! Loro hanno un sangue diverso, che avvelena quello della nostra stirpe. Mia madre non era figlia della Grande Sposa Reale Tiye, il suo sangue era delle nobili terre di Babel, dove sono tre razze di genti antiche, e in lei non scorreva quello degli Anunnak, la stirpe di Tiye, come non scorreva in mio nonno: il sangue come il mio, il nostro, non dovrebbe incrociarsi con il loro, perché ci avvelena. Non tutti gli ibridi sono malati, non in modo così palese e più si diluisce la loro presenza, più la malattia si fa lieve, ma…beh, vedi, in me l’incrocio è forte. In mia sorella, invece, il sangue forte è quello della stirpe di Tiye, così per la nostra progenie è veleno.”
Strinse i denti, cercando di soffocare il dolore che gli provocava pensare ai figli mai nati.
“Loro…loro hanno sempre usato sposarsi tra fratelli, per mantenere costante il loro sangue. Questo li ha indeboliti, nei millenni, ma la malattia è causata dall’incrociarsi con l’altro sangue. Tu sei sana perché in te non c’è l’incrocio con loro.”
“HeruRa? Mi stai dicendo che il sangue nubiano è cattivo?” azzardai.
Era pieno di nubiani o misti, a corte. Il suo medico aveva sangue nubiano, il maniscalco che gli aveva costruito la biga era nubiano e lui gli era legatissimo…d’accordo, non doveva accoppiarsi con costoro, ma…
Lui sorrise: “No, non c’è niente che non vada nel sangue nubiano, Is, anzi, è un sangue forte, che mi ha permesso di restare in vita, quando ero piccino” tirai un respiro di sollievo.
“Guardati dalla stirpe discendente dagli déi malvagi, Is. Tu non hai il loro sangue e loro lo percepiscono, come tu percepisci il loro e ne provi repulsione. Non sei mai riuscita a sopportare nessuno di quella stirpe, e nessuno di loro sopporta te. Soltanto Ekhnaton non ti vedeva come un nemico, ma una protezione per me.” Cos’era che io percepivo? Io non li sopportavo perché li sentivo malvagi e falsi. Sua Maestà sorrise birichino: “Pensi forse che io non sappia che tu chiami Aye faccia di serpente e vecchia vipera sua moglie?”
Mi sentii colta in flagrante: “Oh, beh, io…no, ma, è perché…insomma, loro…beh, Aye somiglia davvero ad una serpe, gli mancano solo le squame!” protestai: “E la coda! Non dimenticare la coda!” mi canzonò. Ero una donna matura, a quel tempo, ma certe volte mi imbronciavo come da bambina, almeno con lui: “È che è lui che è così…così…viscido! Come una biscia d’acqua!”
Pensavo avrebbe riso o mi avrebbe presa in giro, o forse rimproverata, ma quando alzai gli occhi vidi la sua espressione seria, triste e lo sguardo preoccupato velato di malinconia: “Si, lo è. Non ho mai potuto leggere nel suo cuore, spesso penso non ne abbia uno. È così protettivo verso sua moglie, i figli e nipoti, ma mi chiedo se lo sia per affetto o per convenienza, perché essi portano la sua linea di sangue. Ci sono stati periodi, nella storia del nostro paese, in cui quelli della sua stirpe regnavano sul trono d’Egitto, ma furono più volte soppiantati dalla mia stirpe o da altre vicine a noi. Ma loro vogliono il trono e poi ne vorranno altri e vorranno espandere il loro dominio su ogni paese. Anche le genti del Nord lo sapevano e mi hanno detto di guardarmi da loro.
Dissero di cercare la gente della mia stirpe, ma essi sono lontani, oltre il grande mare e non posso trovarli.”
“Parli degli antichi? Delle stirpi venute da Occidente millenni fa? Ci sono altri discendenti di costoro?” lui scosse la testa, impotente: “Penso di si. Ma vassapere! Io non penso siano scomparsi, forse stanno meglio di noi, ora. Chissà! Le genti dai capelli di fiamma sostengono che vi siano grandi terre misteriose ad Occidente delle loro isole, ma che vi è un grande mare da attraversare e che sia luogo di correnti e tempeste. Però, presumo che qualcuno le abbia viste, perché ne parlano come di una cosa certa, non di una leggenda. Anche alcuni nubiani sostengono di essere stati nelle terre al di là del grande mare d’Occidente, dove abitano gli dèi, o almeno i loro discendenti.”
Mi toccava profondamente quando parlava della gente del Nord e delle chiacchierate che facevano in solitudine. Tante volte avrei voluto poterci essere, ma, come al solito, lui mi teneva in disparte il più possibile.”
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SPATAM!
Sussultai, strappata ad un sogno ad occhi aperti dalle sfumature sempre più improbabili.
No, niente, Franco, non abituato come me al racconto di Marabel, era semplicemente finito con la faccia sulla tastiera. La sedia si era rovesciata e lui era letteralmente caduto, per fortuna in avanti, fermandosi con una facciata sul tavolo.
Mi trattenni a fatica dal ridere: “Ehi, bro, sei intero?”
Lui farfugliò qualcosa, raccattò la sedia rovesciata, andò a recuperare una bottiglia d’acqua, la fissò disgustato e cercò del brandy.
“Non te lo consiglio: rischi di perderti qualche particolare”
“Dubito” esclamò.
Sedette davanti allo schermo accavallando le lunghe gambe da fenicottero e tracannò mezzo bicchiere.
“Spiegati! Cosa significa ‘sta roba?” intimò.
Per un attimo mi parve avesse qualcosa di minaccioso tipo, chessò, Clint Eastwood col cappello.
Gli mancava giusto il poncho e forse la colt (a parte il cappello), ma per il resto erano identici…
“Insomma, Franco, gli antichi Egizi hanno sempre sostenuto di essere arrivati dal grande mare d’Occidente, non è mica un mistero! Il mistero, semmai, è da dove, esattamente, visto che, dopo l’Africa, ad Ovest non c’è granché per migliaia di miglia, a parte Madeira, Azzorre e Bermuda, tutta roba molto piccola, in ogni caso.”
“Quindi, siamo al punto d’unione con le tue visioni? Una grande isola nel bel mezzo dell’Atlantico? Di cui, come in alcune leggende, le Azzorre e Bermuda sarebbero le ultime vestigia? E della gente che se ne viene da questa parte, mentre altri se ne sarebbero andati al di là del mare? Maya, Atzec, Incas? Questo, intendi?”
Era sempre più divertente vedere qualcun altro andare in confusione in diretta al mio posto.
“Veramente, nelle mie visioni la terra che vedevamo era nel Pacifico.” Buttò lì Marabel.
“E il tizio sulla piramide aveva splendidi tratti Algonkini!” conclusi trionfante: “Ci saremmo, anche se Atzec e company non sono esattamente Algonkini, ma con il tempo potrebbero essersi inquinati, anzi!” mi illuminai: “Si sono inquinati, altroché! Contaminandosi con i popoli siberiani! Eh? È possibile che in un tempo molto antico fossero tutti di uno stesso ceppo o quasi? In fondo, se non erro, anche le tribù della Virginia erano di ceppo algonchino, ai tempi dei primi contatti”
Marabel aveva una smorfietta buffa, tipo: cerco–di-non-ridere-ma-mi-sto-divertendo-un-mondo.
Franco no.
“E se invece fossero stati loro ad inquinare i Siberiani?” lasciò cadere.
Silenzio.
“Ohssantocielo! Sappiamo che una migrazione c’è sicuramente stata tra l’America del Nord e la Siberia e paleontologi e antropologi hanno sempre dato per scontato che si trattasse di una discesa dalla Siberia verso l’odierna Alaska, con successiva diffusione delle popolazioni per tutte le Americhe, questo per la semplice ragione che non si vuole accettare l’idea che le Americhe fossero abitate prima, che avessero una popolazione originaria, che esisteva là.
Questo, probabilmente, perché andrebbe a guastare la storiella che c’è stato un solo luogo d’origine della specie umana ed è stato tra Africa e Mesopotamia, giusto? Ma se noi partiamo da un altro concetto, cioè che la specie umana, come molte altre, sia ad un certo punto sbocciata in varie aree, allora possiamo, potremmo, pensare che le Americhe fossero popolate migliaia e migliaia di anni prima del diecimila avanti Cristo, no? Milioni, perché no? Non si è trovata una Lucy locale, ma forse non la si cercava o non la si voleva trovare…ma noi stiamo giocando, e possiamo giocare ad immaginare che là ci fossero degli umani, originali e assolutamente D.O.C.G!
Ora, per un momento, lasciamo perdere visioni, sogni, l’isola nel Pacifico, pensiamo solo che là ci fosse un’umanità alternativa a quella afro eurasiatica. E che, ad un certo punto, si sia spostata, andando ad esplorare oltre lo stretto di Bering e incontrando le popolazioni Siberiane.
È vero, si dice che i Nativi Americani somiglino, e alcune popolazioni molto più di altre, ai popoli siberiani e mongolici, ma i popoli siberiani e mongolici non assomigliano a niente di indoeuropeo o africano. No?
Quindi, volendo essere sovversivi, perché non immaginare che le popolazioni dell’odierna Siberia non siano progenitrici degli Americani veri ed originali, ma ne siano i discendenti e, a loro volta, abbiano dato origine alle popolazioni dell’Asia orientale in generale? Magari mescolandosi con autoctoni di ceppo indoariano e producendo la razza gialla. È carina come teoria, no?”

Lo era, si. Mancava di reperti tanto antichi da poterlo dimostrare, però.
La stranezza, delle popolazioni amerindie, era che le civiltà che erano fiorite e decadute, non sembravano più antiche di un migliaio di anni prima dell’arrivo di Colombo, o poco più. Si poteva risalire al mille avanti Cristo, ma poi, il nulla.
C’erano tanti misteri, vero, tra cui i famosi Olmechi, i quali, però, a quanto pare dovevano essere visitatori provenienti dall’Africa in tempi remoti, non una popolazione originale. Sbuffai, frustrata.
“Il DNA, ragazzi. Si stanno facendo parecchie ricerche, oltreoceano, le stanno facendo loro, i ricercatori Nativi, soprattutto. Ostacolati finché si vuole e spesso con mezzi economici, ma stanno uscendo cose interessanti, tra cui un DNA unico al mondo. Ci sono caratteristiche comuni ai popoli siberiani, ma queste non sono comuni agli altri popoli eurasiatici, che significherebbe…”
“Che la migrazione e conseguente ibridazione è andata verso l’Asia e non il contrario!” saltai su.
“…woooooooooooooowwww!!” esclamai ricadendo sulla sedia. “Ma perché non si pubblicano queste cose su tutti i giornali scientifici e non?”
“Beh, perché nessuno le vuole sentire…”

“Quindi, ricapitoliamo…” ci interruppe Franco: “In un epoca molto antica una popolazione era migrata, azzardiamo a causa di un cataclisma, verso Est, cioè per loro l’Africa, mentre un’altra parte della stessa popolazione era migrata verso Ovest, cioè le odierne Americhe, abitate o meno che fossero.
Entrambi i popoli, poi, avevano costruito monumenti simili, forse con le stesse funzioni, o forse a memoria di qualcosa di comune e precedente, ma c’è il forte sospetto che i due popoli non si siano persi del tutto di vista, almeno per molto tempo, anche se, all’epoca del tuo Faraone, i contatti non c’erano più, ma al Nord…Irlanda, forse Norvegia e Danimarca, alcune navi già a quel tempo solcavano l’Atlantico e conoscevano le Terre d’Occidente. Non nel Medio Evo, stiamo parlando di un periodo di tipo duemila? Ci sta, duemila anni prima?”

“Non esattamente” lo corresse lei: “Al contrario, direi che quello potrebbe essere stato il termine ultimo delle navigazioni che, probabilmente, ripresero nel medio evo, appunto, portando i Norreni in Groenlandia e Canada. Grun Land, Terra Verde, era infatti il modo in cui i Norreni definivano l’ipotetica Terra d’Occidente, il paese degli Dèi, dell’eterna giovinezza, dove le malattie non esistevano.
Per inciso, saprete sicuramente che, prima dell’avvento del Mayflower, i Nativi Americani non conoscevano praticamente malattie? Erano una roba rarissima, il che spiega anche come si trovassero in totale confusione al momento di dover combattere epidemie tanto aggressive come quelle portate dagli inglesi. E comunque, ancora alla fine dell’ottocento, dopo quattrocento anni di coperte al vaiolo e importazione di malattie varie, carestie, fame, miseria e deportazione, c’erano soggetti, pur rari, che raggiungevano i cento trent’anni”
“Ok, ma perché si sarebbero persi i contatti? E quando?” intervenni.
“Io penso intorno al milleseicento avanti Cristo, Eva.”
“SANTORINI!” esclamammo in coro Franco e io.
Lei sospirò: “Santorini, si. La cui fine decretò anche la fine della civiltà Minoica, spazzandola dalla faccia della terra.
Per quanto, all’epoca, Sua Maestà parlasse spesso dei Keftiu, essi erano ormai accorpati alla civiltà micenea, che ne aveva preso il posto.
Esistevano, ma la loro cultura, la loro lingua e civiltà erano scomparse con il maremoto. Ciononostante, i Keftiu del tempo erano molto rispettati dalle popolazioni dell’area orientale del Mediterraneo, perfino dagli Sherden, che, come sappiamo, non andavano molto per il sottile, di solito.”
“Quindi, questo disastro, fu così terribile da influire perfino su popolazioni così geograficamente lontane? Danesi, Irlandesi, Norvegesi?”
Lei sospirò: “Franco, l’esplosione di Santorini provocò una nube di ceneri che oscurò il cielo per anni! Non posso garantirne l’estensione, ma pensa al disastro di Chernobyl: stiamo parlando di qualcosa dell’entità centinaia di volte inferiore a Santorini, eppure la nube atomica si diffuse in pochi giorni in tutta Europa, a tutto il Mediterraneo, arrivando fino al Nord America.
Non era visibile come una nube di ceneri, ovviamente, ma la radioattività salì ovunque e non solo per un paio di settimane, o un mese! Non la vedevamo, ma la nube tossica c’era eccome.
Tu immagina ora qualcosa di denso come bitume, pesante, nero, che si espande sull’Europa coprendo completamente la luce solare e viene prodotto dall’eruzione per giorni, forse settimane dopo l’esplosione. Non parliamo di un botto e via, ma di un’eruzione che fece dapprima saltare il tappo della caldera, con tutto quel che c’era intorno, poi continuò per la sua strada, andando avanti a vomitare fuoco, ceneri, calore e gas pesanti fino a svuotare la camera magmatica.
Non sappiamo se questo alterò le correnti marine, lassù, ma sicuramente alterò le condizioni climatiche, il tempo, la visibilità.
Il Mediterraneo bolliva. È un mare chiuso, probabilmente la temperatura delle acque aperte al di là di Gibilterra non venne influenzata, ma l’ecosistema fu compromesso, io credo in gran parte di questo emisfero. Fu qualcosa di spaventoso…” lo diceva così, con gli occhi persi nel vuoto, come per il ricordo ancora vivido di un’esperienza personale.
Mi insospettii, ma non dissi nulla.

“Quindi, trecento anni dopo, il ragazzetto non era in grado di raggiungere gli antenati nelle Americhe?”
Aveva mandato delle navi in Scozia, per la quale si trattava di costeggiare l’Europa e risalire verso la Gran Bretagna, navigando abbastanza vicino alla costa per quasi tutto il tragitto, a parte l’attraversamento della Manica, che non era paragonabile alla traversata dell’Atlantico, per quanto le correnti e le condizioni del clima non fossero una passeggiata nemmeno in quel caso, eppure mi parve strano che si arrendesse senza provare.
Era forse preoccupato per un’eventuale spedizione? Temeva, dopo la sparizione verso l’odierno Karakoram di una squadra di esplorazione, che potesse succedere qualcosa del genere ad un’altra spedizione?
“Non è questo, non esattamente. Il problema era il tempo, non lo spazio: Sua Maestà sapeva di avere i giorni contati, se non per i suoi malanni fisici, per quelli politici.
Un Faraone non può essere malato e debole, non a lungo, e non può non riprodursi.
Tutto sembrava dargli contro e per inviare una spedizione verso un luogo del quale non si era certi di nulla, non della distanza, non dell’ubicazione, non si sapeva che correnti si sarebbero trovate o altro e, superato tutto questo, non si aveva idea di cosa o chi cercare. Ci sarebbero voluti anni, davvero! E noi non li avevamo, ammettendo di trovare qualcosa di utile.”

L’acqua bolliva da un po’ e io non me ne ero accorta. Per fortuna avevo riempito il pentolino fino al bordo, così ne restava ancora una quantità sufficiente a quattro bicchierini da caffè colmi.
Ci misi due cucchiaini di zucchero, ma mi parve ancora sgradevolmente amaro.
“In ogni caso, anche avendo anni…poteva succedere veramente qualsiasi cosa! Metti che i suoi esploratori si fossero persi nel Triangolo delle Bermude!”
No, va bene, magari è tutta una bufala, ma dopo tutto quello che avevo dovuto digerire in quei giorni, un’alterazione spazio temporale assassina mi sembrava perfino banale.

Marabel mi guardò in tralice e io le sorrisi innocente. Franco contemplava cupo il bicchiere vuoto, la faccia sgranata al di là dello schermo.
“Ma allora?”
“Beh, allora! Improvvisamente venivano a cadere anni di ricerche e speranze. C’era solo il vuoto, davanti a noi. A meno di un miracolo, naturalmente.”
“Niente Djed, niente…scusa, ma…il tavolo di guarigione! Tu lo hai visto! Lo hai sognato, no?”
Si strinse nelle spalle: “Tremila anni dopo, e non ho idea di cosa e dove potesse essere. Meglio ancora, dove possa essere!”
“Si, però c’era, c’è! Esiste, tu lo hai visto anni prima che lui te ne parlasse” mi interruppi, improvvisamente consapevole del nonsense.
“Sapete, ragazzi, è molto interessante avervi tutti e due qui. Riuscite a rendere tutta la faccenda terribilmente divertente!”
Sospirai.
“In ogni caso, tu hai visto una cosa strana nell’ottantasei, una grande isola nel Pacifico, poi l’avete rivista in quattro l’anno seguente, ma…ha un minimo di senso, tutto questo? Una grande isola ricca di vegetazione, con una grande piramide apparentemente d’oro, o almeno ricoperta d’oro, con una piccola cupola in cima e pterosauri coloratissimi in volo.” Intervenne Franco. Aveva un’espressione amara, come non riuscisse a buttare giù qualche boccone.
Rifletté per un po’ scuotendo la testa, fece schioccare la lingua contro i denti: “Anche volendo a tutti i costi accettare questa storia, che prove ci sono? Non dico prove schiaccianti, ma qualcosa, almeno degli indizi a favore! Va bene, un DNA particolare, che potrebbe essere spiegato con molto buonsenso dalla teoria della comparsa dell’uomo contemporaneamente in più posti.
Non c’è nulla che provi l’esistenza di Atlantide e parliamo di qualcosa di molto più vicino, almeno temporalmente, ma sono favole! Come si fa a non liquidare tutto come” alzò lo sguardo verso di noi: “Come visioni? Visioni, allucinazioni, qualcosa di causato dal clima, dalla salvia, dalla suggestione?”
“EHI!” strillai: “Fra, ma sei scemo? In quattro hanno visto esattamente le stesse cose! Non qualcosa di simile, le stesse cose e non c’era nessun elemento che potesse far loro vedere degli pterosauri per suggestione!”
Lui sospirò. Di solito ero io quella miscredente. “No, non è che io non voglia crederle, sora, è che le cose che racconta sono così rivoluzionarie e non c’è una cippa a suffragarne almeno una! Niente!”
Marabel lo guardò comprensiva: “Abbiamo passato le nostre vite a cercare prove o almeno indizi.
In parecchi, Franco.”
“E poi Floyd e Robert dicevano che c’era qualcosa, qualcosa di grosso, là, nel Pacifico, o almeno che lo pensava la loro Gente…o no?”
“Mmmnon proprio, dicevano che secondo loro c’era qualcosa là. Ma io penso parlassero per loro stessi, non della loro tradizione. Anche se…”
Franco la guardò intensamente, almeno per quel che la webcam gli permetteva: “…se?”
“Beh, leggende. Niente di che.”
“Spara!” esclamammo in coro.
“Leggende Hopi e Lakota, almeno. Non lo so con certezza, ma penso comuni ad altre Nazioni. Sostengono che il Popolo Rosso provenga da…da un altro posto.”
La detestavo quando faceva così: “Quale posto?”
“Mah…no, niente di che…Sirio…Orione…giù di lì”
“Ah.”
“Apri Google Earth” disse incoraggiante.

La faccia di Franco diventò una finestrella all’angolo dello schermo mentre anche io aprivo l’applicazione: “Bene, ora andate sul Giappone, restando abbastanza in alto da vedere tutta l’area a Sud, Filippine, Indonesia, Molucche…Borneo”
Mi avvicinai all’area. La cosa che mi parve interessante, mentre cliccavo al largo del Giappone, fu che tutto il Pacifico sembrava essere una grande ferita che, invece che ricucita, fosse stata riempita da altro: era come mancasse un pezzo, come la terra si fosse aperta, letteralmente, lasciando il mantello scoperto e il magma avesse riempito completamente la parte vuota, un po’ come quando una bruciatura strappa via una vasta porzione di epidermide, lasciando la carne viva lì, all’aria, e pian piano la pelle nuova la ricopre. E si vede la differenza, perché quello spazio rimane stranamente liscio, un po’ traslucido.
Roteando un attimo il mondo, piccino, piccino là dentro il mio pc, mi accorsi che non c’erano altre aree del pianeta che avessero lo stesso aspetto e, tutto intorno al Pacifico, come sappiamo, c’è il famoso Ring Of Fire, la zona più ballerina e vulcanica al mondo. Una pelle che brucia intorno ad una ferita.
Cercai di immaginare la terra che si spalancava, i bordi delle due zolle che si separavano violentemente e…inghiottivano qualcosa? E poi il magma, a sua volta, creava una nuova pelle?

“Ora osserviamo dapprima la conformazione di quell’area, ragazzi” la voce di Marabel mi strappò alla mia contemplazione: “Per grandissima parte, il fondale del Pacifico sembra una placca quasi regolare, non abbiamo dorsali o catene di rilievo, anzi, non ci sono proprio rilievi di alcun genere in uno spazio gigantesco. Il fondo, però, appare tutto tagliuzzato da smagliature parallele, avete notato? Come una pelle troppo tirata da eventi improvvisi, come un aumento di peso, una gravidanza o chessoio, questo fino al centro, alle Hawaii, da cui parte poi una catena sottomarina che arriva fino all’angolo formato dalla Kamchatka e le Aleutine”
“Che sono il bordo della ferita” commentai, seguendo i miei pensieri.
“Si, il bordo a Nord” confermò Marabel “Ma non dovete fermarvi a questo, anche se ammetto che tutta la forma di quell’area, il Ring Of Fire e quello che c’è…o non c’è, nel mezzo sia intrigante.
Guardate invece al di qua del bordo: dal Giappone, come mi fece notare Robert, si espande verso Est una immensa colata magmatica, che, pur sommersa completamente, a parte alcuni isolotti Marianne e Guam, più qualche altra stupidaggine, è di molto sopraelevata rispetto alla piattaforma oceanica e…” puntò il ditino sul tratto d’origine della lingua: “Sembra essere originata proprio dallo sprofondamento della placca che ci porta giù, fino alla Fossa delle Marianne. Si tratta di una depressione continua, regolare, vedete?”
“Zona di subduzione tra le due placche” chiosai.
“Si. Subduzione, esattamente. Almeno a prima vista, ma per quanto ne sappiamo, vista l’estensione e la conformazione della piattaforma oceanica, potremmo pensare che si tratti di crosta formatasi in tempi molto più recenti rispetto alla parte della colata.
Qui, tutto attorno, abbiamo una grande quantità di terre parzialmente emerse, in parte sommerse, ma non a grandi profondità e non regolari. Nel Mar delle Filippine, però, abbiamo una depressione centrale, appena ad Ovest della lingua”
Si, era molto evidente. Dal Sud del Giappone una catena di isole segnava un confine piuttosto preciso, che scendeva verso Taiwan e poi giù a formare le Filippine, per l’appunto, e ancora un pasticcio di terre emerse e non, che formavano tutto ciò che è l’Indonesia e dintorni, fino a Borneo, Papua Nuova Guinea, Nuova Inghilterra e così via, mentre dall’altra parte del bacino avevamo soltanto Palau e quelle che Marabel aveva definito “sciocchezzuole”.
Gli abitanti di Guam e Marianne sicuramente se ne sarebbero avuti a male, ma viste dal satellite, quelle terre erano veramente briciole sperdute.
“Ora, procediamo con ordine: salite su e cercate Yonaguni, da bravi”
Obbedii. L’isola di Yonaguni era più a Sud di quello che mi aspettavo, praticamente nei pressi di Taiwan, all’estremo della Prefettura di Okinawa.
Ok, lì sapevamo esserci qualcosa di molto discusso e molto inquietante, checché la scienza ufficiale volesse ridicolizzare i ritrovamenti.
Trovavo ridicolo quell’atteggiamento, perché, se anche la cosiddetta piramide o monumento di Yonaguni non fosse di origine artificiale, è sicuramente una formazione straordinaria e il volerlo a tutti i costi snobbare e cestinare come bufala (ma bufala di che?) è quantomeno idiota. E sospetto. Ci sono fondali sdoganati come meraviglie della Natura che manco si avvicinano a quello spettacolo sommerso così straordinario e poi, beh…io, da piccola, avevo una cotta colossale per Jaques Mayol. E Jaques Mayol diceva che quella roba era stata fatta da qualcuno.
Magari lui non era un geologo, ma io non potevo fare a meno di tenere in considerazione il parere di quello che era il mio mito da quando avevo un paio di anni, ecco!
“Ok, quindi?”
“Quindi, Yonaguni è proprio sul bordino, lì, vedi? Sul bordo di un lembo della ferita, poco dopo c’è lo sprofondamento della placca. Adesso spostatevi lentamente verso Est, Sud Est…”
Obbedii nuovamente, chiedendomi dove volesse arrivare: “Che buffo, ci sono delle linee che sembrano fatte da cingoli di carroarmaAAAAAHHHHHHHHHHHH!!!!!!!!!!!!”
“Esatto.”
Senza accorgermene, osservando da una quota piuttosto bassa, avevo superato la prima parte della lingua, ero appena a Nord Est di Saipan e stavo percorrendo da Sud a Nord la catena che delimitava il bordo Est della lingua sommersa.
“PERLAMISERIACCIA!!!!!!!!” esclamò Franco: “Ma sono linee perfettamente ortogonali! E formano dei…dei quadrati!!! Ma questo è…questo è…COSA DIAVOLO È?!?”

Una lunga, gigantesca pista sommersa, percorreva migliaia di chilometri da Sud a Nord, attraversata da piste identiche, perfettamente ortogonali ad essa, che a loro volta si piegavano a formare dei quadrati praticamente perfetti, spesso dai bordi arrotondati, come cinte murarie di qualche città, per esempio. Sembravano, qualsiasi cosa fossero, fatte per contenere o circondare qualcosa.
Conformazioni straordinarie, come non ne avevo mai viste, come se qualche burlone si fosse divertito a disegnare sott’acqua una gigantesca “settimana”.
Alcuni quadrati erano più irregolari, sembravano, a dire il vero, rovinati, sbrecciati, come mura ciclopiche erose dagli elementi e dal tempo, in quell’area così tormentata.
Qua e là si interrompevano, poi riprendevano pazienti il loro cammino attraverso l’immenso fondale. Restavano visibili, seppure in parte attenuate da strati sabbiosi, fino alle prossimità delle coste Giapponesi, per buona parte della depressione che in linea retta condurrebbe fino a Tokyo.
Alcune aree, mi accorsi, erano “bianche”, come non esistessero immagini ufficiali o, volendo cadere in un attacco di bieco complottismo, come se il vero aspetto dei fondali fosse stato cancellato.
Dovevo avere torto, però: se qualcuno avesse avuto interesse a rendere invisibile qualcosa, là sotto, avrebbe coperto anche le linee che stavamo osservando.
“Peccato” intervenne la voce di Marabel: “Un paio di anni fa ce n’erano molte di più ed erano molto più nitide. Vedete? Queste immagini sono recentissime, sono state appena acquisite, le mie sono un po’ più vecchiotte. Salvatevele, ragazzi, perché la prossima volta che passerete di qui, potreste non trovare più granché”
Ecco.
“Guarda questa!” esclamò Franco, che era ammutolito fino a quel momento: “Sembra un’autostrada per giganti! E…prosegue lungo il Pacifico, dritta come una highway!”
“Dove, dove?”
“Ovest di Saipan, prosegue fino a…ad una certa isola Wake. Diventa sempre meno visibile, ad un certo punto, ma poi si rievidenzia avvicinandosi a quell’isola. E c’è un pezzo che sembra, insomma, non può essere, ci saranno movimenti, correnti, come può essere così regolare?”
Cercai l’Isola Wake e poi tornai indietro, notando che faticavo a tenere d’occhio la linea, per un certo punto, poi mi accorsi dell’anomalia citata da Franco: “Sembra fatto con una retina di metallo, eh?” era una specie di pista che si discostava leggermente dalla linea principale e, a sua volta, era solcata da linee perfettamente regolari che formavano minuscoli rettangoli che svanivano nella sabbia circostante. Appena al di sotto dei rettangolini c’era una forma, un rilievo o un’asperità del fondale, che ricordava in modo curioso la famosa faccia di Marte. Abbassandomi, però, perdeva di nitidezza e diventava una forma irregolare.
Forse era una coincidenza, curiosa, ma coincidenza.
Franco doveva averci preso gusto, perché, mentre io me ne stavo lì in contemplazione dei rettangolini e salvavo immagini, lo sentii imprecare come un carrettiere: “Ragazze, io non so se sto soltanto dando i numeri, ma…spostatevi verso il Sud America, a Sud Ovest delle Galapagos. Ci sono alcune zone scure, che subito potrebbero far pensare a città, ma se scendete, non so, se si tratta di aree urbane sono state letteralmente sciolte da qualcosa, perché sembra fuoriuscita magmatica, anche se stranamente regolare e stranamente in mezzo al nulla. Stavo controllando, ad Est della roba che sembra tipo le piste di prima, ma anche lì l’andamento è strano, sia per essere naturale, sia per essere artificiale: sembra magma raffreddato molto rapidamente, ma crea un rettangolo che pare tirato con la squadretta.” Lo trovai, era enorme, più grande dello stato di Amazonas in Brasile “Ma non è quello che mi ha colpito, ma l’astronave!”
“L’ASTROCHE?!?” strillai.
“Eva, guarda appena a Nord del segmento superiore del rettangolo” ok, c’ero.
“C’è una linea che forma un angolo acuto con il perimetro del rettangolo, ma è più curva delle altre, ci sei?” c’ero.
“Bene, ora scendi, non lo vedi? C’è una forma, sepolta sotto la sabbia. Sembra uno shuttle, cacchio!” lo vedevo.
La sabbia, migliaia di anni di sabbia marina sottilissima, si era depositata su qualcosa. Se fosse una formazione naturale o meno era impossibile da definire, ma era lineare, perfetta, elegante, del tutto priva di spigoli o irregolarità. Qualcosa di affusolato che terminava con un’ogiva o il musetto di un aereo.
Dall’altra parte, al fondo, più appiattito rispetto all’altra estremità, c’erano due formazioni regolari, come due piccole ali di coda.
Un’illusione? O qualcosa di reale, di decisamente anomalo? Se ne stava là, adagiato ad oltre tremila metri di profondità, in silenzio. Discesi fino ad un’elevazione di una settantina di chilometri, tanto da vedere il movimento delle onde, e mi accorsi che, come è naturale, l’immagine si faceva meno nitida, tendeva ad appiattirsi e sparire nello sfondo, ma, sopra quello che avrebbe potuto essere uno scafo, si intravvedevano ancora delle piccole linee quadrate, come una griglia.
Non sapevo cosa potesse essere, ma mi diede un profondo senso di malinconia e di meraviglia, come andasse a smuovere dentro di me qualcosa di atavico e dimenticato.
Mi allontanai con riluttanza, non prima di aver salvato alcune immagini da diverse altezze, con la sensazione di aver lasciato là sotto qualcosa di straordinario, qualunque cosa fosse.

“Salite verso Panama” disse al mio fianco la voce sommessa di Marabel: “Cerca Coco Island”
Scorsi rapidamente verso Nord e trovai l’isoletta, che risultava essere un villaggio vacanze per varie specie di squali. “A destra” disse Marabel.
“Ma è una meraviglia quel posto, sembra un’isola dei pirati!” protestai continuando a scorrere le immagini. “Effettivamente…”
“Eh?”
“Isola del Pirata Morgan. C’è una pietra scolpita che ne porta il nome, anche se è di metà ottocento. Ancora oggi c’è chi cerca il tesoro, ma per ora l’isola è un tesoro dell’umanità per l’ambiente e la biodiversità endemica. Ti piacerebbe”
No, non che mi sarebbe piaciuta, mi piaceva e basta! Sbuffai e mi concentrai sulle immagini satellitari: “Ehi, ma quello cosa sarebbe?”
“Eh, non lo so, bambina, prova a dirmelo tu”
Ancora quelle apparenti piste, ma all’improvviso le linee rette e regolari formavano una figura complessa, formata da un triangolo intersecato da altre forme.
Le linee che formavano il triangolo principale sembravano strutture lisce, come barre metalliche, adagiate sul fondo da cui si distaccavano come in rilievo. Su una, verso l’estremità, sembrava assurdamente esserci una borchia. Mi avvicinai fino a trentasette chilometri di elevazione: la borchia era perfettamente regolare, tonda, attorno si formava un piccolo controrilievo sabbioso, come un riporto attorno ad un affossamento, proprio come si sarebbe formato se ci fosse stata una vite collocata nel suo alloggiamento, con un piccolo vuoto attorno.
Per quanto scendessi, per quanto tutto il resto si facesse più evanescente e confuso, quello rimaneva nitido e regolare, come tirato col compasso, anche a poco più di venti chilometri. E le proporzioni erano gigantesche.

“Bello, vero?” commentò una voce suadente al mio orecchio, si che mi trovai praticamente appesa al lampadario dallo spavento: “Non-puoi-arrivarmi-alle-spalle-all’improvviso-quando-sono-così- concentrata!!!!” strillai.
Lei rideva della grossa, piegata in due sul mio divano.
“Su, ragazzi, seri!” disse quando riuscì a smettere di ridere: “Le cose che avete visto sono una piccola parte di ciò che si può, per il momento, scoprire gironzolando con questo programmino. Non so fino a quando, ma con l’osservazione satellitare dei privati, negli ultimi anni si sono fatte parecchie scoperte, alcune ufficialmente utili e rese pubbliche, altre…no.
Alcuni ricercatori indipendenti, dei quali purtroppo, spesso non è possibile verificare la serietà, lamentano situazioni bianche in molte aree del pianeta, soprattutto sui fondali e ai poli.
Le spiegazioni ufficiali sono che non esistono immagini di quelle zone, che i satelliti non passano, ma spesso ci sono immagini dettagliate delle aree confinanti, come da qui a lì, per cui le spiegazioni non sono convincenti, ma questo non è affar nostro. Non mio, perlomeno. Non adesso.
Invece, proprio alcune settimane fa, sono stata contattata per immagini a Sud Ovest delle Canarie, dove appaiono piste simili a quelle che abbiamo osservato stasera, ma perfino più precise e una struttura rettangolare, suddivisa in linee perpendicolari tra loro all’interno, che molti hanno un po’ frettolosamente ribattezzato “Atlantide”.
Il problema è che, se da una parte un sacco di ignoranti retrivi vogliono a tutti i costi eliminare qualsiasi cosa esuli dal pensiero ufficiale e consolidato, come abbiamo più volte ripetuto, dall’altra un altro sacco di invasati, sognatori e persone in buona fede semplicemente troppo entusiaste, finiscono per ingarbugliare ancora di più matasse su matasse, ma!” si interruppe alzando l’indice: “Alcune cose interessanti effettivamente vengono alla luce. È recentissima la scoperta da parte di un team brasiliano - giapponese di rocce  di granito a circa seimilacinquecento metri di profondità al largo del Brasile, in pieno Atlantico. Si tratta di rocce di un tipo che non esiste nelle profondità marine, a meno di…esserci arrivate in qualche modo. Insomma, per i ricercatori è chiaro che quelle rocce, un tempo, facevano parte di terre emerse, un’isola o qualcosa di più grosso.
Fino a poco tempo fa si riteneva che la dorsale medio atlantica fosse una catena in fase di emersione, mai emersa prima, se non per piccoli tratti, quali Azzorre, Canarie, Capo Verde, invece, a quanto pare, le cose sono andate diversamente. Ci sono anche molti interrogativi sull’Antartide, per questo, come sicuramente saprete”
“A parte le carte di Piri Reis?” domandai elettrizzata.
“Assolutamente si! Da studi recenti risulta chiaro come l’Antartide si sia congelata in epoche moderne, almeno in termini geologici, e che sotto le calotte ci siano situazioni inaspettate, tra cui laghi subglaciali di grande estensione, grotte e cavità che potrebbero spiegare molte cose sulla storia del nostro mondo o almeno su una parte. E, recentemente, alcuni alpinisti estremi hanno testimoniato di aver visto emergere cose strane dai ghiacci.”
“Quanto strane?”
“Boh, piramidi, pare.”
Silenzio. Mi tuffai a cercare, ma Marabel mi fermò: “No, è zona bianca. Ci hanno già provato in parecchi”
Storsi il naso delusa: “Ma se fosse vero, se davvero ci fossero delle cose del genere in Antartide, potrebbero essere quello che lui cercava, anche se parlava del Nord…non potrebbe esserci un errore, non Nord, ma Sud, tanto a Sud da sembrare Nord? Freddino? Sepolte dai ghiacci, invece che tra le foreste, remote, dimenticate e…eh?”
“Uhmmm”
“Si?”
“Mai sentito parlare delle piramidi Bosniache?”
La guardammo come due ebeti. “No, ma ho sentito parlare di quella di Parigi” buttò là Franco.
Marabel gli fece una pernacchia: “Da alcuni anni un ricercatore sta studiando un sito in cui sono presenti tre colline dall’aspetto quantomeno interessante. Come è logico le colline sono coperte di vegetazione, ma vi si trovano cunicoli artificiali che si insinuano al loro interno, ma non è questa la stranezza: la più grande delle colline, infatti, ha un aspetto assolutamente regolare, con spigoli perfettamente delineati e dalla forma perfettamente piramidale. Le altre due sono meno precise, ma se anche soltanto la più grande fosse effettivamente come sostiene il ricercatore, sarebbe una scoperta straordinaria.
Il problema è quest’uomo è contestato e tacciato spesse volte di millantare scoperte inesistenti, viene definito un ciarlatano ed impostore, e si sono verificate situazioni che danno parecchio da pensare. Lui, tempo fa, depositò un documento in cui citava una serie di archeologi e ricercatori di diverse nazionalità, sostenendo che tutti costoro avevano appoggiato la sua ricerca e riconosciuto i risultati portati a favore delle teorie, ma, quando vennero interrogati in proposito, tutti, senza eccezione, negarono di conoscerlo o avergli mai parlato.
Ora, se questo signore non è totalmente stupido, è strano che porti a proprio sostegno una documentazione con nomi e cognomi di una serie di persone, sapendo che la prima cosa che verrà fatta sarà contattarli per verificare, no?
Le persone che lo hanno conosciuto sostengono che confidasse moltissimo nelle conferme dei ricercatori da lui citati, fosse entusiasta di poter portare a testimonianza il loro appoggio e che alla negazione di tutti, abbia avuto un vero e proprio crollo, almeno sul momento. In seguito, ha deciso di continuare testardamente per conto suo, con un notevole spirito di resilienza.
In questi anni, checché la scienza ufficiale e i vari debunkers ne dicano e continuino a deriderlo, si sono fatte effettivamente delle scoperte interessanti, innegabili.
Oh, beh, c’è chi riuscirebbe a negare perfino l’esistenza del sole, se gli facesse comodo, per cui non mi stupirei, ma…
I rilievi iniziali davano queste piramidi come risalenti più o meno all’ottomila avanti Cristo, ma la data continua a spostarsi all’indietro, fino circa al ventinovemila.
Una delle caratteristiche è che sembra esserci una particolare emissione di energia dal vertice della collina principale.”
“Perlamiseriaccia!!” strillò Franco, che, mentre io ascoltavo a bocca aperta, aveva provveduto a distrarsi e cercare sul web: “Ma soltanto un idiota integrale negherebbe a priori questo po’ po’ di roba! Voglio dire, è quasi impossibile che una struttura simile sia naturale, si sono scoperti tumuli, necropoli e città per roba molto meno evidente!”
Intanto anche io ero andata a cercare: “È enorme, Marabel” dissi fissando le foto: “Qui parla di quattrocento metri! Eppure, Franco ha ragione, non solo è la forma a dare nell’occhio, ma anche come e dove si trova. È una collina piantata lì in mezzo in modo quantomeno sospetto, perché a nessuno era mai venuto in mente prima che a questo signore?”
“Le altre mi sembrano meno sospette, almeno a prima vista” commentò ancora Franco, al di là dello schermo: “Però ne basta una, si, quattrocentoventi metri, dice qui. E pare che i rilievi diano effettivamente delle anomalie energetiche. Ah, e poi ci sono le palle!”
Io quasi finii spiaccicata contro il tavolo, Marabel scoppiò a ridere: “Si, sono molto strane e gigantesche, non è vero? Ne stanno uscendo parecchie.”
Si trattava di enormi rocce perfettamente sferiche e levigate che si trovavano nei dintorni del complesso, a volte sepolte a volte, mi parve, nei cunicoli artificiali, comprovatamente artificiali, là intorno.

“Si stanno trovando costruzioni di questo tipo in molti luoghi del mondo, ragazzi, ma per lo più vengono negate o passate sotto silenzio, a meno che non siano culturalmente accettabili.
Potrete divertirvi a cercare in seguito, ma ora penso sarebbe meglio non perderci troppo. Non eccessivamente, se possibile, che ne dite?”
“Si, ma poteva essere quella la Piramide d’Oro di Kiya?” domandai ansiosa, come se lo scoprirla ora, nel ventunesimo secolo, avesse potuto cambiare qualcosa.
“Forse. Ma forse no. Per anni  molti ricercatori alternativi, tra cui il nostro criptoarcheologo, hanno ipotizzato una piramide di Cristallo sul fondo dell’Altantico, in un’area corrispondente al famoso triangolo delle Bermude. Ci sono strutture molto strane, là in fondo, visibili, almeno per il momento, dai satelliti, che ricordano quelle che abbiamo evidenziato nei pressi di Coco Island”
Franco stava salvando pagine e foto a raffica che poi mi spediva via skype con una rapidità prodigiosa.
“D’altra parte…” continuò lei: “Era il novantadue…una notte ricevetti una telefonata da Robert. Era in Alaska per un’indagine sulla sparizione di alcuni bambini Inuit nell’area di Anchorage, tanto per cambiare. Chiamava da una cabina, per essere sicuro di non essere intercettato. Disse che c’era stato qualcosa, nei giorni precedenti, un test nucleare sotterraneo in Cina, che aveva smosso parecchio anche lì in quella zona. Dopo un paio di imprecazioni in Cheyenne e una giaculatoria sulle porcherie atomiche delle grandi potenze, disse che l’esercito aveva mandato delle squadre in una zona piuttosto remota, a Nord di Denali, perché stava succedendo qualcosa e i vecchi Inuit parlavano di spiriti malvagi. Ci raccontò che, con alcuni amici Nativi era andato in esplorazione, ma la zona era completamente militarizzata, zeppa di soldati in mimetica e armati, ma erano riusciti a vedere, o meglio, intravvedere, qualcosa di sconvolgente”
“Cioè?!?”
“Beh…dai ghiacci emergeva una piramide.”
“Ah.”
“Nei giorni seguenti, Robert e alcuni amici Tlingit molto cocciuti, cercarono ripetutamente di scovare notizie e infiltrarsi nell’area controllata, ma nonostante la loro abilità a muoversi su quei terreni, non riuscirono ad avvicinarsi: vennero fermati, si finsero cacciatori, ciononostante subirono interrogatori e controlli che avrebbero insospettito un bradipo in profondo letargo.
Vennero rilasciati solo quando un ragazzo, uno studente del gruppo, iniziò a dire che, poiché non erano bracconieri e non erano in un’area protetta, il comportamento dei soldati era molto sospetto. Per un attimo temettero li avrebbero fatti sparire, ma vennero rilasciati poco dopo, accompagnati in jeep a parecchi chilometri con l’ordine di non avvicinarsi o, in quel caso, non avrebbero più potuto raccontarlo.
Ancora oggi, mi risulta la zona sia militarizzata e, anche in quel caso, su google earth, non troverete nulla, o meglio, non si vede nulla: tutta l’area è bianca.
Robert tornò a Boston pochi giorni dopo, ma mesi dopo, verso novembre, ci chiamò dicendo che un telegiornale in Alaska aveva mostrato un servizio in cui si parlava sia dell’esperimento nucleare che del ritrovamento della piramide. Ovviamente, in seguito, è calato il silenzio su tutto, fino all’anno scorso, quando una giornalista di frontiera ha iniziato a fare ricerche su successivi test nucleari e il ritrovamento, o sospetto tale, di almeno altre due strutture. La donna le ha nominate “Black Piramids”, ma come potete immaginare, è stata derisa e tacciata di stupidità e creduloneria, nonostante una carriera di tutto rispetto e la vittoria di un Emmy.”

Eravamo a bocca aperta. Deglutii un paio di volte, cercando di fare ordine nella mia testa: Antartide, Alaska…nonostante potesse sembrare fantascientifica l’esistenza di strutture del genere in fondo a qualche oceano o nell’Europa Orientale era intellettualmente accettabile, ma l’Antartide e l’Alaska, forse più ancora la seconda, avevano qualcosa di totalmente scioccante.
E poi avevamo una testimonianza diretta, o almeno quasi diretta. Quattro uomini arrestati per essersi recati con un paio di fucili in un’area di caccia, giusto un po’ fuorimano, interrogati come nei più classici film di spionaggio, per qualche motivo mi sembravano una prova maggiore di una testimonianza oculare.
“Guarda, sora, foto fatte da alpinisti in Antartide” disse Franco con voce sommessa, quasi roca, e stranamente seria.

Una montagna. Strana, ma, dalla semplice foto, non avrei potuto giurare che ci fosse qualcosa di non naturale. Un’altra immagine di un piccolo monte totalmente ricoperto di ghiacci, ancora stranamente, molto stranamente, perfetto. Troppo.

Cercai un sacchettino di liquirizie morbide alla violetta e ne infilai in bocca quattro o cinque: quella roba gommosa aveva il potere di farmi da antistress, forse perché mi costringeva a stare attenta a dove infilavo i denti cui i bottoncini tendevano a restare indissolubilmente appiccicati.

“Non ce la faccio” lamentò Franco dall’altra parte dello schermo: “Ho bisogno di una pausa, di qualcosa di più…di più normale. Anzi, prendo qualcosa per il mal di testa”
Non aveva torto, anche se io avrei voluto andare molto più a fondo, ma avevamo tre giorni e un pezzettino piccolo, ormai.
Vero, al Faraone restavano pochi mesi di vita, ma avevo la sensazione che sarebbero stati pregni di informazioni e colpi di scena.
Rigirai pigramente il cucchiaino nel bicchiere vuoto: “È che io non voglio veder morire quel ragazzo…” bofonchiai.
“Lo so” fece Franco.

Restammo zitti tutti e tre per un po’ a riflettere. Erano le dieci. Entro un paio di ore, forse meno, ce ne saremmo andati tutti a nanna: forse potevo rimandare la morte del Faraone chiacchierando d’altro.
Feci mente locale: mi venne in mente che Marabel stava ricordando dal Cairo, un paio di settimane dopo la visita alla Valle dei Re. Con lei c’erano i suoi, Maggie, il suo compagno archeologo, e l’ipnotista.
Un bel gruppetto, mi sarei venduta volentieri la mamma per farne parte. Trovando qualcuno tanto masochista da comprarsela, ovviamente.
“Insomma…tornando al Faraone, il giorno in cui ti raccontò delle spedizioni era più o meno quando?”
“Più o meno, vediamo…poco più di un mese dopo la perdita della bambina. Vedi, si susseguirono tante di quelle cose, in quel periodo, in modo così frenetico, da non lasciare alcuno spazio attorno. Per questo la famosa missione verso Hatti non ebbe mai luogo: lui venne dapprima bloccato dal consiglio di reggenza, come ci aspettavamo, e a causa di tutti quegli eventi non poté mettere in atto il piano B.
Si era indebolito molto dopo la faccenda della colonna, ma l’ultima perdita gli diede un colpo ancora peggiore: se lo aspettava, come se lo aspettava sua sorella, come tutto l’Egitto, ma era comunque sua figlia. Per quanto preparato, si sentiva sgretolato dal dolore, dal senso di perdita. Poi, quelle notizie riguardo all’incapacità delle persone inviate a cercare per lui una via di guarigione…era schiacciato, davvero.

È buffo, il mondo intero inneggia alle piramidi, ma lui non le amava. Erano là, ne conosceva benissimo l’esistenza, sono abbastanza sicura che sapesse molto più di quanto non dicesse, ma, quando mi capitò di essere con lui mentre passavamo da quel sito, mi accorsi di una smorfia di fastidio.
Credo fosse il secondo anno del suo regno, quando accadde: stavamo tornando verso Waset. Passammo proprio davanti alla Sfinge, che era bella libera dalle sabbie e, più indietro, c’erano le piramidi mezze coperte, perché il bisnonno, in sogno, aveva avuto l’ordine di liberare il Leone, non le tre montagne. Però, si, erano ben visibili, soprattutto il lato esposto verso la Sfinge. Passando tutti, istintivamente, ci voltavamo a guardare quella statua imponente dallo sguardo puntato su di noi e, naturalmente, anche i silenziosi monumenti alle sue spalle, ma lui no. Lanciò una fugace occhiata alla Sfinge, quasi ad assicurarsi che fosse tutto a posto e, quando i suoi occhi incontrarono le piramidi, fece una smorfia e si voltò dall’altra parte.
Non gli chiesi perché, se non gli piacessero o cosa, ma mi colpì e, negli anni seguenti, un paio di volte in cui ero con lui durante il passaggio, osservai lo stesso comportamento: sembrava infastidito.
Non le nominò mai, finché non ne ebbe necessità o perché cercava qualcosa che avrebbe potuto essere là”
“Lo Djed!” conclusi.
“Non solo, c’erano stati altri argomenti, in precedenza, credo qualcosa che aveva a che fare con restauri in quell’area, o qualcosa del genere. So che se ne era occupato frettolosamente, delegando a qualcun altro, qualche visir, la faccenda. Sapevo che non aveva un buon rapporto con quelle tre cose e non facevo domande.”
“E tu?” intervenne Franco: “Mah, quando vi passai, o meglio, al nostro ritorno ad Al-Qāhira, durante quella permanenza, decidemmo di andarci: non per la nostra ricerca, a dire il vero, ma perché non puoi fare dei viaggi in Egitto e non andare a buttare un occhio a Giza, no? È praticamente blasfemia!
Come vi ho già detto, però, non provai sensazioni particolari. Mi resi conto che qualcosa non quadrava, mentre ancora eravamo piuttosto lontani, così l’archeologo e mio padre pensarono fosse per via della copertura bianca, che oggi non esiste più. Non so, non avrei saputo dirlo, anche se, nella mia mente, le piramidi sotto il sole mi facevano bruciare gli occhi, presumibilmente perché dovevano riverberare molto la luce.
Marabel riteneva scientificamente straordinarie quelle costruzioni, anzi, tutto il sito, ma Iset no, lei avrebbe voluto andare via, fare altro, così, nella mia interezza, mi sentivo parecchio infastidita.
Mi chiesero se volessi prenotare per un paio di giorni dopo, per una visita guidata all’interno e io acconsentii per non fare la guastafeste, ma non me ne poteva fregare di meno!
Contemplavo le mie sensazioni cercando di analizzarle, come dal di fuori, sapete, ero piuttosto incredula per quel che sentivo. Non mi raccapezzavo, non erano sensazioni normali.”

Io non ero mai stata in Egitto, ma le Piramidi mi avevano sempre affascinata, come penso succeda al novanta per cento e oltre dell’umanità, ma Franco c’era stato e anche lui non riusciva a raccapezzarsi per le emozioni, o non emozioni, di Marabel in quel frangente: “Non è che ti infastidivano perché il tuo inconscio sapeva, fin da prima, che non avevate trovato quel che cercavate?” azzardò.
“Beh, ci pensammo anche noi, sul momento. Vedi, purtroppo mi è difficile raccontare tutto per filo e per segno in ordine cronologico, anche se ci provo. Andammo alle Piramidi prima della seduta che fece riaffiorare quel ricordo, quindi, quando questo si manifestò, pensammo di aver trovato il nòcciolo, il perché mi fossero indigeste, ma non era questo, almeno non solo.
Ricordi, Eva, il sogno di anni prima, quando lui e io osservavamo le Piramidi ancora in costruzione?”
“Si, sovrintendevate la costruzione e c’era già la Sfinge, che era là da parecchio e tu ti eri stupita del fatto che l’aspetto del posto fosse cambiato come clima”
“No, Eva, non sovrintendevamo affatto la costruzione! Lui e io eravamo nel folto della vegetazione, che si arrestava appena davanti a noi e, invece di esserci una grande radura, o campi o prati, come si potrebbe immaginare se fosse stato semplicemente disboscato, c’era un territorio desertico e io dissi: “Ma che cosa hanno fatto? Era tutto verde quando siamo stati qui la prima volta”, ricordi? Che cosa hanno fatto. Loro, chi costruiva le Piramidi, doveva aver fatto qualcosa di sbagliato, di male.
Noi osservavamo e basta, non mi meraviglierei se avessimo osservato di nascosto, sai? Loro. Noi e loro, in contrapposizione”
Mi si accese improvvisamente una lampadina: “Le serpi!” esclamai. “Scommetto che Aye, invece, andava matto per le Piramidi, eh?”
Lei ridacchiò: “Ah, matto non saprei, a dire il vero. È molto difficile dire per che cosa Aye andasse matto, a parte per se stesso e il potere, ma non ricordo, non ricordai mai, qualcosa di specifico almeno per quello che lo riguardava. Invece, chi non perdeva occasione per recarsi in quel sito, era Tey con le sue dame e la nipotina.
Non so se ad Ankhesenamon fregasse qualcosa, ma andò con lei diverse volte, con la scorta di alcuni uomini del Generale, forse una volta perfino con lui stesso.”
Non mi stupiva, non mi stupiva affatto questa cosa.
“Sua Maestà non andò mai?” scosse la testa: “No, lo escludo. Una volta eravamo sulla Barca Reale e ci fermammo. Tey discese con una piccola carovana di dame, servitori e qualche soldato, noi restammo sull’acqua, al fresco. Ho questa visione di lui appoggiato alla balaustra della barca che osserva l’insieme del nobile corteo e poi spazia su tutta quell’area. Aveva un’espressione intensa, distante, triste. Molto triste. Quasi spaventata.
Io mi avvicinai e gli presi la mano, senza dire nulla. E lui strinse la mano nella sua e chiuse gli occhi. Sentivo piangere dentro di lui. Non c’è altro nella visione, non si manifestò mai altro e non so se io fossi al corrente di cosa lo turbasse tanto oppure no.”

Tacque e noi aspettammo. Franco aveva sistemato il pc su qualcosa di rialzato, così ora stava esattamente davanti allo schermo. Era inquietante.
“Cioè” intervenni: “Pensi che a turbarlo fosse…quella cosa dello Djed? Che già anni prima lui avesse in mente di trivellare le Piramidi per vedere se dentro c’era la sorpresa?”
Franco alzò gli occhi al cielo, con un versaccio di profondissima disapprovazione. Forse di sdegno è più appropriato, profondo, infinito sdegno.
Marabel invece ridacchiò: “No, o meglio, può darsi che già all’epoca volesse trovare quel congegno di un’epoca remota, ma non è questo, non credo, no. C’era altro.
Comunque, noi, in giorno dopo, andammo alle Piramidi e diverse persone che avevano prenotato la visita uscirono dopo pochi passi, come succede spesso. Le guide avvertono, naturalmente, ma la gente non pensa di poter essere vittima davvero del senso di claustrofobia e soffocamento che effettivamente può cogliere là dentro.
Maggie non soffriva di claustrofobia, inoltre non era sola e questo, in genere, è un elemento di maggior sicurezza per chiunque. Appena entrati, però, iniziò a sentirsi male. Strinse i denti, quando le guide fecero uscire quelle altre tre o quattro persone che stavano patendo, e continuò la visita.
Io non so, non ricordo praticamente nulla. Si, ricordo che era buio e stretto, che scendevamo e salivamo, che le guide parlavano, che la gente esclamava sottovoce.
Non mi sentivo male, ma non vedevo l’ora di uscire e avevo dei momenti di sbandamento, come di vertigini.
Una volta fuori, parecchio dopo, ci precipitammo a cercare un locale ombroso dove infilarci a discutere. Per fortuna, appena fuori dal complesso, dalla parte della Grande Piramide, c’è un resort con tutto quanto di confortevole per i poveri turisti ricchi e indifesi, così, poco dopo eravamo pronti a scambiarci impressioni.
Mamma giurò che non sarebbe mai più andata in un posto simile e che, improvvisamente, sentiva il desiderio di essere cremata e sparsa nel vento, papà fissava il vuoto inebetito, forse incredulo di trovarsi nuovamente sotto il cielo, l’ipnotista tracannava acqua con ghiaccio per una mandria di cammelli, l’archeologo, che c’era già stato, aspettava pazientemente con qualcosa di colorato con frutta e ombrellino. Poi c’eravamo Maggie e io.
“Allora, Mary? Che è successo?” niente, risposi.
Non era vero, ero diventata molto pallida e nervosa, ma presumo che il niente fosse riferito alle mie aspettative. Voglio dire, non avrei nemmeno saputo dire cosa mi aspettassi, ma evidentemente, qualsiasi cosa fosse, non era ciò che era successo.
Io, ogni volta che facevo qualcosa, che mi impegnavo in una ricerca, volevo risposte su di lui, su quel tempo, sulla sua e nostra vita, non su altro. Il resto, l’intera eternità, tendeva a non interessarmi. Non erano che fastidiosi dettagli, sassolini che mi trovavo su una strada che avrei voluto sgombra da tutto, ma non era quello che succedeva, come non succede ora, in questi giorni in cui parliamo e, spesso, invece che andare avanti nella vita di Sua Maestà, ci troviamo catapultati in altre storie, in altri tempi, in misteri che potrebbero non entrarci nulla con tutto questo e, invece, probabilmente contengono più risposte di quante ne immaginiamo tutti e tre insieme.
Allora io ero come voi adesso: impaziente e cocciuta.”
Si fermò per valutare le nostre reazioni e noi, come bambini colti con le mani nella marmellata, restammo zitti e offesi.
“Maggie non fu soddisfatta della mia risposta e mi soppesò attentamente: “Non è successo niente o non è successo quello che desideravi?” chiese. Cominciai a riflettere, attenta al clamoroso mal di testa che mi stava scoppiando. Un giovane cameriere si avvicinò con una brocca di tè alla menta: “La visita alla Piramide vi ha scombussolati, signori?” chiese.
Non ci chiese se fossimo stati o meno là dentro, nonostante la piana fosse straripante di turisti accaldati e carichi di macchine fotografiche che non erano, né forse sarebbero mai, entrati nel grande monumento. Lo diede per scontato, o forse avevamo la faccia tipica di chi ne è appena uscito vivo.
“Vi consiglio questo” disse posando la brocca e i bicchieri dalle decorazioni dorate sul tavolo: “Vi farà bene” sorrise, si inchinò profondamente e si allontanò. Ero sicura che stesse ridacchiando.
“C’è qualcosa, là sotto” dissi senza pensarci. Poi mi fermai, stupita delle mie stesse parole.
“Dove?” saltò su l’archeologo: “Là, là sotto la Piramide, le Piramidi. La Sfinge…là sotto! È vuoto!”
Mi guardavano. Nessuno disse niente, ma cinque paia di occhi mi fissarono interrogativi.
E io non sapevo che accidenti dire.
“Io non ho parlato!” esclamai.
“Cosa c’è?” mi incalzò Maggie.
“Niente, io non so, non ho parlato, giuro! E non guardatemi così!”
“Vuoi fare una sedutina? Andiamo in albergo e…”
“NO!” esclamai di nuovo. Il cameriere stava passando nuovamente davanti al nostro tavolo, mi sorrise condiscendente e si allontanò con l’aria di chi la sa lunga.
“Perché non chiedete a lui? Probabilmente ci è stato decine di volte!”
Maggie prese tempo: “Le Piramidi non sono l’inizio di qualcosa” disse socchiudendo gli occhi: “Sono la fine. E sono molto più grezze di ciò che era prima. Eppure, ciò che contengono, i segreti, sono così immensi che mi fanno sentire un microbo.”
Sospirò: “Non credo che la gente che si sente male là dentro, soffra di claustrofobia, né patisca lo sbalzo termico. Sono convinta che patiscano delle correnti di qualche energia che non si è, ufficialmente, riusciti a misurare, ma che si muovono lungo la struttura e al suo interno, direi in modo circolare. No, non fraintendetemi: è logico che una costruzione con un vertice cui convergono le linee debba avere un punto di emissione, di qualsiasi energia si tratti, ma c’è un movimento circolare inteso come salire, discendere, tornare. Non un movimento a senso unico, ci sono cose che si muovono a spirale e ritornano, contenute nel solido. E, si, vengono dalle profondità della terra, non da sopra.”
La fissavo a bocca aperta. Io avevo avuto la sensazione di cadere, come se, sotto di noi, non ci fosse il terreno solido che vedevamo, ma un vuoto. Per un attimo avevo avuto la sensazione di trovarmi a testa in giù.”

“Ma come nella visione! Solo che là eri nella piramide a gradoni, quella nel Pacifico!” esclamai trionfante: “Dunque, voi avete avuto la visione e poi c’era quel tipo gnokko sulla piramide, e dopo vi siete trovati a galleggiare nello spazio in una versione rovesciata della piramide e trasparente, tanto che non sapevi se fosse vetro o una specie di campo di energia. Eh?”
Ero riuscita a trovare le pagine del block notes dove avevo segnato quella parte e ora ero lì che controllavo l’esattezza dei miei ricordi.
“Brava. Quindi, cosa ti viene in mente?”
“Beh, ovviamente che sotto le piramidi, non solo quelle di Giza, ci sia una versione rovesciata che va a formare con quella di sopra una specie di diamante. Ma che funzione potrebbe avere? Ed è possibile che fosse questa la cosa che cercava il Faraone, cioè, che non fosse lo Djed, almeno non come lo intendiamo, con la forma classica, ma che quella forma sia solo una rappresentazione simbolica? Ma poi, scusa, quando la vecchiaccia andava alle Piramidi con la sua scorta personale, che faceva? Entravano? E da dove?”

Marabel scosse la testa: “No, non entravano. Andavano nell’area di fronte a quella di Khafra, che è al centro del complesso, alle spalle della Sfinge e poi lì lei officiava qualche cosa. Io non andai mai, non mi sarebbe interessato e non venni mai invitata, come è logico, ma vedevamo dalla nave il gruppetto là in mezzo. Una delle ancelle di Ankhesenamon disse una volta che erano rimaste là, nell’ombra del Leone a fare delle cantilene e bruciare erbe, poi la Grande Signora aveva sacrificato un capretto.
Non seppi mai altro, ma so che non entrava all’interno di qualcosa, d’altra parte, come abbiamo detto, gran parte delle Piramidi era sotto sabbia. Dubito che, anche degli iniziati dell’epoca, potessero o sapessero come entrare”
“Ma pensi sapessero di quella cosa, della controparte rovesciata?” chiese Franco.
Lei scosse la testa: “Se qualcuno lo sapeva, quello era Sua Maestà. Anche il suo predecessore, suo padre, doveva saperlo, doveva sapere parecchio di più di quello che dava a vedere, solo che non voleva che quelle conoscenze rimanessero, fece in modo di disperderle attraverso questa sua idea di conoscenze democratiche, che non erano tali, ma, al contrario, cancellavano quasi ogni cosa.
Aye era certamente un iniziato, forse anche la vecchia, ma non so quali fossero le loro conoscenze. Sono però certa che non fossero in grado di entrare nelle Piramidi.”
“Se lo fossero stati avrebbero aiutato Sua Maestà?” chiesi io.
“Non avrebbero avuto scelta: se loro avessero saputo come fare, lui lo avrebbe saputo, forse lui lo avrebbe saputo prima di loro. Ma è strano, si, cercava lo Djed, ma non sembrava quello l’obiettivo della sua ricerca, era come se si fosse deciso a cercare là perché non aveva altre opzioni. Era un continuo tentativo di sfuggire da qualcosa di cui, volente o nolente, faceva parte.
In ogni caso, sappiamo che le conoscenze riguardo alle Piramidi, almeno in quel periodo, o erano perdute, o erano inutili, non avendo la possibilità di entrare. Io penso che, se gli Egizi dell’epoca avessero saputo come entrare e come usare ciò che era dentro e sotto, sempre che io abbia ragione e sotto ci sia davvero qualcosa di speculare, non avrebbero permesso alle sabbie di coprirle in quel modo. Avrebbero fatto una manutenzione regolare, si sarebbero occupati di mantenerle il più possibile pulite e agibili, ne avrebbero garantito l’accesso.
Penso quindi che restassero conoscenze teoriche, ma che quelle pratiche si fossero perdute. Poi, dopo l’epurazione, anche la teoria andò sempre più a farsi benedire.”

“Ma allora? Le ricerche cessarono? Come stava lui?”
Marabel rifletté per un po’: “Era stanco. Sfiduciato, si sentiva in trappola, ormai incapace di tenere testa alla corte, almeno a quella parte che gli si opponeva. Anni prima, bambinetto, aveva terrorizzato Maya con un mezzo scherzo su cosa avrebbe fatto di lui in caso di tradimento, ma ora lui era debole e Maya potente e, soprattutto, andava d’amore e d’accordo con il Gran Visir.
Gli era fedele, sia chiaro, ma sappiamo che la sua fedeltà non era assoluta e che sapeva di poterselo permettere.
La cosa buffa è che, in quel momento, il successore del Faraone, non sarebbe stato Aye, e non sarebbe stato il Generale, ma il soldato, la guardia, l’uomo che lo difendeva.
E io ho idea che, sebbene sposato con Mutnodjemet, dovesse essere di sangue non gradito alle serpi. Una volta scoperto che non si trattava di un semplice soldato, di una guardia del corpo, ma di una personalità di spicco, importante a corte tanto da prendere la parola contro il consiglio di reggenza, decidemmo di indagare.
C’era un appiglio: pur senza rendermene conto, lo avevo avuto al fianco per anni e forse potevo ricostruire più di quanto avessimo immaginato.
Scoprii, durante più sedute, che era stato designato come delfino del Faraone proprio da lui stesso e questo ben prima di sposare la sorellina di Nefertiti.
C’era malumore in alcuni, per questo. Negli anni iniziarono a tessere le sue lodi, ma questa non era che politica, come sappiamo, in realtà era piuttosto inviso ai più vicini ad Aye.
Sua Maestà mi rivelò, un giorno, di aver discusso a lungo con lui l’opportunità di dargli proprio Mutnodjemet in sposa, e che entrambi erano arrivati alla conclusione che fosse una soluzione eccellente, non solo per liberarsene, ma perché, in questo modo, l’ufficiale sarebbe diventato genero di Aye e questo avrebbe potuto renderlo bene accetto, metterlo al sicuro.
Non so se il pover’uomo saltasse di gioia all’idea di imparentarsi con quella famiglia, non so nemmeno se la ragazza gli piacesse, ma questo, purtroppo, ha poco a che fare con i matrimoni di stato, non è vero?”
“Beh” azzardai: “Doveva essere belloccia, no? Ci sono ritratti affidabili?”
“Poco, molto poco, però esiste un busto, conservato al Museo di Torino. Penso sia abbastanza fedele, si. E ha, come dire, una certa aria di famiglia, ma non all’altezza della sorella o della nipote. Carina, si, meglio di un calcio negli stinchi.” Rispose.
“E questo rese il nostro ufficiale più apprezzato dalla corte?”
Marabel restò in silenzio: “Apparentemente si. Aye sembrava molto affettuoso con lui e ne era apparentemente fiero, ma so per certo che non sopportava la sua lealtà assoluta al Faraone ribelle.
Probabilmente pensava che, diventato suo parente, si sarebbe ammorbidito nelle sue posizioni, ma non fu così: quell’uomo era incorruttibile. E questo decretò la sua fine” Disse con un filo di voce. “Già prima della sepoltura di Sua Maestà, infatti, Aye si definiva non futuro faraone, ma faraone a tutti gli effetti. Un altro impostore sul Suo trono, come vedete.”
(...continua) 

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