Due parole sul blog

Se pensate che qui si parli di Fate, Elfi e Creature simili, beh, avete ragione.
Quasi.
La verità è che qui la vera protagonista è la Terra, com'è o come avrebbe potuto essere se...Se l'uomo non fosse com'è, se si fosse evoluto diversamente, se le cose fossero andate in un altro modo...

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Su, su, guardate, guardate...

Come Polvere Nel Deserto. Pagina 4

Era frustrante. Sembrava un thriller in cui i protagonisti non hanno via di scampo, qualsiasi cosa cerchino di fare per sfuggire a nemici aracniformi che abbiano tessuto attorno, sopra e sotto di loro, una tela a maglie strettissime e appiccicose.
C’era un Delfino di cui, ancora oggi, nessuno sa niente, scomparso, cancellato dalla storia, come Iset, come chissà quanti altri, non importa quanto fosse importante ed era stato un grande uomo, leale, coraggioso, forte. E poi il nulla.

“Se durante quei settanta giorni quest’uomo scomparve…significa che Aye e compagnia erano riusciti nel loro intento, è così? Per questo terminò la diciottesima dinastia, anche se oggi Horemheb ne è considerato l’ultimo esponente, in realtà era un ponte tra quella e la successiva” disse Franco: “Possiamo definire come vero, ultimo sovrano della diciottesima proprio il Fanciullino?”
“Si, la linea ereditaria terminò con lui. Sua Maestà fu l’ultimo della sua stirpe.
Bisogna ammettere che quella non fu la prima volta che una linea veniva sostituita dall’altra; c’erano stati diversi ribaltamenti della situazione, lungo i millenni, ma mai, direi, così definitivi.
Per esempio, ricordi, Eva, quando parlavamo di Thutmose quarto? Il padre era un tiranno, un faraone di piglio diverso dai predecessori, un narcisista ossessionato dal proprio sé e dalla propria abilità di guerriero, ma, in un modo o nell’altro, a prendere il suo posto fu un uomo così tanto diverso da lui, da far pensare ad un diverso lignaggio.
Purtroppo, dal momento che Amenophi secondo era così determinato a non avere ombre attorno a sé, sappiamo poco o niente di Tiaa, la madre di Thutmose, non sappiamo nemmeno se fosse una sposa secondaria o meno”
“Però pensi che fosse della vostra linea” puntualizzai.
“In questo caso, ammettendo che Amenophi secondo fosse della stirpe di Aye e Tiaa di quell’altra, mi domando, Thutmose non avrebbe dovuto essere avvelenato dalla mescolanza delle due linee, come diceva Sua Maestà?”
Marabel annuì: “Nelle ultime generazioni della dinastia la mortalità dei nobili, soprattutto dei Faraoni, si alza notevolmente e si accorcia in modo impressionante la durata della loro vita.
Per secoli gli archeologi se ne sono domandati i motivi, perché inizialmente erano parecchio longevi, poi, scoprendo e avendo prove della simpatica abitudine all’incesto, ci si è detti che la causa della salute sempre meno florida fosse proprio data dalla consanguineità.
È una cosa molto logica. Anche io ne ero convinta, ne ero convinta all’epoca dei Faraoni, pensate un po’!
Però, vedete, c’è un problemino: per quanto fratelli o genitori e figli, dobbiamo ricordare che i faraoni erano spesso di madri diverse e che queste madri spesso venivano da altri regni, quindi la consanguineità era parziale nonostante tutto e, provenendo da paesi diversi, le mogli sicuramente portavano geni freschi in dote ai loro nobili mariti, che dovevano supplire alle linee vecchie e logore. Poi, per carità, se osservate alcune sculture, soprattutto dell’epoca amarniana, ci sono somiglianze incredibili tra cugini, madri e figlie, nipoti e zii e così via, tanto da renderne difficile l’identificazione, se non c’è una dicitura precisa ad indicarla e, anche in questo caso, uuff!! 
Quante volte uno usurpava l’identità di un predecessore non appena questo fosse finito nella tomba?
Anche gli esami del DNA sono ben pasticciati, visto che tutti erano imparentati e per diverse vie!

Se però vogliamo prendere per buona la spiegazione del Faraone, allora non sarebbe tanto la consanguineità il problema, quanto l’incrocio delle due stirpi.
Il buon Thutmose quarto, se le nostre date sono corrette, regnò all’incirca dieci anni e dubito che fosse molto grande quando salì al trono, poteva essere sui venti, venticinque anni al massimo.
Sappiamo che ci furono campagne militari, sempre verso Hatti, perlomeno per proteggere i confini, ma non è detto che fosse lui a guidarle. In ogni caso, la sua morte è prematura in modo sospetto, in effetti.
Anche Amenophi terzo, nonostante abbia regnato a lungo grazie ad un’ascesa precocissima al trono, a quanto pare non scoppiava di salute, ma la sua linea doveva essere meno inquinata: Mutemuia presumibilmente apparteneva al lignaggio di Kiya e Iset, quale che fosse, e Thutmose padre poteva essere per metà dello stesso lignaggio, quindi la linea doveva essere abbastanza forte da risentire in minor misura del lignaggio avversario

“Insomma, se non fosse stato per Ekhnaton, secondo te, non ci sarebbe stata la fine della dinastia?” insistette Franco.
“Ne dubito fortemente. Thutmose quinto, erede legittimo, era un uomo di tale grandezza e coraggio da rifiutare il matrimonio con la giovanissima cugina e nascondere l’amante di sangue plebeo, sempre che fosse davvero plebeo, naturalmente.
In ogni caso un gesto che, se nella logica dei reali e nobili dei millenni a venire era scandaloso, per un popolo ossessionato dalla purezza della propria razza doveva essere quanto di più sconvolgente, scabroso e inaudito, tanto da rendere la sua prematura scomparsa accettabile perfino per la madre…che non era nota per il cuore tenero, d’altra parte”

 “…Ci starebbe…dobbiamo pensare che nel Principe Thutmose fossero dominanti i geni della linea materna, mentre chiaramente non era così per Ekhnaton, che non la prese benissimo, però” disse sognante Franco.
“Un’altra questione è capire se effettivamente la madre di Smenkhara fosse plebea o se, di nuovo, appartenesse ad una stirpe non esattamente gradita alla Grande Sposa Reale e al di lei amato fratello.”

Era tutto così complicato!
Quel periodo storico è di per sé un caos indescrivibile, ma i racconti della nostra amica lo rendevano davvero da capogiro.
Restammo zitti per un po’, immersi ognuno nelle nostre riflessioni: “Dicevi degli esami del DNA?” bofonchiò Franco dopo un po’.
“Cosa?”

“No, io…senti, stiamo parlando di catene proteiche, di acidi. Gli acidi si sciolgono in molti solventi e le mummificazioni usavano una quantità di robe strane per conservare ‘sta brava gente. E poi sono passati millenni e poi ancora le mummie sono state a contatto con l’aria, per studiarle, e potrebbero esserci state altre reazioni chimiche al contatto con le sostanze usate. E poi, per sbendarli e prelevare i tessuti, estraendoli dalle sostanze di mummificazione, sono stati usati altri agenti chimici. Mi sbaglio?” lei sorrise, sorniona: “Oh, no, non ti sbagli” disse.
“Quindi, io mi domando…ma ‘sta roba è affidabile?”
Marabel prese un respiro: “Lo sai che continuano a cambiare idea e ripetere gli esami decine di volte? Non solo esami genetici, ma TAC, ecografie, tutto quello che hanno a disposizione.
Alcune ricerche sono semplici: se un tessuto è abbastanza integro, allora puoi riuscire a grandi linee a ricostruire un panorama sensato, ma proprio a causa delle parentele è quasi impossibile determinare con certezza l’identità di qualcuno non espressamente dichiarato, oppure una parentela di un preciso livello. Temo non lo sarebbe oggi, con tante somiglianze, figurati.

Con Eva ne abbiamo parlato, comunque, tempo fa: molti ricercatori non esattamente ufficiali ritengono pochissimo affidabili tali test, soprattutto di quelli dati con tanta certezza.
Parliamoci chiaro, Franco: un sacco di risultati li si fa venire per comodità. Ci sono finanziamenti, musei, sponsor, il pubblico, tutti vogliono risultati e, in qualche modo, i risultati arrivano.
Poi si contraddicono.
Passa un po’ di tempo e senti: “Ehi, abbiamo scoperto la verità su…” e tu ascolti e pensi: “Ma non l’avevano già scoperta? Non avevano già questa risposta, non avevano già quella mummia, quell’identità, quella ricostruzione?” te lo chiedi, ma moltissimi non lo fanno, si bevono le ultime notizie cancellando semplicemente le notizie precedenti, entusiasti dei grandi prodigi della scienza.
Oggi è molto semplice con il digitale, no? Non più nuove edizioni di libri, con dispendio di energia e tempo, con il pericolo che, su testi vecchi, si leggano ancora le versioni obsolete. Un click e non se ne parla più. Ricrei la storia a piacimento, dal nulla. E resetti la memoria.”
Mi innervosiva questa cosa, veramente.
“Somma, ci stanno prendendo in giro…” borbottò lo schermo del mio pc.
Marabel non rispose: avevamo affrontato quel discorso in precedenza e sapevo come potesse essere dura in proposito.

“Dove eravamo rimasti?” disse poi riprendendosi.
Io non volevo andare avanti. Avanti era brutto, era malattia, assassinio, morte.
Volevo approfondire e mantenerlo in vita, quel ragazzo. E comunque, eravamo rimasti al Cairo, alle Piramidi e al fatto che a Sua Maestà qualcosa, riguardo a quei catafalchi, non andava giù.
E io avevo un dubbio, da un’oretta a quella parte.

“Siamo al Cairo. Millenovecentottantasette. L’ultima volta stavi negando di aver detto delle cose che avevi detto.”
“Oh, si!”
“E stavi dicendo di quel bell’uomo, il soldato, che fu fatto sparire…insomma, vogliamo saperne di più, no?” il mio schermo stava diventando sempre più petulante.

“Si, ora torniamo a quello, infatti. Vedete, pochi giorni dopo la visita a Giza l’ipnotista dovette tornare a Londra, quindi non c’era molto tempo per delle altre sedute. Decidemmo di farne una, prendere un giorno di pausa e poi una seconda.
Non era una frequenza normale, ma non ci saremmo visti per almeno tre mesi, e io non ero molto convinta di provare di nuovo i metodi di Maggie, così mi sembrò una soluzione: ogni volta che facevo una seduta, questa ci lasciava materiale da studiare per parecchio e noi saremmo rimasti in Egitto fino a settembre. Nonostante l’ostracismo delle autorità locali, potevamo riuscire a trovare parecchia roba.
Ci concentrammo particolarmente su due obiettivi, quella volta: la ricerca di una cura per il Faraone, e l’identità del soldato.
Ora io so che lui era il Delfino di Sua Maestà, ma a quell’epoca ero solo molto stupita per aver scoperto che non si trattava di una semplice guardia ed ero affascinata dalla sua personalità.
Doveva esserci un rapporto di grande intimità con il Faraone, se erano riusciti a discutere in solitudine di quel matrimonio di comodo, della successione, e di chissà quante altre cose!
E poi lui lo aveva appoggiato nel progetto di aiuto ad Hatti.
Mi aveva protetta in più occasioni, lo sapevo. Ero anche certa che fosse lui l’uomo al corrente dell’attentato al convoglio reale, sul fiume, quello che arrestò i cospiratori.
Ogni volta che c’era un pericolo e le cose si risolvevano, lui c’era. Sempre. Solo che, per anni, non mi ero accorta si trattasse sempre dello stesso uomo. Che stupida!

Quel giorno l’ipnotista mi chiese di concentrarmi sulla sua figura, possibilmente durante la famosa discussione riguardo agli Ittiti.
E io mi ritrovai in un luogo che non conoscevo: una stanza in penombra, quasi povera, simile ad un’odierna cantina. Era notte, fuori si sentivano frinire grilli e cicale, c’era un forte odore di limo e una quiete innaturale.
C’era mio marito, accanto a me, e una figura silenziosa appoggiata contro il muro in ombra, di cui non potevo vedere né i lineamenti, né altro che un leggero luccichio di un bracciale al polso sinistro. Qualcosa di vagamente bianco azzurrato mi suggeriva che dovesse indossare un nemes.
Di fronte a me un uomo giovane, dai folti, lunghi capelli ricci a boccoli, indossava un mantello rosso con linee e disegni stilizzati che non riuscivo a riconoscere.
C’era un altro uomo, della stessa etnia, evidentemente, più grande di età, i capelli scuri brizzolati, più basso del giovane, con un grande orecchino d’oro all’orecchio destro, che se ne stava un po’ in disparte.
“Non ci è possibile agire senza dare nell’occhio” stava dicendo l’uomo più giovane. Aveva gli occhi grandi, di un nero profondo ed intenso bistrati di nero a loro volta.
“Abbiamo tentato di intrufolarci in quell’area, ma le guardie sono ovunque e giurerei che non sia per caso! In fondo sono zone piuttosto desolate, la città che esisteva è abbandonata da…” si fermò a cercare un riferimento: “Credo una trentina di secoli”
La parte presente del mio cervello trovò divertente questa informazione: ci trovavamo nel milletrecento avanti Cristo e parlavamo di un qualche posto abbandonato da almeno tremila anni. Gli archeologi avrebbero venduto l’anima, avendocela, per mettere le zampe su simili informazioni.
“La gente del luogo ne conosce perfettamente l’ubicazione, la chiamano la Città Bruciata. A dire il vero abbiamo sentito altre volte definizioni simili, per città scomparse da tempo ancora più antico.
Non so, potrebbe trattarsi di diversi posti cui si sono legate le stesse leggende, avendo dimenticato cosa sia veramente successo” continuò l’uomo.
“Oppure potrebbe essersi trattato di vari siti distrutti da un nemico comune, che aveva il vezzo di incendiare le città sconfitte.” Intervenne mio marito: “Un comportamento poco intelligente, ma che spesso dà ai conquistatori la sensazione di essere invincibili e temuti. E temuti lo sono sicuramente.”
I due stranieri non sembravano convinti: “Noi pensiamo cercassero qualcosa. Chiunque abbia bruciato quella città e, perché no, forse altre di cui abbiamo sentito, forse cercava qualcosa di preciso e adottava quel comportamento.”
“Ma è ridicolo!” intervenne Iset, a sua volta: “Se cercavano qualcosa, incendiare le città è il modo peggiore di trovarla!”

“Non se si trattasse di qualcosa che non può bruciare” la voce veniva dal buio. Mi voltai a guardare.
L’uomo si staccò lentamente dal muro e venne verso di noi.
Era il soldato. Mi accorsi che era più alto di tutta la testa rispetto ai due forestieri: “Luna Nascente” disse con gentilezza: “Se si trattasse veramente dello Djed o di un qualche meccanismo con poteri di guarigione, è probabile che sia fatto di un materiale che non si distrugge con il fuoco, ma, al contrario, che possa essere messo in risalto dal fuoco, forse perché questo potrebbe bruciare dei rivestimenti, in pelle o in qualche altro materiale non sospetto, per esempio. Oppure, perché no, potrebbe attivarsi con un calore intenso. Non possiamo saperlo, ma gli oggetti magici più antichi, quelli che si ritiene siano appartenuti agli déi, hanno strani comportamenti agli elementi, soprattutto al calore”

Immaginai una città in fiamme, la gente che fuggiva per ogni dove, oggetti e case che ardevano e, improvvisamente, un oggetto liscio, lucido, splendente, svettava tra le fiamme, liberato da un travestimento plebeo.
“Ma…” azzardai: “Se quei luoghi, dopo tanti secoli, sono così controllati…allora significa che chi bruciò le città non solo non trovò quel che cercava, ma che non lo si trovò nemmeno dopo.”
Alzai lo sguardo verso il soldato: “E non abbiamo nessuna certezza né che sia stato portato via, né che sia mai stato lì. O che ci siano delle tracce da seguire. Non abbiamo niente!”
I due stranieri mi guardarono rassegnati.
Mio marito, accanto a me, ebbe un gesto di frustrazione, il soldato annuì leggermente, con uno strano luccichio negli occhi: “No, Signora. Non abbiamo davvero nulla.” Ammise.
“Mia cugina era una donna molto saggia” riprese: “Aveva studiato a fondo ogni cosa che potesse riguardare le antiche conoscenze magiche e di guarigione, molto prima che il fratellastro diventasse un re eretico.” Sorrise: “So che sembra ridicolo, vista la sua giovane età, non è vero? Eppure così è. Tutta la sua vita era volta a capire il suo ruolo nel mondo e quello che sarebbe stato il ruolo di quel suo figlio sacro, quando fosse venuto alla luce, e questo fin da quando aveva pochi anni. Ci sono, a volte, persone che nascono consapevoli di avere un ruolo importante, immenso, nel mondo e nel loro tempo. Kiya era così. Sua Maestà è così.
E poi ci sono persone che hanno un ruolo altrettanto importante e non ne sono consapevoli, per quanto l’evidenza continui a sbattere loro sulla faccia”
Mi sorrise e io non capii, ma sentii un riso soffocato alla mia sinistra, dov’era mio marito.
Non me ne curai, presa da altro. “E dunque?”
“E dunque, mia Signora, io non ho dubbi che Kiya avesse nozioni molto precise riguardo a ciò che raccontava, ma so che, dopo il suo assassinio, i papiri e i sigilli che conservava, scomparvero.
Io avevo tredici anni, corsi verso i suoi alloggi e mi fu permesso di entrare dal Generale Paatonenhab, mi gettai verso la nicchia in cui sapevo serbasse i suoi testi sacri, ma la trovai vuota. Fui allontanato, tornai di nascosto nella notte, frugai inutilmente ovunque e nei giorni seguenti frugai nel Meruaton, ma tutto ciò che mia cugina aveva raccolto, i risultati dei suoi studi e ciò che aveva ereditato dal nonno materno, era scomparso.
Sua Maestà e io sappiamo che quegli oggetti esistono, e che sono tanto antichi ed indistruttibili da dover essere ancora da qualche parte. Come la Piramide d’Oro”
Lo guardai sconvolta: improvvisamente l’assassinio di Kiya assumeva un’importanza del tutto diversa. Lui sorrise, un sorriso che, improvvisamente, gli diede un aspetto quasi fanciullesco.
C’era una somiglianza tra lui e il Faraone. Non evidente, soprattutto a causa della fragilità di Sua Maestà e della prestanza del soldato, ma ora, in quel sorriso, rividi per un istante il sorriso dolce e limpido di Kiya e quello di suo Figlio e mi sentii al sicuro.
“La Piramide d’Oro, secondo mia cugina, poteva essere un oggetto molto piccolo, facile da trasportare, un versione minuscola di un’altra piramide simile a quelle che conosciamo, ma non so quali fonti avesse.”
Fece un gesto di fastidio: “Ero un ragazzino ed avevo appena iniziato la mia formazione militare. Pensavo solo a correre a cavallo, duellare, lanciare frecce e sognavo imprese epiche, che stupido! Non davo abbastanza ascolto ai suoi racconti, per quanto interessanti. Mi parlò di un oggetto, un giorno, della cui esistenza era certa. Diceva trattarsi di un piatto, probabilmente di ferro celeste, su cui erano incisi simboli  nel linguaggio degli déi e, disse, trovandolo, si sarebbero potuti trovare gli altri oggetti della conoscenza antica. Era come una specie di chiave, secondo lei. Non mi disse altro, perché arrivò il Principino…” mi guardò intensamente: “Insieme a te, dopo le lezioni di scrittura. Ridevi, perché eri riuscita a farlo stare buono fino a fine lezione e gli avevi impedito di scappare. Dicesti che meritavi una statua alle porte del Meruaton, per questo”
Me lo ricordavo: ero una bimbetta ed ero riuscita ad impormi su quel marmocchio per la prima volta, mi sentivo più importante del faraone e dissi quella stupidaggine.
Scherzavo, naturalmente, Kiya rise e anche il ragazzo che era con lei ebbe una mezza risata molto perplessa. Mi imbarazzai a quel ricordo: lo vedevo per la prima volta e dovette pensare che io fossi davvero molto impertinente.
“Mi sono presentata subito bene, eh?” dissi abbassando la testa.
Lui sorrise, malinconico: “Eravamo ragazzini. Si, pensai che parlavi in modo strano per un’ancella, Luna Nascente, non solo per la tua impertinenza, ma per il tuo linguaggio. Non era il linguaggio di una servetta e, anche se ti impegnavi a mantenere un accento popolare, della foce, non eri molto credibile.” Sospirò a quel ricordo, lasciò scorrere lo sguardo oltre la finestra, sui campi silenziosi di fango: “Non potei più parlare con mia cugina di questo. Morì pochi giorni dopo.”

Era vero. La vidi il  giorno prima, da lontano. Il Principino era corso da lei ed era seduto sulle sue ginocchia, le raccontava, probabilmente, la sua giornata di studio e lei lo cullava nell’ascoltarlo.
Alzò lo sguardo e, con un gesto delle labbra, mimò: “Abbi cura del mio bambino”.
Il mio ultimo ricordo di Kiya, la Sposa Giovane, l’amata, la dolce.
Ora, oltre quindici anni dopo, scoppiai improvvisamente a piangere.
L’ipnotista mi fermò e mi fece tornare al presente. Ero stanca e le cose che scoprivo mi sembravano sempre più straordinarie.”

Cugino! Il misterioso soldato, che scoprivamo essere un generale, non meno del futuro Horemheb, era cugino di Kiya! E, quindi, cugino in secondo grado del Faraone.
Nessuno di noi parlò, perfino Franco sembrava ammutolito. “Poter tornare indietro, fermare chi la uccise!” disse dopo un po’: “Poter cambiare la storia! Kiya sapeva di essere in pericolo, non è vero?”
Marabel annuì: “Ne sono convinta. Lo fui dal giorno in cui accadde. Quella donna doveva custodire segreti eccezionali”
“MA DOVE SONO FINITI?” strillò Franco a quel punto, saltando in piedi: “Una piccola piramide, piccola quanto, così?” e fece un gesto con le mani a contenere circa mezzo metro di spazio.
“Più piccola? Più grande? E a cosa serviva? Tanto preziosa da essere conservata dentro un’altra piramide di pietra, un vero edificio come gli Ziqqurat o le Piramidi che conosciamo? E il piatto, questo fantomatico piatto?”
Marabel fece una faccia strana: “Ah, quello lo hanno fatto sparire.”
La guardammo esterrefatti: “Aye?”
“I Servizi Segreti, presumo.”
“Vuoi dire…adesso?!?”
“Già.”
“QUINDI C’ERA? ERA STATO TROVATO?” Franco quasi si lanciò dentro il pc, ricordando appena in tempo che lo schermo non funzionava come uno stargate.
“Si, fu trovato. Diciamo…più o meno vent’anni fa. Ma fu fatto sparire nel giro di ventiquattr’ore.”
Fui io a dare di matto, a quel punto, tirando un pugno sul tavolo: “Non è possibile!”

“Come ne sei venuta a conoscenza?”
“Oh, beh, la persona cui accadde non restò zitta, lo scrisse in un libro, ma, stranamente, nonostante il successo del testo, pare che nessuno abbia notato l’episodio. Il nostro amico archeologo incontrò il collega ricercatore ad una presentazione e gli fece alcune domande in proposito, cui però il pover’uomo non poté dire molto: aveva avuto in mano quell’oggetto per pochi minuti e poi lo aveva consegnato con fiducia ad una persona che avrebbe dovuto fare analisi, fotografie e poi avrebbero dovuto studiarlo insieme.
Il suo rammarico era che la moglie, sua fotografa personale, non fosse con lui, in quel frangente.
Il ricercatore riteneva potesse essere il più eccezionale ritrovamento della storia dell’archeologia e, se effettivamente si trattava dell’oggetto citato da Kiya, è possibile avesse ragione.
Lui lo descrisse non come un piatto, ma come una specie di…cd.” Alzò gli occhi a guardarci: “Ragazzi, se sia da qualche parte o se sia stato prudentemente distrutto, io non lo so, ma quell’oggetto c’era. E doveva essere parecchio antico, per quel che mi pare di ricordare, precedente alla datazione ufficiale delle Piramidi di Giza”
“Oh”
“Questo confermerebbe le parole di Maggie, le Piramidi sono la fine, non l’inizio.” Borbottai.
Ci ero rimasta malissimo. Le chiesi il titolo e mi ricordai di avere quel libro, da qualche parte, ma, chissà perché, lo avevo iniziato venti volte senza mai riuscire ad andare avanti.
Non perché fosse noioso o scritto male, al contrario, era che mi metteva uno strano stato di ansia.

“Cugino…Dio, doveva essere un gran figo!”  gemette Franco.
“Lo era, si. Molto bello, molto fine. Riflessivo e quasi sempre taciturno, uno che lasciava le chiacchiere agli altri e si occupava dei fatti. Era carismatico, saggio, leale, coraggioso. Fedele, come sappiamo. Penso fosse maturato all’improvviso alla morte della cugina, probabilmente rendendosi conto di quanto lei fosse importante e di quanto si fosse esposta e sacrificata per…per il suo bambino o per l’umanità, chissà.”
“Non fu possibile scoprirne l’identità?”
“Si, in seguito. Ma prima lui scoprì la mia. O qualcosa del genere”
“Scusa, in che senso?”
Prese un respiro e ricominciò il racconto: “Quel giorno, dopo la seduta, mi incaponii: volevo sapere di più, ero riuscita ad agganciare quell’uomo e, improvvisamente, avevo scoperto un sacco di cose; dei pezzi di un puzzle che non riuscivo a far quadrare da anni, improvvisamente avevano un senso! Volevo tornare là immediatamente, ma l’ipnotista rifiutò, dicendo che avremmo fatto una seduta il giorno seguente, invece che prendere una giornata di pausa, ma subito, no, non se ne parlava!
Così, l’indomani, nel tardo pomeriggio, ci rimettemmo al lavoro.

Era un altro giorno e un altro luogo. L’uomo era in piedi davanti a me, il nemes, gli occhi bistrati piuttosto vistosamente, una tunica con una fascia azzurra trasversale che gli scendeva dietro le spalle, dandogli un aspetto molto ufficiale. Sprigionava tutto il suo potere, le insegne alla cintura lo indicavano come capo assoluto dell’esercito.
Stavo piangendo, gli corsi incontro: “Chi è stato?” chiese.
Scossi la testa, appoggiandola contro la sua spalla. Mi allontanò gentilmente per guardarmi in faccia: “Ora è il momento più difficile, Iset. Dobbiamo proteggerlo.”
Fece una cosa strana, per me Marabel, in quel momento, che avrei capito solo tempo dopo: posò la mano destra aperta sul mio basso ventre e mi guardò intensamente: “Dobbiamo proteggerlo. È il momento più difficile” ripeté, lentamente e calcando sulle parole.
“Tu non c’eri, hanno aspettato che fossi lontano, sono sicura che c’è lo zampino del Generale!”
“Lui mi ha allontanato, Iset. Non c’era ragione che fossi io ad occuparmi di un paio di tribù del deserto in vena di baruffe, ma lui ha voluto a tutti i costi che andassi là con una guarnigione.
So che non volevi questa soluzione, ma lui ha riflettuto a lungo, non è stato avventato. Nessuno più di lui sa cosa deve fare”
Sapevo che era vero, in quel tempo. Non lo sapevo nel ventesimo secolo.
“Non è morto, lo sai. È qui vicino. Non aggiungere pena al suo cuore.”
Uscì senza dire un’altra parola, e io, invece di sentirmi abbandonata, mi sentii forte, sicura di me e di una missione che lui mi aveva affidato.

L’immagine cambiò.
Era il tramonto, l’uomo entrò quasi di corsa in casa mia: “Le cose si stanno mettendo male, Iset. Uno dei soldati che avevo messo di guardia alla sala di imbalsamazione è stato ucciso poco fa, in pieno giorno. Presumo volesse essere un avvertimento…è pronto?”
“Quasi” risposi: “Ci vorranno ancora due, tre giorni al massimo. Ma come faremo?”
Lui parve per un attimo disorientato, si mordicchiò il labbro girando attorno lo sguardo alla ricerca di una soluzione: “Non preoccuparti, sono il futuro faraone, per ora, lo sarò finché non mi avranno sgozzato, almeno.
Farò un lasciapassare, ho un documento firmato da Sua Maestà prima del…dell’incidente, mi basterà aggiungere il tuo nome e la ragione della tua presenza.
Dovrei essere io a sovrintendere l’apertura della bocca, ma per quanto mi riguarda lo farai tu. Il Gran Sacerdote è ancora in carica e non ho dubbi che, se mi accadrà qualcosa, verrà fatto sparire, ma per ora è in buona salute e totalmente dalla nostra parte.” Rifletté ancora un istante: “Qual è la cosa più preziosa che hai? Qualcosa di tuo, proprio tuo”
Andai nell’altra stanza e tornai con un involto. Glielo porsi. Lui lo aprì cautamente e restò a fissare l’oggetto per un interminabile momento: “Questo…è…il tuo pugnale?”
Accennai di si. “Come lo hai avuto? Quando?” scrollai le spalle: “Direi che è l’unica cosa veramente mia che abbia mai avuto. Me lo consegnò il Gran Sacerdote al mio ritorno a Waset prima dell’incoronazione, da parte del suo predecessore, l’uomo che si fingeva mio nonno.
Era molto bello, pensavo me lo avesse lasciato come eredità, ma il nuovo Sacerdote disse che era mio, era stato trovato con me. Quando mi trovarono ero avvolta in una semplice copertina di lana e, posato sopra di me e avvolto nella copertina, in modo da non cadere, c’era questo. È veramente l’unica cosa che possiedo, l’unica cosa davvero mia di tutta la mia vita”
Lui lo rigirò lentamente tra le dita: “Ma lo sai cos’è, questo?” io annuii: “Lo so, è ferro celeste” risposi: “È prezioso e potente. Ha protetto me e Sua Maestà da molti pericoli. Non abbastanza.”
“È Ittita, Iset”
Alzai gli occhi a guardarlo, senza capire: “Questo pugnale proviene da Hatti! E non è roba da soldataglia o da predoni. Non sapremo mai chi fosse tua madre, ma tuo padre doveva essere qualcuno di importante, un grande ufficiale, un nobile. Ittita.”
Mi sedetti, annientata: “Io…io sono…io sono Ittita?” sentivo uno strano ronzio nelle orecchie, una cosa mi bloccava la gola: “Per metà, direi. E questo potrebbe spiegare molte cose”
Tornai a guardarlo: “Cosa?”
“Il tuo aspetto, per cominciare: appartieni chiaramente al ceppo nobile, non a quello del popolo e, come sappiamo, in te scorre il sangue inviso alla stirpe di Aye, tanto da scatenare verso di te un’intensa repulsione, tanto da voler uccidere il Faraone piuttosto che vederti al suo fianco come sua sposa. Le loro accuse, i tentativi di infangarti al punto da poterti imprigionare, esiliare, uccidere, se mai possibile…Ricordi quel giorno sulla nave? L'intento di Tey era di riuscire a farti perdere le staffe, voleva a tutti i costi che tu reagissi, e sapeva bene quali fossero i tuoi punti deboli. Quel giorno io arrivai di corsa, appena sentito il trambusto e le urla di Tey: eri circondata da guardie con le armi puntate verso di te, Tey strillava di ucciderti, solo una volta gridò “arrestatela”, perché io ero lì, ma gridò “uccidetela!” almeno tre volte, prima che io arrivassi.
Io impedii ai soldati di arrestarti e ti spedii da Sua Maestà, quindi cercai di calmare gli animi. E poi…per fortuna, Ankhesenamon mise a posto le cose. Sentirla ridere fu per Tey peggio del tuo schiaffo e per noi tutti il più bel suono immaginabile!
Solo mesi dopo, una volta in cui alcuni militi fecero commenti sul comportamento del Gran Visir e della sua nobile consorte, uno dei soldati disse che, mentre stavo cercando di capire cosa fosse successo, lei gli aveva sussurrato “uccidila adesso!”
Lui non obbedì, non prendeva ordini da lei, ma da me, però gli rimase impressa quella frase.
Sua Maestà  e io sapevamo che era perché appartenevi in modo molto evidente all’altra stirpe, che vedevano in te un’antagonista…si, avevamo più ragione di quanto pensassimo”
Prese il pugnale, lo avvolse con venerazione nel panno e fece per allontanarsi: “Ora questo verrà posto tra le Sue bende: faremo in modo che lo protegga, ma ascoltami! Qualsiasi cosa succeda, appena terminata la sepoltura fuggi, anzi, se io non dovessi esserci, non aspettare che la tomba sia sigillata! Fuggi e non tornare finché non sarà il momento. Non lasciare tracce dietro di te, non parlare con nessuno, cambia il tuo nome e il nome di tuo marito, non fidarti di nessuno, sparisci e basta. Rimani nascosta, a qualsiasi costo!”
Svanì nella notte, sentii soltanto le ruote della sua biga e il rumore degli zoccoli.
Fu l’ultima volta che lo vidi.

L’immagine cambiò ancora.
Ero di nuovo nella nostra casa, era giorno pieno. Io piangevo disperatamente, seduta su una panca e appoggiata ad un tavolo. Mio marito era accanto a me, accosciato e mi accarezzava i capelli: “Mi dispiace, mi dispiace tanto, Is! Non possiamo fare nulla, appena sarà tutto sistemato dobbiamo andarcene e di corsa. Nemmeno il Gran Sacerdote dovrà sapere dove andremo, forse almeno lui sarà salvo, se non avrà notizie sulla nostra sorte.
Andiamocene prima della sepoltura, non possiamo correre rischi, va bene? Tu hai un compito immenso, ora. Devi proteggerlo! E io devo proteggere te. Non abbiamo tempo nemmeno per piangere i cari che ci sono stati strappati!”

L’ipnotista mi riportò al presente di corsa. Ero stravolta, piangevo e singhiozzavo come mi fossi trovata là in quel momento.
“Lo hanno ucciso, hanno ucciso anche lui!” gridai.
Mio padre e l’ipnotista erano pallidi come cenci. Pochi istanti dopo rientrarono Maggie e l’archeologo con mamma, così, mentre io andavo a lavarmi la faccia e mi sdraiavo un attimo per riprendermi, li misero al corrente dell’accaduto.

Ittita. Io ero Ittita per metà e, a quanto pareva, di classe molto elevata.
Era evidente che mia madre dovesse avermi abbandonata per proteggermi, probabilmente non viveva a Waset e non vi rimase, ma mi lasciò là perché nessuno sapesse chi io fossi e potessi crescere libera. Mi lasciò nelle vicinanze del tempio meridionale perché era certa che qualche sacerdote mi avrebbe raccolta e cresciuta, come accadeva spesso con i bambini abbandonati: avrei avuto un futuro, cibo, un tetto, probabilmente una cultura.
Immaginammo che dovesse essere rimasta sola: forse era lontana dall’Egitto, si era trovata vedova e in un paese straniero, incinta di un uomo d’alto rango, ma nemica.
Doveva essere fuggita prima che la gravidanza fosse evidente, con il pugnale del compagno come unico ricordo e difesa. Poi, nascosta fuori dalla città, forse in qualche oasi, aveva atteso il momento del parto e mi aveva allattata per i primi giorni.
Forse era sopravvissuta, forse no. Probabilmente non aveva idea di cosa mi preparasse la vita, per lei dovevo essere soltanto il pericoloso frutto di una relazione molto proibita, ma, evidentemente, era stata guidata nei suoi passi da qualche forza divina, non dagli déi famelici e costrutti, ma da coloro che Sua Maestà aveva definito gli Déi della Terra, le Emanazioni dell’Uno Senza Nome e mi aveva lasciata proprio presso l’uomo che serviva quell’Uno, Amun, il Misterioso, l’Inconosciuto e l’Eterno.
L’uomo che più amava Sua Maestà, fratello, padre e forse ancora più di entrambi, era stato ucciso ad un passo dal trono.  
E io, là, nella sera di Al-Qāhira a tremila anni di distanza, sapevo che era quello il momento in cui era scesa una notte senza aurora.
Per qualche motivo, senza l’ufficiale, non ero riuscita a proteggerlo e temevo il giorno in cui avrei scoperto cosa fosse successo.”
____

Restammo zitti, troppo allibiti per commentare qualsiasi cosa.
Dallo schermo non proveniva quel ticchettio forsennato a comunicarmi che Franco stava buttando all’aria il web alla ricerca di notizie. Silenzio.
“Io…scalderei l’altra acqua, mi faccio un altro po’ di broda. Ne vuoi?”
Marabel accennò un sorriso e io misi il pentolino sul fuoco.
Avevo così tante cose in mente, da non saper cosa scegliere o da dove cominciare. E poi quel dubbio, che continuava a rodermi da un pezzo, ma volevo cambiare discorso o approfondire…che cosa?
Dubitavo che Marabel avesse scoperto altro sul passato di Iset, però era davvero speciale. Ittita. Nobile. Non era soltanto un’orfana, un’ancella figlia di nessuno!
E poi c’era un nuovo aspetto dell’assassinio di Kiya! Sua Maestà riprendeva Iset quando accusava caparbiamente Nefertiti per la morte della rivale ed era molto probabile che lei ne fosse coinvolta, ma di sicuro non si trattava di gelosia tra mogli del faraone, come lui diceva.
Kiya era un’iniziata, una studiosa, ma Nefertiti? Era soltanto un’abile manipolatrice, una donna innamorata del potere, come il resto della famiglia, o c’era altro?
E quell’uomo…chi era il Delfino di Tutankhamon? Dov’era finito?

“Però qualcuno scoprì che non eri nipote del Gran Sacerdote, la frottola non reggeva già più al tuo ritorno a Waset. Come fu possibile?” rimuginai ad alta voce.
“Si. Vedi, lui raccontò per anni che io ero figlia del suo primogenito, scomparso durante un viaggio attraverso il deserto. Diceva che, poco dopo il mio ritrovamento, aveva rintracciato una donna del deserto, la cognata di suo figlio, la quale aveva raccontato che la bambina era orfana poiché la madre era morta dandola alla luce.
Per parte mia, pur vedendolo effettivamente come un nonno, come l’unica famiglia che avessi, non avevo mai creduto di essere sua nipote. Per quanto ne so, avrei potuto essere stata io stessa a suggerire la verità, o una delle donne del tempio di Aset, che sapevano perfettamente come erano andate le cose. Ricordi il giorno in cui fui convocata agli alloggi del “nonno” per essere messa al corrente del compito che mi aspettava?
Il novizio che mi scortò da lui, si domandò se non si fosse presentato qualcuno della mia famiglia e io gli risposi che era impossibile, se mai qualcuno fosse esistito, non avrebbero saputo dove cercarmi.

D’altra parte, una volta ad AkhetAton, era molto più sicuro per me essere l’orfana di una levatrice del Basso Egitto, piuttosto che la nipotina aristocratica di un ex gran sacerdote non allineato alla nuova religione e non sarebbe stato molto sicuro nemmeno sapere che ero la trovatella di una non si sa chi, probabile moglie di un nemico.
La storia del mio magico ritrovamento doveva essere un pettegolezzo successivo all’ascesa al trono del mio Bambino, a Waset si sapeva chi io fossi, non erano passati moltissimi anni da quando me ne ero andata, ma prima dubito molto che qualcuno sospettasse, fortunatamente.
Dovete sapere che un giorno, all’inizio del mio soggiorno ad AkhetAton, ci fu notevole trambusto per l’arrivo di una nave da Men Nefer che portava qualcuno molto importante.
Io, io Marabel, dico, non avevo idea di chi potesse essere, ma io Iset dovetti preparare il bambino per ricevere quella persona: lo vestii elegantemente, lo truccai, ingioiellai, lo costrinsi ad indossare sandali con la punta rialzata, come si conveniva ai reali, gli feci indossare un pettorale d’oro non troppo pesante, che lui era proprio un pulcino e non mi piaceva che mettesse oro da restarci schiacciato, solo per mostrare a tutti chi era, non ne aveva bisogno! Era regale di natura, lui!

Eravamo disposti in un corridoio, non lontani dalla sala del trono quando arrivò il corteo.
Prima alcuni soldati in alta uniforme, poi un paio di dignitari e poi ancelle con le guardie personali.
Vidi venirci incontro una donna…era completamente vestita d’oro, la tunica e il lungo mantello con lo strascico alle sue spalle, che frusciava di un rumore leggermente metallico, i capelli di un colore giallastro che avrebbe dovuto ricordare quello dell’oro, ma a me ricordava semplicemente urina di vacca (in molti paesi africani ancora oggi vengono schiariti i capelli con lavaggi di urina di vacche n.d.a.).
Era vecchia, brutta, dalla faccia spigolosa e odiosa, lo sguardo tagliente, che oggi definiremmo snob alla massima potenza, si reggeva ad un bastone da destra e al braccio di un’ancella piuttosto robusta dall’altra.
Arrivò e si fermò davanti al Principino.
Io me lo tenevo stretto, davanti a me, e non lo mollai nemmeno quando quella donna fu lì ad un passo.
Odorava di morto e di mirra, la faccia coperta da una fittissima rete di rughe sottili e profonde.
Restò per un lungo istante a guardare il Principino che resse il suo sguardo con gli occhioni sgranati e un sorriso, per nulla intimorito, per nulla affettuoso, soltanto gentile e aggraziato, come era nella sua natura.
Lei lo fissò astiosa, socchiuse gli occhi e strinse le labbra creando ancora più rughe tra bocca e naso, poi alzò lo sguardo su di me, per un attimo, soppesandomi, immagino. O forse solo perché lo tenevo stretto a me, come a proteggerlo da lei.
Lo strinsi un po’ di più, sentii le sue manine attorno ai miei polsi. Mi forzai ad abbassare la testa e fissare il pavimento, perché non potevo sembrare sfrontata.
E poi lei se ne andò per la sua strada, senza una parola.
Non diede alcun segno di conoscermi o riconoscermi. Ho la sensazione di averla rivista, ma so per certo che non mi riconobbe: io ero la serva, non avevo alcun valore.
Forse ebbe un minimo di stupore perché me lo tenevo così stretto, e lui sembrava così stretto a me a sua volta, ma potrebbe aver pensato, se mai fui degna di un suo pensiero, che fossi spaventata dalla sua grandezza e dal suo fulgore e che, invece di proteggere il Bambino, mi nascondessi dietro di lui.
È possibile, non probabile. Probabile è che io sia esistita nella sua mente per l’attimo in cui i suoi occhi si posarono su di me e poi sia svanita, senza tracce, senza domande, un nulla.
Io ne ebbi paura, non per me, ma perché fui certa che si trattasse di una donna terribile, capace di decidere chi vive e chi muore senza un atomo di coscienza. Penso che perfino Aye sapesse provare più sentimenti di lei. Eppure, finché non vidi quell'immagine, quella del busto conservato a Berlino, non mi resi conto di essermi trovata davanti alla Grande Sposa Reale Tiye, né che quella donna era il ritratto di Aye. Certo, dovevo saperlo bene, a quell'epoca."

“Sai come il Delfino potesse essere cugino di Kiya? Doveva esserlo per parte paterna, visto che la madre veniva da lontano, no?” chiese Franco.
“Non esserne sicuro. Vedi, sappiamo che Amenophi aveva per certo almeno due mogli Mitanne, Gilukhipa o Kirgipa, in lingua Egizia e Tadukhipa, figlia di re Tushratta. Tadukhipa era nipote di Kirgipa, la quale, si narra, arrivò alla corte del faraone, circa venticinque anni prima di Tadukhipa, con un seguito di trecentodiciassette ancelle, quindi, per quanto dell’arrivo della nipote Tadukhipa non venga citata una corte, ma un contratto di matrimonio con il faraone che includeva l’obbligo di elevare la principessa quindicenne al rango di Sposa Reale, nonostante la presenza di Tiye, due cavalli, gioielli, pietre preziose, oro e una serie di altra roba che non ci riguarda, è probabile che avesse con sé un seguito, come era stato per la zia, tra cui, perché no, una o più sorelle o anche, meno probabilmente, un fratello minore che potesse essere educato alla corte Egizia.
Ci sono parecchi studiosi che, ancora oggi, ritengono che Tadukhipa potesse essere in realtà Nefertiti o Kiya, visto che Amenophi morì poco tempo dopo quel matrimonio, ma noi sappiamo che Nefertiti era figlia di quegli altri due e che Kiya era più giovane sia di Ekhnaton che di Nefertiti e, se possiamo fidarci delle recenti scoperte, che era figlia di Amenophi.
Quindi, se lei non era Tadukhipa, ma quasi certamente figlia di Kirgipa, abbiamo la certezza pressocché matematica che ci fosse qualche di lei sorella a corte che sarebbe stata quindi la madre del Delfino.
Che sia stato di Tadukhipa, invece, non lo sappiamo, probabilmente sposò non il faraone figlio, ma qualche nobile.
Come vedete, ci è molto più semplice trovare una parentela per parte materna che paterna e, di nuovo, questo ci farebbe capire come il lignaggio di Kiya fosse decisamente mal visto da Tiye. Zia e nipote dovevano infatti starle parecchio sullo stomaco. Inoltre il Delfino somigliava a Kiya. Il sorriso, la forma del viso…gli occhi pensosi e profondi del cuginetto in seconda.

Il Delfino era la persona più in alto dopo il Faraone, perfino più in alto di Aye e diventare suo genero non fu un onore per lui, ma lo fu per il Gran Visir, che doveva rosicare parecchio.
Scoprii poi che molti ricercatori ritenevano quell’uomo misterioso figlio di Aye, ma non è così: ne era il genero e, checché ne dicano le poche tracce rimaste, tra il Gran Visir e lui non c’era un grande amore. Ho idea che l’Ufficiale non amasse alla follia nemmeno la mogliettina, ma, tant’è…”
“Ma allora tu hai trovato dei riscontri!” saltai su entusiasta: “Sai chi era!”

“Nel periodo di soggiorno in Egitto cercammo notizie, ma fu davvero difficile: non avevamo qualcosa da cui partire, se cercavamo tracce di una sorella di Nefertiti, a quel tempo, non si trovava nulla e io non sapevo ancora che, in seguito, lei fosse stata la moglie di Horemheb.
Ricordate che non si sapeva assolutamente e nessuno mai avrebbe pensato che Nefertiti fosse figlia di Aye, la si riteneva con tutta probabilità Tadukhipa, quanto ad Horemheb, si è ritenuto per molto tempo fosse diventato il marito di Ankhesenamon, anche se con nome diverso, quindi non ne venivamo a capo!
Poi, un giorno, papà arrivò tutto entusiasta con delle fotocopie, le sbatté sul tavolo e disse trionfante: “Nakhtmin!”
Io, mamma e Maggie lo guardammo come avesse bevuto, e lui e il suo compare archeologo ci spiegarono cosa avessero trovato: a quanto pareva era esistito un generale, un tale Nakhtmin, facente parte del Consiglio di Reggenza di Tutankhamon, molto criticato per la sua eccessiva fedeltà al medesimo e del quale era scomparsa praticamente ogni notizia.
Io non riconoscevo quel nome, non mi risuonava ed ero molto delusa.

Durante la notte, però, feci un sogno. Ero seduta sulla riva del fiume con alcune novizie e stavamo scherzando, affaccendate in lavoretti che si possano effettuare sedute per terra e con i piedi nell’acqua, come piccoli rammendi o infilare perline e costruire collanine di vetro e ceramica: “Il Generale N’khet è davvero un uomo bellissimo, non trovate?” disse una giovinetta, sognante.
“Non è roba per te, lascia perdere! È un boccone di lusso, potrebbe diventare faraone, se, gli déi non vogliano, Sua Maestà dovesse lasciarci” rispose un’altra.
“E comunque, dai, è inarrivabile! È il più alto ufficiale in tutto l’Egitto ed è cugino di Sua Maestà! È ricchissimo, bellissimo, intelligentissimo. Certo, non si riesce a trovargli un difetto, eh? Chi non sognerebbe un uomo simile? E poi è gentile, non è come tanti soldati e ufficiali, soprattutto uno…” disse una terza con una smorfia.
Io ridevo dei loro discorsi: “Beh, potreste andare da lui e offrirvi come mogli, tutte e tre!” proposi. Loro risero.

Il sogno cambiò, c’era una donna che mi passava davanti nella fila in farmacia, dovevo prendere un autobus e non trovavo la fermata, poi l’autobus era diventato l’aereo per Boston e io dovevo percorrere un corridoio infinito per arrivare allo scalo. Il  corridoio era ornato di statue e bassorilievi, piante di papiro e palmetti in grandi fioriere.

Davanti a me una porta guardata da due soldati, le lance incrociate a bloccare il passaggio. Mi videro, portarono le lance al piede, battendole leggermente sul pavimento in segno di saluto, quello alla mia destra  si fece avanti per aprirmi e, senza una parola, tornò al suo posto.
Sua Maestà era seduto al tavolo da senet, vicino alla finestra, il piede sinistro appoggiato su un cuscino e sorrideva, felice, alla persona davanti a lui.
“Generale, sei tornato?” dissi inchinandomi leggermente.
Lui alzò la testa e mi sorrise, un sorriso che ricordava molto quello del Faraone: “Oggi stesso, poco fa. Il tempo di un bagno e poi sono corso dal mio aureo cuginetto, sai, è preoccupato come una chioccia quando sono sul campo di battaglia” il Faraone abbassò la testa, ridacchiando: “Non è vero! Sono giustamente preoccupato per la salute del mio successore!” 
Durante quello scambio di battute avevo posato l’involto con gli unguenti per la gamba malata e il Delfino mi stava ora tendendo entrambe le mani. Io gli tesi a mia volta le mie che lui prese, tenendole strette e posandovi la fronte in segno di affetto e rispetto: “Che sciocchezza, Am’n! Hai quasi dieci anni meno di me! Dovresti essere tu il mio successore!”
“Ma noi sappiamo che non sarà così, non è vero?” Sua Maestà lasciò scorrere lo sguardo sulle spalle ampie del cugino, i muscoli guizzanti ed eleganti sotto la pelle abbronzata dal sole del deserto. “Non potrei sperare in un successore migliore, N’kht. Non piango per la brevità della mia vita, o meglio, mi consola sapere che potrò riposare in pace, sapendo il regno nelle mani migliori possibili.”
L’Ufficiale mi lanciò un’occhiata nervosa: “Hai diciotto anni, Am’n. Hai ottimi medici e guaritori e una guaritrice, in particolare, che rivolterebbe la Terra e il Cielo per te. Troveremo una via, vedrai.”
Il Faraone lo aveva ascoltato con la testa leggermente reclinata, un sorriso pensoso, quasi condiscendente: “Non dispero, ma sono pronto. Non posso fare in altro modo”
L’Ufficiale si alzò, osservò rapidamente la posizione del sole e si diede un paio di manate sullo skentis per rassettarne le pieghe. Aveva un fisico perfetto, scolpito e forte e Sua Maestà sapeva bene come potesse essere agile e pronto di riflessi. Lo guardò con un sospiro rassegnato, una piega amara al lato della bocca, lanciando al contempo uno sguardo riluttante ai propri bicipiti.
Il Generale si chinò a dargli un bacio in fronte: “Riguardati, mio divino fratello” mi sorrise e si allontanò.
“È ridicolo che possa pensare che io gli sopravviva, non è vero? È così forte e in salute. Deve essere bello sentirsi in quel modo, stare bene dentro il proprio corpo, sentire l’energia della vita scorrere nelle vene!”

Mi svegliai con un senso di peso e di amarezza. Chiudendo gli occhi riuscivo a rivedere il Generale N’kht, o N’khete, con molta chiarezza.
Ne vedevo la vita sottile, il ventre piatto e muscoloso, attraversato molte volte dalla fascia trasversale degli ufficiali, le spalle ampie, le mani segnate da cicatrici, le movenze eleganti, feline e tranquille di chi non deve dimostrare nulla, perché nulla teme, e vedevo i grandi occhi da cerbiatto del Faraone guardare con una sorta di rimpianto il corpo del cugino.
Prigioniero della malattia, con lo spirito di un ragazzino che avrebbe voluto volare, costretto, limitato, deformato dal male, eppure, ancora, più bello del sole che al mattino si specchia in acque profonde.

Più tardi raccontai ai miei compagni d’avventura i sogni e il nome che, apparentemente, era così diverso: “Pensi che si tratti di un’altra persona?” domandai all’Americano.
“Gli Egizi non scrivevano le vocali, come anche Ebrei e altri popoli, quindi, nonostante la presenza, a volte, di piccoli segni, non è facile ancora oggi capire la pronuncia corretta.
Prendete una parola comune, come Amon…Amun, Amen…viene scritta e pronunciata in molti modi e poi, improvvisamente, conosco Marabel che la pronuncia Am’n, con buona pace di tutte le scuole. Questo ha senso. È possibile che molte delle vocali  che noi pronunciamo aperte, fossero invece molto chiuse o quasi afone.
È interessante, per esempio, come molti pronuncino Akhenaton, o Akhenaten, mentre Marabel pronuncia Ekhnaton, che altro non è che la contrazione di due vocali, con una E iniziale piuttosto dura e un k h aspirate e dure, a loro volta.
Aset, o Iset, diventa molto spesso Is’t, e st era il geroglifico che indicava il trono reale o, naturalmente, la Dea Iside.
Mi affascina questo modo di pronunciare, devo dire, mi dà una bella sensazione, Mary, come se fosse, finalmente, il modo corretto di parlare.
N’kht o N’khete ha molto senso, in questo contesto: invece di N-a-kh-t, si elide quasi completamente la prima vocale e si allargano, invece,  due vocali che non prendevamo in considerazione. Sembra un altro nome, ma non lo è. Quanto al “min”, poteva essere un diminutivo e forse veniva usato solo in alcuni casi o da alcuni membri della famiglia.
In effetti…un altissimo ufficiale che viene apostrofato come “Ninuccio” potrebbe non essere il massimo.”

“E io l’ho trovato!!” ululò Franco trionfante. “Cacchio, è davvero un gran pezzo di ufficiale! E si vede solo un pezzo di testa, visto che il resto è stato spiaccicato.”
Mentre parlavamo mi arrivò la foto sulla chat di fianco alla finestra della webcam.
“Assomiglia davvero a Kiya!” esclamai. Ed è come lo hai descritto, ha quel viso pensoso, elegante. Che begli occhi! Doveva essere un uomo di gran classe, eh?” nel mentre confrontai la foto con un’immagine dell’uomo che, immeritatamente, era poi diventato faraone al suo posto: grossolano, grezzo, quasi volgare, con un buffo naso a patata che faceva pensare ad un oste rubicondo, invece che ad un grande ufficiale o, peggio, ad un faraone.
Non mi piaceva: aveva fatto di tutto per il potere, come lo aveva fatto il Gran Visir, aveva minacciato Iset, si era autoeletto successore di Sua Maestà, quando c’era un successore legittimo, che però non solo non era mai salito al trono, ma era letteralmente sparito. “Trovate diverse mummie a nome Nakhtmin, ma nessuna pare corrispondere al Generalissimo” lesse Franco.
Appunto. Come Iset.
Era stato lui? Era stato Horemheb ad uccidere il Faraone e poi il suo Delfino, sposandone la vedova? Per questo aveva cancellato ogni sua traccia? Lo fissavo con una specie di disgusto, dimentica dei miei amici.

Nakht o N’kht o N’kehte, invece, mi affascinava profondamente.
Nel pezzo di busto pervenutoci aveva lo sguardo leggermente abbassato, come anche il Fanciullino nella grande statua funeraria, quella poi usurpata dal bovaro Horemheb.
La forma del viso lo ricordava, ma mi colpiva l’espressione: Sembrava profondamente assorto e pensieroso, e sembrava non fosse un qualcosa di colto in quel momento dallo scultore, ma più un suo stato caratteriale, molto simile, anche qui, con l’espressione distante e pensosa del Faraone.
Può un generale in capo di un grande esercito essere una persona riflessiva e silenziosa, invece che aggressiva e dal piglio arrogante di chi è abituato a comandare e che comanda con chiunque, per tendenza naturale?
Forse può, se è abbastanza grande d’animo. Carisma: emanava un grande carisma, quel giovane ufficiale, nel suo sguardo quieto e distante. Che rimpianto! Cosa ci siamo persi? Cosa si è persa la storia?
“Sarebbe stato un buon re, non è vero?” domandai, quasi tra me.
“Sarebbe stato il naturale seguito del cugino, avrebbe continuato ciò che lui non aveva potuto portare a termine, in attesa del ritorno di colui che considerava più in alto di chiunque e rispettava sopra ogni cosa.
Giusto, protettivo, sereno, gentile, ma determinato. Coraggioso, ma umile. Regale ed equanime. Sarebbe stato un grande Faraone, si. Davvero grande.”

Thutmose, N’kht, lo stesso Tutankhamon, che per un po’ era riuscito a regnare: tre grandi esseri in pochi anni che abbiamo clamorosamente mancato e, a quanto pare, tutti e tre di una stessa linea di sangue.
Noi, no, noi, invece, ci siamo beccati le vipere, che c*cc**o!
“Ci sarà un posto, un altro spazio tempo, un altro Universo, in cui hanno potuto regnare, se non Thutmose, almeno Sua Maestà e poi il suo Delfino? Come sarà andata, là, la storia? Cosa è cambiato, e quanto? Possiamo immaginarlo?”
Secondo Franco no, non a lungo termine, secondo Marabel non abbiamo elementi per saperlo, poiché in oltre tremila anni le variabili e gli imprevisti sono troppi da considerare.
Avrei voluto chiudere gli occhi e immaginare quell’altro film, scriverlo, con una penna magica che riscrivesse la realtà oggettiva del mondo.
Non la storia, che quella viene riscritta all’occorrenza fin troppo spesso, a seconda di come fa più comodo, no, proprio la realtà, intendo, che lo sappiamo fin troppo bene che la storia non è realtà.

“Credi che il Delfino sapesse la faccenda del Generale, di Horemheb?”
“Di quella famosa notte? Assolutamente si, anche se non era nella capitale, in quel momento.
All’inizio, quando ad Al Uqsur emerse il ricordo, non avevo ancora capito l’importanza dell’uomo che io vedevo semplicemente come soldato e non feci un collegamento tra il tradimento del Generale e la mancata presenza di quella specifica guardia.
C’erano sempre due guardie alla porta dei suoi alloggi e c’era qualcuno a dare loro gli ordini, quindi non ci facevo caso più di tanto. Sapevo solo che Lui era al sicuro, con loro, che erano fidati.
Credo che a confondermi, a far si che non mi rendessi conto della sua importanza, fosse il fatto che aveva quasi sempre un nemes, uno skentis e sandali e i soldati erano vestiti così, come anche segretari, servitori, a volte perfino scribi.
Inoltre N’kht non aveva l’abitudine di indossare gioielli, se non in occasioni ufficiali; portava di norma soltanto due bracciali alti, di cuoio, ai polsi, niente altro, e anche questo era normale per i comuni soldati.
Il Generale, quell’altro generale, invece, aveva sempre insegne ben visibili a definirne il rango: cinture, fasce pettorali, gioielli d’oro che erano spesso premi per le sue campagne.
Vedete, lui aveva bisogno di cose che lo definissero come un grande, poiché non lo era, mentre N’kht, che era immenso, non aveva bisogno di nulla: la sua grandezza risplendeva nel suo sguardo, nelle sue movenze, nella pacatezza con cui dava ordini o ascoltava, nella capacità di incoraggiare e sorridere.
Doveva davvero odiarlo, Horemheb, non è vero? Forse lo odiava più di quanto ne avesse odiato il fragile cugino. Forse odiava anche Aye, tutto sommato, perché, in un modo o nell’altro, pur nella sua maniacale ossessione di potere, era comunque molto più grande di quanto lui avrebbe mai potuto essere.

Così, solo quando scoprii quanto quel soldato dovesse essere importante e cominciai a fare collegamenti, mi resi conto anche che, se il Delfino fosse stato in sede, il Generale non si sarebbe mai e poi mai sognato di fare il furbo.
Vedi, con lui il Faraone non aveva bisogno di dire: “Sta succedendo qualcosa, fai così” o inventarsi di aver avuto una premonizione o chessoio, perché N’kht sapeva ogni cosa.
Gli sarebbe bastato dire “corri” e lui avrebbe capito e avrebbe agito con la massima rapidità, anche da solo, piombando nel Tempio mentre era in corso quella pericolosa conversazione tra me e il Generale e, a quel punto, sbattendolo in galera per il resto dei suoi giorni: in fondo, non solo stava minacciando l’ancella, ma cospirava contro il Faraone!
Purtroppo, per quanto facesse in modo, soprattutto negli ultimi tempi, di essere sempre il più vicino possibile, la sua carica non gli permetteva una presenza costante.
Quando N’kht arrivò a Waset, Sua Maestà vedeva soltanto ombre ed era debolissimo, quindi dovevano essere passati un paio di giorni, non di più. Tre, forse.
Penso che anche la sparizione del Generale sia stata molto strategica, insomma, che non volesse farsi trovare là all’arrivo del Delfino.

Durante la seduta in cui sorsero ricordi approfonditi su quell’uomo, scoprii che, tra le altre cose, egli sapeva che il Faraone, con la malattia, stava perdendo le sue capacità, o meglio, che gli costavano sempre più fatica.
Potevano averne parlato, anzi, è probabile che lo avessero fatto, ma mi venne in mente che, quando c’erano udienze o riunioni che lo lasciavano sfinito, Sua Maestà non lo dava mai a vedere, se non in casi molto rari: rimaneva assiso sul trono e aspettava con molta indifferenza che i presenti se ne andassero, le guardie chiudessero le porte e solo a quel punto si permetteva di crollare. La sua capacità di autocontrollo rimase sempre immutata, fino all’ultimo, perfino nel frangente della perdita delle figlie.
Spesso febbricitante, con dolori che lo stordivano o gli strappavano le lacrime, taceva e si presentava alle udienze. Le volte in cui non c’era, e purtroppo non furono poche in quegli anni, era perché stava veramente molto male, con febbri alte, convulsioni, collassi, a volte paralisi temporanee...in ogni caso, sia si trattasse di udienze che di uscite pubbliche, parate o altro, N’kht era puntualmente lì, pronto a prenderselo in braccio come un fuscello e portarlo nei suoi alloggi.
A volte lo metteva direttamente a letto, lo svestiva e lo copriva, come fosse stato un bambino, non permettendo a nessuno di entrare, nemmeno ad Ankhesenamon, se per caso era nei paraggi.
A volte mi chiamava con la scusa di imporgli le mani e solo più tardi mi lasciava con lui, a volte. Altre volte mi spediva a casa e rimaneva a vegliarlo.”

“Quindi sapeva la verità sul vostro rapporto!” esclamai.
“Si, lui lo sapeva. Aveva sposato la rampolla di Aye e Tey per evitargli un secondo matrimonio obbligato e sapeva dei suoi progetti, come avete potuto intuire dagli spezzoni che vi ho raccontato: sapeva del pettorale che poi scomparve, sapeva che…beh, sapeva tutto”

E adesso? Era tardi, potevo farle la domanda che mi stava sullo stomaco da un paio d’ore o era meglio aspettare?
“Che programma domani?” buttò là Franco. Ci voltammo verso lo schermo: “Vuoi rifare come stasera?” lui sbuffò, imbronciato: “Domani ho gli imbianchini, ricordi? E poi non possiamo fondere il pc con una videochiamata di otto ore! Uff!”
Marabel lo guardò comprensiva: “Però io domani mattina avrei un impegnuccio. Dovrei tornare a periziare dei quadri dai clienti di stamattina e poi consegnare la documentazione, è quasi tutto a posto, ma devo stampare, firmare e far timbrare. Penso tornerò intorno a mezzogiorno…la mattina, tra una cosa e l’altra, salta.”
Franco si illuminò: “Pensi di poter saltare anche il pomeriggio, diciamo prima delle cinque? Eh?”
Io provai un profondo disappunto.
“Possiamo andare a fare un giro, un po’ per il cane, un po’ per prendere aria. Ne avrei bisogno, sai, ho bisogno di stare un po’ nel verde vero, non nei parchi cittadini, per quanto belli frondosi.”
Io storsi il naso, quel brutto tizio con cui eravamo in contatto da Parigi, mi guardò trionfante: “HA!” commentò.
“Guarda che potremmo andare avanti nel racconto anche se siamo in giro, sai?” lo rimbrottai.
Bisticciavamo come ragazzetti dell’asilo e Marabel ci trovava molto divertenti.

“Ma, insomma, poi lo hai fatto quel seminario?” sbottai, non riuscendo a trattenermi.
Lei mi spalancò due occhioni così: “Oh, il seminario? Si, ne feci due, a distanza di mesi, perché…oh, beh, nel primo l’istruttrice era un’oca ignorante come pochi e finii per litigarci, così, dal momento che venne poi fuori che avevo ragione, ci offrirono un nuovo seminario nell’anno nuovo.
Per me e per papà. Ci pagarono perfino il pernottamento, non pranzi e cene perché erano a carico del ristoratore, a parte. Ma capirai!”
“Grande!!” esclamai, battendo le mani.
“Racconti?” dissero due occhi molto speranzosi da Parigi.
“Ragazzi…oh, d’accordo, solo un pezzettino, però!”
Ci sedemmo compunti tutti e due. Micky, apparso dal nulla in quell’istante, mi batté insistentemente sulla gamba per farsi prendere in braccio, poi decise che non era comodo e si piazzò sul tavolo, prendendomi a testate perché lo accarezzassi ad oltranza e riempiendo di pelo il mio tavolo, la mia faccia e tutto il resto.

“Vediamo…si, dunque, mamma decise che non voleva saperne di quelle cose e poi, secondo lei, era troppo beota per riuscire a combinare qualcosa di buono, aveva paura di non riuscire nella regressione e fare la figura della fessa, così ci accompagnò e, dal momento che eravamo in un posto di mezza montagna, se ne andava in giro a fare foto e tornava solo durante la condivisione  finale, prima di pranzo e prima di cena. Papà e io, invece, eravamo in full immersion, per la prima volta insieme.
Io ero emozionatissima, ma, davvero, anche molto spaventata: si trattava di un tipo di lavoro totalmente diverso da quello cui ero abituata ormai da quindici anni e non sapevo cosa mi aspettasse.
Due mesi prima del seminario ci avevano scritto chiedendoci i dati di nascita precisi al massimo, una dichiarazione in cui dicevamo di aver scelto di partecipare di nostra volontà, scritta e firmata di nostro pugno e una foto da bambini, una di una decina di anni prima e una fatta appositamente in quei giorni, da soli.
Non dovevano esserci altri, nella foto, né doveva esserci acqua o fuoco, e, possibilmente, doveva essere fatta con luce diurna e senza flash. Niente cani, gatti, pesci rossi o così via.

Al nostro arrivo consegnarono ad ognuno una busta chiusa e ci lasciarono soli per una decina di minuti, in una sala del ristorante. Eravamo una dozzina di persone e, quasi tutti, presa la propria busta, uscirono e andarono a leggersela in solitudine.
Noi sedemmo semplicemente accanto ad un tavolo e le aprimmo.
C’era un biglietto, dentro, e diceva alcune parole chiave. Le mie erano: Ragazza altera. Grande responsabilità. Mare, vulcano. Sacerdozio.
E poi c’era un cartoncino con uno strano disegno colorato, che poteva essere un Mandala locale con delle linee che identificai come circuiti di tipo radionico, ma di un genere che non conoscevo.
Volete sapere cosa trovò mio padre?”
“No” risposi: “Non mi pare corretto: non sappiamo se lui vorrebbe”
Marabel si illuminò e mi studiò per un attimo, socchiudendo gli occhi come era sua abitudine quando “stavo andando bene”, per così dire.

“Poco dopo rientrò l’insegnante e ci accompagnò nella sala del seminario.
Ci spiegò alcuni esercizi e poi ci portò in uno stato di meditazione profonda, non di ipnosi, per la quale ci sarebbe voluta una preparazione piuttosto lunga, ma di meditazione guidata e, quando fummo in uno stato di coscienza ottimale, con una musica di sottofondo con rumore di gocce, onde e cinguettii, ci disse di prendere i cartoncini e di percorrere con una penna chiusa, che non scrivesse, i circuiti che ci avevano dato.
Poi ci diede block notes e disse di scrivere qualsiasi cosa ci venisse in mente, senza giudicare nulla, ci avremmo pensato in seguito a mettere ordine.
Se si aveva la sensazione che i pensieri che arrivavano fossero del tutto incoerenti o non inerenti a quello che stavamo facendo, non importava: dovevamo scrivere le parole, i pensieri e le immagini comunque, senza alcun giudizio.
Per farla breve, il corso si snodava tra esercizi, alcuni presi a prestito da altre discipline, come rebirthing o yoga, per esempio, o ancora passeggiate attraverso grandi mandala disegnati sul terreno con sassi verniciati di diversi colori,  meditazioni e così via, alternate a momenti in cui ci veniva chiesto di riflettere e ci facevano fare delle azioni precise, che, almeno teoricamente, avevamo fatto nella vita che stavamo svolgendo.
Potrei dire, per la mia esperienza, che per la massima parte ogni cosa che facevamo era una sorta di ipnosi regressiva molto soft, addizionata da tutti gli esercizi di cui sopra.
L’aspetto interessante era la full immersion, in cui restammo per quattro giorni, la presenza di un gruppo, il potersi confrontare senza timori.

L’istruttrice, verso metà mattina, ci diede un aiutino che, per quanto mi riguardava, era composto da due parole: Isola e Grecia.
Io, appena sentii Grecia, mi arrabbiai: conoscevo, conoscevamo, molto bene quel tipo di reazione, somigliava terribilmente agli sbotti di sdegno dell’anima di Luna Nascente.
“Grecia? Cosa c’entra la Grecia?” le chiesi secca.
La tipa, che mi ricordò in modo sgradevole la maestra dei miei otto anni, mi guardò con sufficienza: “Mi pare chiaro, eri greca, no?”
Io la guardai con gli occhi a fessura, inferocita: “IO non sono greca! I greci sono degli zotici!” papà sospirò, gli altri mi guardarono scandalizzati, la tipa ridacchiò: “Oh, vuoi saperne di più di chi ha preparato per mesi questi profili?”
“La vita è mia o loro?” sibilai.
La tizia fece un gesto di disinteresse e con una risatina: “Sicuramente è altera!” disse rivolgendosi ai nostri compagni. Vorrei correggermi, lei non disse altera, ma austera, perché era talmente ignorante da non sapere il significato dei due termini. Solo che io preferisco essere corretta, come potete immaginare.”

Faticai a trattenermi dal ridere, immaginando la tizia che cercava di zittire Marabel, non avendo la più pallida idea di quel che l’aspettasse!
“Insomma, appena riuscii ad agganciare quella vita, per quanto già sentissi una sorta di avversione a causa dell’ignorante che ci avrebbe seguiti per i giorni del seminario, mi trovai in un’isola.
Si, l’aspetto era dell’Egeo: mare azzurro trasparente e tiepido, cielo limpido, odore di rosmarino, sole, barche dalle vele spiegate e voli di gabbiani.
E un tempio. Il mio tempio, la mia casa.
Ero cresciuta lì, forse figlia di una sacerdotessa che aveva avuto un ruolo importante prima di me. Ora, la carica di Somma Sacerdotessa era mia da alcuni anni. Pur giovane, ero la massima autorità religiosa dell’isola, superiore, per quel che potevo percepire, al Sommo Sacerdote della divinità maschile.
Avevo un abito azzurro, di veli morbidi, una cintura di vari colori che scendeva ampia sul davanti, fino a terra e due parti laterali a bande colorate simili alla cintura.
I capelli erano molto lunghi, scuri e non so se fossero naturalmente ricci, ma sicuramente li acconciavo con dei ferri per capelli, perché erano in morbidi boccoli e scendevano fino alla cintola.
C’erano delle novizie: correvano lungo un prato di fianco ad un frutteto, verso un minuscolo paese che guardava a picco sul mare e i ragazzi del posto le mangiavano con gli occhi.
Loro lo sapevano e civettavano un po’, per provocarli, così quelli facevano a gara nel mostrarsi gentili, portare dei piccoli doni, usare premure a quelle deliziose profittatrici.
Erano ragazzine, e le guardavo con condiscendenza, ricordando che, non molto tempo prima, giocavo nello stesso modo. Sospirai, guardando l’orizzonte.

Mi mancava qualcosa: la mia vita era dolce, ero onorata, adorata, quasi, ero un punto di riferimento per la gente, vivevo nell’agiatezza e avevo tutto quel che si può desiderare, eppure ero infelice, lo ero sempre stata.
Da bambina, a volte, mi nascondevo in qualche posto da sola e scoppiavo a piangere, perché sentivo una nostalgia assoluta, struggente, immotivata che mi spaventava e cui non sapevo dare spiegazioni.
Sognavo un qualcuno che non c’era, lo cercavo ansiosa tra i volti della gente, lo aspettavo, come avesse potuto arrivare dal mare, un mattino o una sera, portato dal vento.
Ogni volta in cui il sole tramontava, la malinconia mi assaliva, accompagnata da una strana, strisciante paura.
Non avevo compagni, o meglio, per forza ne avevo avuti: sacerdoti del tempio della divinità maschile, giovani locali, nobili dell’altra isola…l’altra isola. Corrugai la fronte…l’isola a Sud.
Era grande, andavamo qualche volta, nel corso dell’anno.

Sedetti su un tronco e chiusi gli occhi: potevo avere dieci anni, undici, al massimo. Eravamo in una grande città, c’erano Sacerdotesse, Sacerdoti, altri ragazzini come me ed eravamo tutti eccitati per qualcosa, una festa molto importante.
Abiti simili a quello che indossavo da adulta, altri di foggia molto diversa, genti di diverse etnie, colori, tanti colori, profumi, suoni, linguaggi, risate, danze improvvisate, giocolieri.
Molte donne indossavano soltanto una gonna ampia e molto colorata, qualcuna si gettava un leggero scialle addosso, altre no e i loro seni erano coperti soltanto dai riccioli e da giri di collane.
Io indossavo una specie di corti calzoncini, come gli altri ragazzini e ragazzine.
C’erano atleti adulti, vestiti al nostro stesso modo, con i corpi guizzanti dai muscoli allenati e unti con unguenti balsamici che li rendevano ancora più elastici e sensuali, donne e uomini.
Una donna (mia madre?) aveva una gonna più spessa e colorata delle altre, era in piedi su non so che: un palco, un pulpito, un altare, e teneva qualcosa nelle mani.
Allargò le braccia: erano serpi vive e sibilanti, che le si arrotolavano attorno ai polsi. Una, attorno al collo, le scivolava lungo il petto, insinuandosi tra i seni prosperosi e scoperti.
Lei le stringeva come niente fosse, pronunciando alcune invocazioni, poi le lanciò in una buca, dove, presumo, dovevano essercene altre. La Dea Madre e Signora dei serpenti, colei che dominava le forze occulte e i veleni, che vedeva nell’oltre, signora della Conoscenza, dominatrice dei pericoli.
“Lo sapevo!” pensai trionfante: “Non ero greca! Io non potevo essere greca!”
Non vedevo l’ora di condividere quell’esperienza e mandare al diavolo l’istruttrice.

Mi portarono nell’arena, con gli altri ragazzi e iniziarono i giochi: danzavamo e facevamo esercizi stupendi con cerchi, clavette, nastri, simili ad odierni ginnasti e acrobati, a coppie o a gruppi, ragazze e ragazzi. Poi ci fu la tauromachia.
Io non avrei voluto farla, non mi sentivo pronta, ma non potevo tirarmi indietro o, perlomeno, me ne vergognavo troppo.
Al mio turno presi la rincorsa, saltai, forse troppo vicina, il toro si spostò, io finii per capitombolare dall’altra parte, rischiando di finire sotto le zampe dell’animale.
Sentii grida dalla folla, mani mi afferrarono, ero stordita dal colpo, non riuscivo a respirare.
Non mi ero mai più avvicinata ad un toro, in seguito, manco morto.

L’immagine tornò alla mia isola, anni dopo.  
Vidi un giovane bruno camminare verso di me, un pescatore di conchiglie. Mi piaceva, mi faceva sentire bene, mi donava le conchiglie più belle, sostenendo che fossero per la Dea, ma nel darmele mi fissava intensamente negli occhi.
Tra le sue braccia dimenticavo per un po’ il mio dolore, ma poi tornava e si faceva più intenso, mi sentivo più disperatamente sola.
Vidi un’alba sorgere su un mare calmo da sembrare marmo, ero in piedi su una…zattera? O barca piatta? Non avrei saputo dirlo. Fissavo immobile l’orizzonte fino ad un punto del mare dove ci fermavamo e allora, nel silenzio assoluto di quell’ora, invocavo la Dea che forgiava la terra dall’acqua e la onoravo con ghirlande di fiori e conchiglie.
Mi gettavo in acqua e nuotavo fino alle profondità blu, dove dovevo fare qualcosa, aprire o prendere un oggetto, di anno in anno.
Era piccolo, lo potevo tenere in una mano, penso brillasse. Una statuetta, forse di pietra brillante, come quarzite o mica? Tornavo in superficie, allora, e mi riportavano a terra, non più donna, ma divinizzata. Non riuscii a vedere cosa fosse.

Quando fu il momento della condivisione, io non volevo raccontare tutto: primo, le cose che i miei compagni avevano da raccontare erano molto più semplici e ordinarie delle mie, e io mi vergognavo, secondo…non volevo che la brutta tipa ignorante sentisse gli affari miei!
Eppure volevo troppo farle pesare che IO non ero greca.
Perfida, sapendo che non avrebbe capito, dissi che la mia gente era Keftiu, rispettata ed onorata in tutto l’odierno Mediterraneo, perfino dagli Sherden, che non temevano né risparmiavano nessuno, se non ne avevano voglia.
Lei mi guardò infastidita: “Non dovete inventarvi le parole, dovete scrivere quello che vi viene in mente, ma non giocare a scrivere romanzetti con nomi di fantasia” esatto! Pensai.
Papà, che aveva ascoltato rapito e preso appunti su tutti i racconti, si scosse e guardò l’istruttrice senza capire: “Parole inventate? Nomi di fantasia? Di che stai parlando, P.?”
Quella scrollò le spalle: “Questi nomignoli, nemmeno tanto carini, cettu? Shitte? Lasciamoli perdere, dai!”
Lui si alzò: “Mia cara signora, si dà il caso che Keftiu sia l’antico nome usato per indicare la civiltà Minoica, in uso soprattutto tra Egizi e Mesopotamici, e che gli Sherden fossero un popolo molto fiero, il popolo del mare, come veniva definito, che oggi molti riconducono ai Sardi dell’età nuragica!”
“Cosa c’entrano i sardi?” strillò lei: “Insomma, ragazza mia, qui c’è scritto che eri una sacerdotessa greca di Arfodite, quindi quello eri!”
Ah, quindi lei sapeva…aveva un appunto che diceva sacerdotessa?
“Beh, è sbagliato.”dissi serafica.
Ormai avevo avuto la mia soddisfazione, la sua ignoranza era sotto il naso di tutti, quindi Luna Nascente se ne stava buonina in un angolo a godersi lo spettacolo. Aprii il notes e iniziai a leggere i miei appunti.
Quando alzai gli occhi incontrai quelli di mamma, fuori dal gruppo, in un angolino discreto, che mi guardava affascinata e quelli commossi di papà. Poi vidi i visi incantati dei miei compagni.
Io avrei voluto sprofondare.
“Ero una frana con la tauromachia” dissi cercando di cancellare le espressioni sognanti dai loro occhi. “Ancora in questa vita ho sempre rifiutato di fare esercizi al cavallo” dissi convincente.
Qualcuno mi guardò divertito.
Con la coda dell’occhio sbirciai l’istruttrice e mi resi conto che non doveva aver capito granché: “Non c’era adorazione dei serpenti nel culto di Arfodite” disse petulante, studiando i fogli di documentazione.
Una ragazza del corso non resistette: “Ma che dici, P.? Non capisci? C’è chiaramente un errore di valutazione, lei è vissuta agli albori della civiltà greca, quando Creta e le isole intorno erano dominate dalla civiltà Minoica! Non Aphrodite, ma una divinità primordiale, una Grande Madre! Oddio, è bellissimo! E le dee dei serpenti esistono, ci sono pervenute delle statuette, io sono stata a Cnosso e le ho viste!”
“Beh, qui dicono altro. Lei ha delle intuizioni, per carità, ma è fuori strada per il resto. È ora di cena.”
Si impuntava. Lei si impuntava, ma tutti gli altri avevano capito e tanto mi bastava.
Nel nostro corso c’era anche il proprietario del ristorante, che era abituato a vedere quel tipo di seminari, poiché venivano fatti quasi sempre presso di lui, quindi era totalmente dalla mia parte.
Durante la cena l’istruttrice si vantò di essere stata per anni un insegnante di scuola (e tutti ci domandammo insegnante di cosa!) e poi delle sue grandi capacità, che nessuno capì quali fossero. Mentre tesseva le proprie lodi, mi lanciava occhiate in tralice, pensando, immagino, di impressionarmi, ma io avevo tutt’altro per la testa e non la stavo nemmeno ad ascoltare.
Poi, ci diede il compito per l’indomani.
Come era prevedibile, avremmo dovuto fare un certo esercizio di respirazione prima di dormire, avremmo dovuto percorrere di nuovo i nostri piccoli circuiti e cercare di ricordare i sogni, in modo da poterli scrivere appena svegli.
Poi, ci disse che l’indomani avremmo dovuto svolgere dei compiti, diversi per ognuno. Arrivata a me mi guardò con la coda dell’occhio, divertita: “Oh, tu avrai un compito pericoloso!” la guardai perplessa: “Sai nuotare?” mi chiese con sufficienza. “Beh, facevo apnea!” risposi.
“Si, ma sai nuotare?” ero piuttosto sbalordita: “Ma…ma se facevo apnea!” e lei, di nuovo: “Va bene, ma sai nuotare?” e io, a quel punto: “Ehi, ho detto che facevo apnea, non che andavo a ferro da stiro!” sbottai.
Il ristoratore, seduto accanto a me, a quel punto scoppiò a ridere: “Guarda che non ha la più pallida idea di cosa tu stia dicendo!” disse, poi si voltò: “Direi che non solo deve nuotare parecchio bene, ma che è molto abile nelle immersioni. Sott’acqua. Senza bombole”
L’altra ci guardò irritata, forse vagamente consapevole di aver subito un altro smacco, e disse solo: “Ah. Bene, dovrai fare delle offerte all’acqua. Vediamo se ti viene in mente qualcosa e cerca di non caderci dentro.”
Nessuno rispose, ma a qualcuno, a quel punto, scappò una risatina.

“Mi sta rovinando il seminario, quella gallina idiota!”dissi più tardi ai miei, nelle nostre camere.
“Ma tu stai andando benissimo, tesoro, e poi è così affascinante quello che hai visto, a parte la faccenda del toro, naturalmente” mi consolò mamma.
Papà era in brodo di giuggiole per la questione sulla Dea dei Serpenti, perché di quelle statuette se ne erano trovate parecchie, ma mai si era arrivati a comprendere il significato di quella divinità, se tale era.
In quel momento qualcuno bussò leggermente alla porta: era uno dei responsabili dei seminari.
“Scusatemi, ma L. ha detto che ci sono problemi con P.” Noi lo guardammo senza rispondere.
Il giovane sospirò: non aveva sicuramente trent’anni, ma gli occhialini dal bordo dorato e l’aria da ragazzo per bene di buona famiglia, i riccioli biondi ordinati, gli davano un che di molto serioso: “Purtroppo avreste dovuto avere un altro istruttore, ma in questo periodo è molto impegnato con dei corsi di aggiornamento e non poteva essere qui. Le date sono state spostate all’ultimo momento e non avevamo nessun altro sottomano, a parte P., solo che, effettivamente non è all’altezza. Potete non far caso a lei?” poi si rivolse a me: “Io sto facendo degli studi sui risultati dei nostri seminari e la tua vita è una delle più affascinanti ed importanti che mi sia capitato di trovare. Se volessi farmi sapere qualcosa di più, darmi un po’ di materiale, io sarei molto interessato”
Mi guardava con due occhioni azzurro bambino curiosi da dietro le lenti da vista, ma per niente invadente o fastidioso. Gli feci un sorriso imbarazzato e promisi di pensarci.
“Però non ero greca e non era Aphrodite” lui sorrise: “Oh, ma è logico! Le nostre ricerche possono essere imperfette. Vedi, oggi Creta e le altre isole si quell’area sono effettivamente Grecia e questo è sicuramente un primo elemento fuorviante. Per la storia di Aphrodite, io credo…essendo una divinità primordiale, sorta dalle acque, ma indubbiamente successiva alla tua epoca e alla divinità che servivi, è logico che ci abbia tratti ulteriormente in confusione, soprattutto perché si è veramente perduto tutto riguardo quella civiltà.” Sembrava molto soddisfatto sia delle sue conclusioni, che dei risultati che stavo ottenendo.
Ci salutò e fece per uscire e io lo richiamai: “Scusa, ma…perché non lo fai tu l’istruttore? Almeno non sei ignorante!” lui fece un sorrisetto imbarazzato: “Non ho le competenze” si scusò.
Suonava strana come affermazione, veramente, forse se ne accorse anche lui, perché sgusciò via con un rapido buonanotte.

Comunque, anche la vita che stava studiando mio padre era affascinante. Aveva vissuto in un periodo precedente a Marco Polo e aveva percorso la Via della Seta molte volte, vivendo meravigliose avventure degne delle Mille e Una Notte.
Aveva bivaccato attorno a molti fuochi e incontrato genti diverse, su cui, in piccoli blocchi di papiro, se poteva procurarselo, altrimenti di pergamena sottile e molto costosa, appuntava tutto ciò che poteva e disegnava volti e costumi.
Non avevo dubbi che avesse un sentimento molto intenso con le genti del mondo, se lo era portato dietro attraverso i secoli, diventando, ora, semplicemente ciò che già era da molto tempo.

Il bello, però, doveva ancora venire.
Dormii malissimo, ero nervosa e c’erano un’infinità di cose cui non riuscivo a dare risposta.
In che tempo avevo vissuto, per esempio? Prima o dopo Sua Maestà? Perché se era stato dopo, potevo capire il motivo per cui io mi sentissi così sola e abbandonata nell’Universo, ma se era successo prima, allora…perché non ero con lui? Dov’era? Aveva qualcosa a che fare con il mio non ricordare?
Così, in preda a questi pensieri cupi, alimentati dall’irritazione nei confronti dell’istruttrice, passai una notte pessima.
Feci sogni, si, ma strani e confusi.
Sognai fuoco. Incendi, grida, distruzione.
Avevo la sensazione stranissima di volare attraverso la storia, sollevata al di sopra delle miserie del mondo, e di esserne testimone. Poi stavo correndo, inseguita da qualcuno, uomini in abiti neri, perfetti “Men in Black” armati e con occhiali scuri, arrivavo al mare e non sapevo che fare: non avevo una barca, non avevo nulla e loro stavano arrivando.
Mi tuffavo, mi immergevo per non essere vista, ma disperavo di farla franca. Eppure, ecco, appena entrata in acqua, il mare diventava tempestoso, si levavano onde altissime che si schiantavano con rabbia minacciosa e feroce sulla battigia, respingendo i miei inseguitori.
Nello stesso momento la corrente mi portava lontano dalla riva e, quando il pericolo era passato, mi immergevo nelle acque trasparenti e arrivavano i delfini, mi circondavano, mi spingevano, mi cercavano per giocare con loro, mi guidavano.
Dovevo tornare a galla a respirare, ma mi rendevo conto di non averne bisogno. Improvvisamente si era compiuta una strana magia e io potevo restare sott’acqua senza timore, al sicuro.
Mi svegliai e scrissi una sola cosa, che non condivisi mai: “Protetta dal Mare, protetta dalla Terra, protetta dal Cielo. Per quanto male possano farti gli uomini, la Madre ti proteggerà sempre.”
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A colazione l’istruttrice era di una deliziosa sfumatura verdognola: era ovvio che il ragazzo biondo o qualcun altro dell’organizzazione, dovesse averla ripresa.
Mi lanciò un’occhiataccia e si guardò bene dal salutarci, mentre gli altri erano tutti molto carini ed affabili.

Che strana sensazione…Io che facevo parte di un gruppo!  
Persone che si raccontavano, con esperienze particolari, a volte traumi infantili che li avevano portati a scoprire cose fuori dalla comune percezione del mondo e a porsi domande.
Nessuno aveva un’esperienza così forte e coinvolgente come la mia, per loro fortuna, ma era straordinario scoprire l’esistenza di altri “pazzi” che avevano dovuto nascondere aspetti della propria vita al resto del mondo, avevano avuto i miei stessi dubbi, che avevano vissuto la frustrazione di non potersi raccontare.
Alcune loro esperienze mi toccarono profondamente, altri erano semplicemente curiosi, con il bisogno di sapere chi fossero, di avere risposte; un paio vivevano l’ansia della perdita, la mancanza di fede in un aldilà, la paura.
Era strano e dolce sentire le loro storie, la solitudine, le domande senza risposta, l’incertezza, le notti insonni a fissare qualche stella nel buio chiedendosi perché.
C’era una delicatezza d’animo e una speranza ritrosa, nel loro raccontarsi, che mi toccava come mai prima.
E poi c’erano quei due: un tizio dall’aspetto svanito ed esageratamente alternativo e una tizia sulla mezza età, truccatissima, dalla voce acuta e stridula, effetto “gesso sulla lavagna”, che non smetteva di abbracciare tutti, trillando “luce e amore” e vedere angeli per ogni dove, i quali, invece, facevano parte della tribù dei fanatici newaggiari che avevo sempre rifuggito.

Non volevo raccontare la mia storia, ma poiché tutti si confrontavano, lì, attorno ad una tavola imbandita di marmellate casarecce, biscottini, tè e varie bevande alternative, mi limitai a dire che, da piccolissima, avevo avuto degli episodi di xenoglossia durante i quali, si era poi scoperto, parlavo Egizio Dinastico.
Era soltanto una piccola cosa, un frammento iniziale di un’avventura di cui non potevano immaginare la portata e la fatica, ma restarono tutti a bocca aperta e con gli occhi di fuori.
La newaggiara, che sosteneva, con poca originalità, di essere la reincarnazione di Cleopatra, disse che dovevo assolutamente iniziare una strettissima dieta vegetariana per purificarmi e bruciare karma e, poco dopo, mi rincorse dicendo che l’arcangelo Uriel le aveva rivelato che ero stata una bellissima schiava ebrea nell’Egitto di Ramsete (non specificò il numero), il quale aveva perso la testa per me vedendomi danzare e mi aveva voluta come sua favorita, ma io volevo fuggire con gli Ebrei e così mi aveva rincorsa e fatta giustiziare.
Mamma ebbe la sua consolazione, quel giorno: per quanto si fosse impegnata, una figura più babbea non avrebbe potuto farla!
Papà tentò di spiegarle che non c’erano schiavi ebrei durante l’epoca ramesside e che la storia di Giuseppe, Mosè e la fuga dall’Egitto, non aveva mai trovato alcun riscontro storico, tantomeno in quel periodo, anzi, la Grande Sposa Reale Nefertari era stata mediatrice di un matrimonio tra il marito Ramsess Il Grande e due principesse ebraiche, matrimoni che avevano suggellato alleanze politiche tra i due popoli; inoltre la faccenda della bellissima danzatrice l’aveva già scritta qualcun altro, la pulzella non era una schiava e aveva preteso la testa di un profeta come premio.
La bionda ci lanciò tutti gli anatemi noti ed ignoti nella galassia e, per quel momento, se ne stette zitta.

La ragazza che mi aveva difesa il giorno prima, invece, disse di essere certa che dovessi essere un qualche genere di sacerdotessa, visto il tipo di vita che stavamo scoprendo lì e che le piaceva immaginarmi in un tempio oracolare, tipo Siwa, per esempio, o a Philae, se non che, secondo lei, Philae era troppo recente.
E fu così che papà, per la prima volta in oltre trent’anni di matrimonio, si prese una cotta colossale per un’altra donna: gli si illuminarono gli occhi, gli si stampò un sorriso che gli apriva la faccia a metà e cominciò a guardarla adorante, e non smise fino alla fine del seminario.
Immagino che mamma fosse troppo scafata per prendersela, anzi, pareva trovare molto divertente tutta la faccenda, d’altra parte, la ragazza aveva più o meno la mia età.

Poco dopo tornammo ai nostri esercizi. Io ero sempre più toccata sia dai sogni della notte precedente, che dalle esperienze e reazioni dei compagni di corso.
Ci sono persone che, pur non conoscendoti, né avendoti mai incontrata prima, riescono a leggerti nell’anima con grazia e profondità straordinarie.
E ci sono persone, al contrario, tanto invasate e fanatiche, preda di forme di isteria visionaria, generalmente ed inevitabilmente ignoranti, da convincersi di detenere verità assolute, piene di spirito di emulazione, fantasie malate, giudizio, incapaci di qualsiasi empatia o intuizione reali.

Il tipo che passava il suo tempo a recitare mantra e assumere complicate asana nel mezzo della sala, sognava per i fatti suoi e non azzeccava una quota della vita che gli era stata suggerita, sostenendo di non essere interessato a quella perché alla ricerca di altro, ma bastava lasciarlo nel suo brodo.
L’istruttrice e la finta bionda, invece, erano sgradevoli, nella la loro invadente ignoranza, nel loro fanatismo e le fissazioni categoriche sulla vita, non la loro, ma di tutti i restanti sei miliardi di abitanti del pianeta.
Il dovermici confrontare in modo così diretto, però, mi stava aiutando a riconsiderare, almeno in parte, le mie paure: erano persone molto diverse da me, del tutto eradicate dalla logica e da uno spirito di ricerca coerente, preda di stati emotivi primordiali di cui erano totalmente succubi.
Non cercavano conferme, anzi, le sfuggivano per timore di essere smascherate e si ponevano su piedistalli di caparbia ottusità. Ciò che loro non conoscevano era sicuramente negativo, sbagliato, non esisteva o era di nessun interesse e correggerle, o indicare loro un’altra ottica per un determinato argomento, era offensivo, chiaro segno di malattia mentale e perversione.

Durante la passeggiata nelle spirali di sassi dipinti, riflettei a lungo su questi aspetti.
La mia disperata ricerca di conferme mi poneva su un piano veramente diverso da costoro o non era che un modo un po’ più raffinato di essere una pazza disadattata?
Arrivata al centro del mandala alzai gli occhi: in attesa del suo turno c’era la ragazza che mi aveva vista sacerdotessa a Siwa. Incontrò il mio sguardo e mi sorrise. 
Fu un attimo strano, una sensazione simile a quelle avute ad Al Uqsur: la vedevo con i jeans e i capelli corti piuttosto ricci seduta sul muretto là di fronte, e allo stesso tempo con lunghi capelli scuri mossi dal vento, seduta sul ramo di un grande ulivo, come in una doppia esposizione fotografica. Indossava una tunica bianca, legata in vita, e un corto grembiule di tela simile a sacco.
“Essena” pensai.
Non era la vita e il tempo che le erano stati indicati, ma per un attimo fui certa di avere ragione.

Poco dopo andai a fare le mie offerte all’acqua: l’istruttrice mi indicò non un torrente, come mi sarei aspettata, ma una cisterna mezza vuota, con dentro poca acqua sporca e stagnante.
“Perché mi mandi là?” le chiesi: “Posso andare giù al torrentello, no?  È acqua viva, almeno!”
Lei fece una faccia sprezzante: “Seeee, così se ci finisci dentro non possiamo nemmeno venirti a prendere!” la guardammo allibiti.
“Scusa” disse un ragazzo: “Ma non pensi che, al di là dell’improbabilità che finisca nel torrente, se mai dovesse succedere non avrebbe che da alzarsi in piedi e uscire? Se finisse nella cisterna, allora si che sarebbe un casino tirarla fuori!”
Aveva perso di nuovo, ma non mollò: decise che dovevo andare alla cisterna per forza.
Fu una brutta esperienza offrire fiori e sassolini (non avevo conchiglie), pezzetti di biscotti e un po’ di formaggio avanzato ad una cisterna maleodorante.
Chiesi perdono all’antica Dea Madre minoica, pregai che trasformasse il marcio in nettare e gettai le mie offerte.

Tornando alla sala del seminario ebbi una sensazione stranissima: era come se avessi attraversato una porta d’aria densa e mi trovassi in un altro luogo.
Mi guardai le braccia: erano brune e nude, vestivo una tunica celeste fermata su una spalla, una sopravveste di stoffa più rigida e ricamata da bande orizzontali di diversi colori, con una fibbia d’oro al centro.
Scendevo uno stretto sentiero ripido che portava al mare, dove una grossa barca da pesca aspettava attraccata ad un piccolo molo.
Parlavano una lingua che più o meno capivo, dalla particolare maniera di pronunciare la esse, con un leggero sibilo. “Greci”, pensai.
Erano costoro pescatori di spugne e madrepore e stavano scaricando delle ceste che alcuni giovani prendevano in spalla e portavano su, verso l’altipiano dov’erano il villaggio e il tempio.
Era una strana isola, quella: un’alta cima montuosa che cadeva a picco sul mare, con coste impervie, un lungo declivio dalla parte opposta, un morbido scivolo di verde, quasi pianeggiante nella sua ampia sommità, costellato di villaggi, tempietti e i due templi principali, campi e boschi, che digradava dolce e terminava in piccole spiagge di sabbia nera che si tuffavano in un anello di mare interno, circondato dal resto dell’isola, dove le tempeste non arrivavano, se non come un’eco delle mareggiate al di fuori di quel luogo idilliaco.
L’isola intorno era una terra fertile e bruna, ricca di minerali, prodiga di doni, dalle coste frastagliate di numerose, piccole calette e spiagge scure e, là dove la costa era a picco, erano sentieri dalle curve profonde, costruite a grandini, che portavano alle spiagge, ai porticcioli, a grotte che allagavano con la marea, a scogliere da cui i ragazzi si tuffavano in gare di coraggio.

Conoscevo l’uomo che era in piedi sulla barca: era un marinaio della terraferma, un greco, abile pescatore di spugne, coralli e madrepore dal tocco fortunato, che portava sempre la merce migliore, si diceva, per grazia degli déi, ma io sapevo che la grazia era del Popolo Sherden, che gli permetteva di immergersi dove ad altri non era permesso.
Mentre la breve fila di ceste saliva, io gli porsi una borsa di monete, ci fermammo a scambiare alcune parole nella mia lingua.
Era il tramonto e decise di non partire fino all’indomani, così approntò un piccolo campo accanto al porticciolo per sé e i suoi tre uomini. Gettò uno sguardo sornione verso un gruppo di ragazze e, con ostentata indifferenza, cominciò a sfregarsi il corpo di cenere e olio, chiedendo loro acqua dolce per potersi lavare via quella brutta salsedine.
Scossi la testa divertita e risalii al tempio.

“Marabel!” era papà. “Ti ho chiamata diverse volte! Camminavi come una sonnambula, che succede?”
Mi ci volle un po’ per capire dove e quando fossi. Mi guardai: indossavo una maglietta di cotone morbido, color ruggine, una gonna di cotonina indiana a pieghe sottili nei toni del rosso, scarpette da tennis leggere.
Niente tunica celeste, niente isola, niente pescatori di spugne e madrepore.
“Dai, gli altri sono già quasi tutti seduti, P. stava parlando con il direttore di sala per i tavoli, ma se non ti vede comincia a fare battute cretine! Prima mi ha chiesto se per caso fossi annegata” disse in fretta, sottovoce.
“Pà, è una cretina senza senso, quella donna! Se l’hanno già ripresa, cosa continua ad essere così pesante? In ogni caso, non ho intenzione di condividere con lei! Insomma, dirò il minimo indispensabile!”
Sedemmo ai nostri posti e io mi appoggiai al banchetto rivoltabile della sedia e, mentre gli altri iniziavano la condivisione, mi accinsi a fare uno schizzo della mia isola.
Papà osservò di straforo ed emise uno strano verso gutturale: “Ma hai capito dov’è?” mi sibilò nell’orecchio. “Bah, non lontano da Creta, direi. Però io ho una strana sensazione…”
“Quale?”
“No, che…che…manchi qualcosa. Che intorno dovesse esserci un’altra terra emersa, ma poi…” ed ebbi un’illuminazione: “Ma certo!! L’Egeo non è sempre stato così! Ha l’aspetto attuale solo da circa seimila anni!”
“Pensi di vivere qualcosa precedente al quattromila avanti Cristo?” sembrava vagamente preoccupato: “No, ho visto alcuni greci, penso agli albori della loro civiltà, intorno al duemila avanti Cristo, o pure dopo, ma le terre emerse erano ancora un po’ diverse da ora, c’era più  roba, qua e là. Creta aveva un’estensione maggiore. Non so come lo so, o meglio, è che lo sapevo allora e quindi lo so, anche se nelle visioni non l’ho vista. Sembro scema, si?”
Lui sorrise.

“Volete andare a fare conversazione fuori?” chiocciò petulante l’istruttrice.
“Potremmo” risposi secca: “Almeno saremmo sicuri di parlare con qualcuno in grado di capire i nostri discorsi”
La tizia mi guardò velenosa, i nostri compagni stentarono a trattenersi dal ridere: “Io non voglio escano!” disse un ragazzo ateo, alla ricerca di risposte sulla vita e la morte: “Marabel racconta cose troppo interessanti!” quasi tutti gli altri erano d’accordo, perfino il tizio fissato con l’hata yoga annuì gravemente.
Mi piacevano, ma la loro fiducia nei miei ricordi era sempre più imbarazzante.
Se all’epoca avessimo avuto Google Earth e un po’ delle notizie che abbiamo oggi, l’avrei vissuta molto diversamente.
Quando fu il mio turno, senza raccontare nei particolari, mostrai lo schizzo, la forma dell’isola, il porticciolo, i templi e spiegai che, nelle immagini che mi si presentavano, Creta aveva una forma a fagiolo, più cicciotta rispetto ad oggi.
La ragazza che avevo visto come Essena studiò un bel po’ il mio foglio, pensierosa. “Posso fare una fotocopia?” sussurrò restituendomelo.
Andammo a pranzo, poi una mezz’oretta libera, per riposarsi e riprendere fiato, io andai in camera mia a prendere qualcosa per il mal di testa, o non avrei retto l’intero pomeriggio. Più che altro non avrei retto quella donna!
Crollai appena posata la testa sul cuscino.

Era un altro tempo.
L’Egeo era molto più basso di oggi e anche del periodo in cui viveva la sacerdotessa, le terre emerse erano smeraldi nella luce argentata di acque chiare e trasparenti come vetro, profonde da pochi metri a poche decine, e giardini lussureggianti costellavano costruzioni bianche affrescate di blu, giallo brillante e rosso carminio.
Osservavo piccole barche scivolare leggere sui flutti trasparenti, fino ad una linea di confine tra le acque basse e un improvviso blu intenso di mare aperto e profondo, nel quale veleggiavano splendide ed agili navi dai colori sgargianti.

Mi sciolsi i capelli: portavo un fermaglio di madreperla che li stringeva, tirava qua e là e mi faceva venire mal di testa: “La tua anima non vuole costrizioni” disse una voce al mio orecchio.
Mi appoggiai al corpo alle mie spalle, ridendo: “No, evidentemente non posso legare la mia anima” risposi. “Ma l’hai legata a me” sentivo le sue labbra contro la tempia: “Non l’ho legata, né ho legato la tua. Mi sono fusa in te. E tu in me. È così e basta!” il morbido tepore delle labbra si allargò in un sorriso.
Mi avvolse con le braccia e mi rilassai contro di lui, assaporando la sua presenza. Vivevo un senso di estasi, di pace e appagamento in quel gesto. Restò in silenzio per un po’.
“Ci sono state altre scosse di terremoto, a Sud” disse poi, con un’intonazione diversa, preoccupata.
“Non le abbiamo sentite, qui” risposi. Mi pareva così strano, sentivo sempre anche le scosse più leggere.
“No, dovevano essere a grande profondità e lontane, ma questo non significa che non possano creare danni in superficie. I vulcani sono tutti attivi e piuttosto rabbiosi, tendono ad esplodere, invece che eruttare fuoco liquido…potrebbero essere disturbati anche da un terremoto leggero. Dovremmo trovare un modo per prevedere le eruzioni, almeno per poter salvare il più possibile.”
“Le eruzioni sono sempre precedute da terremoti” replicai.
Quei fenomeni erano frequenti, nelle nostre terre, non potevamo evacuare la popolazione ogni volta, non era possibile e non avrebbe avuto senso. Come potevamo distinguere quelli che potevano essere pericolosi dai normali movimenti della terra?

Mi svegliai. Provai un senso di rimpianto doloroso che mi tolse il fiato e di felicità, come mi succedeva ogni volta che riuscivo a sognarlo, a percepirlo così forte.
Avevo dormito pochi minuti. Scrissi il sogno, ma non ne parlai.
Scendendo nell’aula, riflettei: dubitavo di aver fatto quel sogno a casaccio, era troppo preciso e si riallacciava direttamente allo schizzo del mattino.
Il Mar Egeo iniziò ad avere un aspetto simile a quello odierno a partire dal novemila avanti Cristo, con la fine dell’ultima glaciazione, e continuò il lento riempimento per i seguenti sei, settemila anni. L’ambiente che avevo visto era sicuramente l’arcipelago oggi greco per massima parte, ma mancava ancora un bel po’ di acqua e le isole erano grandi, collegate da lingue di terra e istmi, con bracci di mare che si insinuavano in profondità creando fiordi, golfi, disegni d’acqua e terra che giocavano con la luce, quindi, quello che vedevo, doveva essere precedente al tempo che stavo studiando di almeno tre o quattromila anni.
La civiltà Minoica è un immenso segreto, ancora oggi. La lineare A una lingua sconosciuta, di cui non si riesce a trovare la chiave. Negli anni l’avevo osservata spesso, ma non con sufficiente attenzione, immagino.
Aveva qualcosa di familiare e qualcosa di mancante, come una lettera sbiadita di cui alcuni pezzi siano stati cancellati, rendendo illeggibili i caratteri e soprattutto le frasi compiute, ma non avevo mai avuto voglia di impegolarmi in una ricerca vana, così, senza un punto di partenza su cui lavorare, avendo già abbastanza di mio cui pensare.
Ma se, invece che essere il periodo più fiorente, quello che noi conosciamo fosse stato l’ultimo colpo di coda di una civiltà molto più antica la cui terra, pian piano, lasciava il posto al mare?
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Andai in segreteria a fare la fotocopia per la mia compagna e mi incamminai verso l’aula.

Al posto dell’istruttrice, seduta in disparte, c’era un ragazzo alto e magro che avevo intravisto un paio di volte e che doveva farci fare degli esercizi per portarci a prima della nostra nascita: secondo alcune teorie, infatti, nel periodo della gestazione, l’anima del bambino è libera di entrare ed uscire dal suo futuro corpo e sa chi è, si conosce e ricorda con facilità ciò che ha vissuto, perdendo poi la saggezza nei primi giorni della nuova vita.
Quegli esercizi avrebbero quindi dovuto portarci a quello stato di coscienza, farci rivivere il periodo di saggezza assoluta e permetterci di aprire delle connessioni con i nostri ricordi ancestrali.
L’istruttrice prese un tappetino e fece gli esercizi con noi.
Mi sentii sollevata: il ragazzo era serio e preparato, non trattava nessuno con condiscendenza o sufficienza e speravo ardentemente restasse.
Persi completamente la nozione del tempo, che probabilmente era esattamente quello che avrebbe dovuto succedere, e fui guidata attraverso dimensioni oltre il tempo e lo spazio, fino a trovarmi avvolta in una bolla rosea, tiepida, morbida al tatto, quasi vellutata. Dovevamo percepirla con le mani, la faccia, i piedi, muoverci e tastarla, cercando di allargarla o aderirvi, dovevamo giocarci e poi sentirci espandere, oltre il corpo fisico, oltre la bolla, oltre bolle più sottili e leggere di altri colori.
Infine, dovevamo aprirne una parte con le mani, pian piano, ed uscirne.
Mi dispiacque un sacco quando finì: mi sentivo finalmente riposata, rilassata e serena, perfino allegra.
Poi ci fu una passeggiata in una spirale e il lavoro sui circuiti radionici.
Ci portarono salatini e frutta per merenda e mi accorsi di avere fame come fossero passati secoli dall’ora di pranzo. Avevo storto il naso, sul momento, pensando che la merenda potesse distrarci, ma mi accorsi di avere i crampi allo stomaco.
“Ho una fame da neonato! Mi metterei a urlare e mordermi i pugnetti, se non avessi passato da un pezzo l’età della poppata” disse un ragazzo alla fidanzata.
Forse era proprio quello che eravamo: neonati appena usciti dall’uovo cosmico che erano le nostre mamme. Eravamo tutti un po’ euforici.

Finita la merenda tornammo al lavoro, armati dei nostri notes.
Dovevamo guardare, a scelta, dentro un oggetto e dire o scrivere, quello che vedevamo o provavamo.
Gli oggetti erano: uno specchio; un’Ossidiana levigata a specchio leggermente convessa; una bacinella di peltro piena d’acqua.
“Avremmo voluto mettere anche il fuoco, ma come potete immaginare sarebbe stato un po’ problematico” si scusò il ragazzo.
Ci spiegò come saremmo entrati in uno stato di leggera trance, ci affidò all’istruttrice e se ne andò.
Peccato, accidenti!

Io volevo l’acqua, mi attraeva irresistibilmente. Purtroppo, essendoci solo un oggetto di ogni tipo, dovevamo aspettare il nostro turno.
Sedetti in attesa e sentii la vocetta stridula della newaggiara ammonire (rimproverando gli organizzatori) di non prendere l’Ossidiana, che è una pietra nera demoniaca, uscita dall’inferno: alcune persone sensibili, guardando nell’Ossidiana, non sono più in grado di tornare indietro e finiscono per impazzire, trascinate dai demoni.
L’istruttrice ridacchiò, dicendo che il loro programma era assolutamente sicuro ed erano in grado di gestire casi disperati (e lanciò un’occhiata verso di me), ma i nostri compagni, non avendo grande fiducia in lei, storsero il naso verso la pietra e si misero in fila per l’acqua e lo specchio, così papà e io avemmo l’Ossidiana tutta per noi.
Decidemmo che, mentre uno faceva l’esercizio, l’altro avrebbe preso appunti e papà volle a tutti i costi che io facessi l’esercizio per prima.

Era una bella giornata serena, una leggera brezza arrivava da Oriente portando profumi di rosmarino, resine e mare. Le novizie scherzavano tra loro, indossavano tuniche leggere, semplici tubini di lino grezzo con spalline sottili e si rincorrevano ridendo, dirette verso un qualche posto.
Mi avvicinai: era l’ingresso di una grotta dalle pareti levigate, qua e là affrescate da molte generazioni di pittori e pittrici che ricalcavano e ridisegnavano le scene originali, arricchendole e cambiandole di volta in volta.
Le ragazze corsero verso una piccola piscina naturale di acqua calda e vi si buttarono dentro, cominciando a schizzarsi. Io, con una brocca, mi avvicinai ad una fontanella, continuando ad osservarle e a sorridere del loro gioco. Era mattina e non c’erano i ragazzi che spesso si intrufolavano per godere dell’acqua termale e, soprattutto, della compagnia delle sacerdotesse.
Toccai l’acqua e mi sfuggì un piccolo grido: scottava.
“Ragazze, uscite subito!” dissi, cercando di mantenere la calma.
Le ragazze mi guardarono atterrite, poi schizzarono fuori dalla vasca e corsero all’aperto, senza nemmeno prendere le loro tuniche.
Il controllo quotidiano di quelle sorgenti sotterranee era uno dei compiti principali delle somme sacerdotesse: la piscina naturale era formata da un’acqua curativa tiepida, l’altra, la fontanella, doveva essere controllata ogni giorno: se era fresca tutto andava bene e se ne prendeva una brocca, di cui si offriva la metà alla Dea Madre, l’altra metà, consegnata ad un sacerdote, al dio maschile.
Se invece non era più che fresca, ma cominciava a scaldarsi, bisognava prepararsi ad un’eruzione, generalmente trasferendosi sull’anello esterno dell’isola, dove aspettare che tutto tornasse alla normalità.

Quel mattino scottava: il giorno prima era freschissima e limpida, ora scottava ed era come intorbidita da un velo oleoso.
Corsi fuori a dare l’allarme, mandai messaggeri per tutta l’isola con l’ordine di evacuare immediatamente, prendendo solo lo stretto necessario.
I sacerdoti e il governatore, appena avvisati, ripeterono il mio ordine e fecero mettere in acqua tutte le barche disponibili, richiamando anche quelle abbastanza vicine alla costa con segnali da terra.
Nel giro di poche ore tutta l’isola era evacuata, gli abitanti erano tutti stipati sulle barche, pronti a salpare.
La mia fu l’ultima barca a staccarsi dalla costa. Per quanto fossero partite da ogni caletta, spiaggia e porticciolo tutto intorno all’isola, io attendevo un segnale convenuto, con specchi o un uccello nero.
Da un po’ la terra aveva cominciato a tremare, con continue scosse sempre più prolungate, dal suono sordo e cupo che proveniva dalle profondità, ma solo quando vidi levarsi in volo l’uccello diedi l’ordine di partire.
La mia barca era capitanata dal pescatore di spugne: “Signora, non andiamo verso Sud, è troppo pericoloso!” non capivo: tutta la flotta si sarebbe diretta verso Kriti!
“No, ascoltami! Ci sono molte miglia di mare aperto e se l’eruzione sarà così forte come temiamo, si scatenerà una tempesta con onde altissime e non avremo riparo! Andiamo a Nord: ci sono molte isole dietro cui nascondersi, vicine ed abbastanza elevate da poterci salvare anche dal maremoto!
Aveva ragione, lasciai che prendesse la direzione più opportuna e molte imbarcazioni, sebbene con qualche attimo di perplessità, ci seguirono.
Avrei voluto poter avvisare tutti, ma molti erano ormai lontani, al largo, e sperai avessimo tempo sufficiente per metterci in salvo: forse Kriti non era così lontana.

Mi bruciavano gli occhi. Alzai lo sguardo verso mio padre, che mi guardava sconvolto: “Avevo ragione!” sussurrò: “Santorini!”
“Papà, ma sto dicendo delle cretinate! Quell’eruzione spazzò via per sempre la civiltà minoica, dovette essere una strage senza uguali! Come faccio a dire una stupidaggine simile? La gente di Santorini venne sterminata!! Morirono tutti!”
Lui scosse la testa, per un po’ non rispose: “Questo è quello che ci insegnano, Marabel, ma nessuno sa come sia andata per davvero. Le cronache sono racconti successivi, riportati a loro volta da altri testi. Non abbiamo testimoni dell’epoca”

“Certo che no! Perché sono morti tutti nell’eruzione! E poi le ricerche? Gli scavi? Hanno sempre detto che non ci furono superstiti, che tutta la popolazione dell’isola morì in quell’esplosione! Oddio, sto prendendo farfalle, papà, è una cantonata senza senso, è tutto inutile! Dovremmo lasciare stare, questo, il resto, smetterla con le regressioni! Tornerò negli States, voglio andare nel Montana, voglio andare da Floyd! Ora so che era tutto follia!”
Papà mi guardava da un po’, sempre più interrogativo: “Marabel, hanno sempre supposto che la popolazione sia stata sterminata in quell’esplosione, ma non ci sono prove di questo. Neghi ogni cosa abbiamo fatto in quindici anni solo per un particolare che non torna? Senti, io sarei contento se tu andassi da Floyd, se tu fossi felice, davvero felice, con lui, ma…ma non se neghi ogni cosa, la tua infanzia, quando non c’era niente che potesse influenzare le tue sensazioni e il tuo giudizio, le mille cose che abbiamo potuto verificare! E Floyd per primo è completamente convinto che tu sia nel vero, ha sacrificato se stesso per questo, ricordi?”
“Ma hanno trovato dei resti!” insistetti.
“Si, e su vari livelli, anche. Il che significa che, come è logico supporre, ci furono parecchie eruzioni nel corso dei millenni e che l’isola era abitata da molto tempo. E che più volte gli abitanti dovettero subire le furie del vulcano, ma non c’è scritto da nessuna parte che sia stato così ogni volta, soprattutto quella volta. Lo immaginiamo, perché pare inevitabile, perché in seguito i Minoici non furono più loro stessi, si spensero, furono assorbiti dalle civiltà lì attorno. Lo immaginiamo, ma potremmo sbagliare.”
“Papà, senti: io ho detto altre sciocchezze! Ho disegnato l’isola come ricca di approdi e così l’ho vista qui, un attimo fa, addirittura con un mare interno, ma non è così! Le ricostruzioni di Santorini indicano che c’era un solo porto e che per il resto l’isola era completamente a picco sul mare, con faraglioni di un centinaio di metri! È tutto sbagliato!” insistetti ancora, caparbia.
Stavo sbagliando: era stato così bello, così logico, credibile, ero così sicura di ogni cosa, fino a poco prima, e ora…ora dovevo tornare con i piedi per terra.
Erano sogni, visioni, fantasie. Decisi di interrompere l’esercizio e andai a chiamare mamma perché assistesse papà.
Ero molto triste e angosciata, avrei voluto fare i bagagli ed andarmene, prima di cadere vittima del fanatismo e diventare come la finta bionda.
Ricordate che siamo nel settembre dell’ottantasette, ragazzi, non l’altro ieri!
Le cose che si sapevano e raccontavano allora non lasciavano spazio ai dubbi, erano categoriche, come d’altra parte lo è qualsiasi scoperta, appena prima di essere negata dalla successiva.”

Io ero sicura che Marabel avesse torto e suo padre ragione.
Ero sicura che le cose dovessero essere andate come diceva lei quando non ci metteva il cervello razionale, ma ammetto che c’era anche roba che non tornava: avevo visto, qualche volta, servizi, documentari o articoli su Santorini e mostravano, prima dell’esplosione, un’isola impervia, praticamente una montagna che usciva dal mare, scoscesa, con un altopiano privo di attracchi, se non per un unico porto stretto tra due moli a tenaglia. 
Però, quel che mi aveva sempre colpita, era che l’isola veniva chiamata Kallisté, la più bella, e il nome non mi pareva così adatto alle ricostruzioni.

“Scusa, Marabel, io ho trovato un paio di ricostruzioni, qui. Molte sono totalmente inaffidabili, volendo a tutti i costi associare Santorini ad Atlantide, ma un paio sono serie e…” disse Franco.
Lei fece una smorfietta: “Lo so. Oggi mostrano una montagna con un anello di mare interno e l’isola attorno, semicircolare, ma sono recenti e nell’ottantasette nessuno, ve lo assicuro, mi avrebbe dato un centesimo per quelle descrizioni.
Mamma pensò anche che potesse trattarsi di un altro evento, molto simile, forse quasi contemporaneo a Santorini: pensava che, essendo l’area fortemente sismica, non sarebbe stato strano se l’eruzione di un vulcano avesse innescato una sorta di effetto domino su uno o più vulcani vicini, oppure poteva trattarsi si un’eruzione precedente a quella definitiva.
Papà, invece, non era convinto: le premesse mostravano che dovesse essersi trattato di qualcosa di spaventoso, mai visto prima, in quanto la temperatura e la viscosità della fontanella erano mutate ad una velocità straordinaria, cosa, a quanto pareva, mai successa in precedenza, a giudicare dalla reazione della gente.
E poi c’ero io, ormai del tutto convinta di aver preso una cantonata epica.”

“Ma allora? Cosa hai fatto?” chiesi.
Ero in ansia: Marabel non poteva essersi arresa, non per un paio di particolari che non le tornavano! Poteva il castello che avevano costruito nell’arco di anni, con l’aiuto di esperti in almeno tre diversi campi, crollare per la forma di un’isola e un singolo avvenimento che non sembrava corretto?
“Scusa, non avresti potuto semplicemente aver sbagliato quella cosa lì e non tutto il resto? I tuoi compagni vedevano tutto giusto, per esempio?”

“Ecco, in verità no. Diversi non ebbero grandi esperienze o le ebbero frammentarie e, almeno secondo l’istruttrice, scorrette.
Un ragazzo si impantanò ad un certo punto e poi si scoprì disertore in una guerra della Cina imperiale. Ne fu profondamente ferito finché si rese conto che la sua diserzione non era stata per viltà, ma per rifiuto di combattere per una causa in cui non credeva.
In tarda età si era poi ritirato in un monastero shaolin. Il ragazzo era un esperto di arti marziali, da cui era attratto e in cui eccelleva fin dall’età di cinque anni e questo gli diede un grande sollievo e molte risposte.
La fidanzata, invece, ebbe un’esperienza molto sgradevole che ci portò al famoso litigio: la prima traccia, infatti, la poneva in un’area del Centro America, una zona di fitta foresta equatoriale in un periodo che venne indicato come primi del cinquecento, appena dopo l’arrivo di Colombo.
Lei si vide come un giovane cacciatore, camminare tra alberi altissimi, con un paio di fratelli e il padre, armato di sottili frecce al curaro, lance corte (spiegò per non intralciarli nella vegetazione) e lunghi coltelli.
Riuscì a descrivere e disegnare le meravigliose pitture che usavano, le acconciature di piume, gli aghi di istrice che erano abituati ad infilarsi nelle guance, gli orecchini d’osso, il loro modo di ridere, di cacciare, di muoversi.
Cambiò perfino il modo in cui lei, ora, si muoveva: diventò silenziosa e felina, sembrava quasi cambiassero i suoi lineamenti sotto i nostri occhi. Ne eravamo incantati!

Poi, le venne data un’altra traccia in cui le si diceva che percorreva grandi distanze a cavallo, ma questo era completamente fuori senso! Giustamente, lei non riusciva assolutamente a vedersi a cavallo, papà non resistette e chiese se fosse certa la datazione.
L’istruttrice disse che era assolutamente certa e non vedeva dove fosse il problema.
Fu allora che sbottai: nei primi anni del cinquecento i cavalli non esistevano nel continente americano, se non per i pochi portati dai conquistadores, come nell’odierna Cuba, nel 1511, che fu probabilmente il primo incontro delle popolazioni indigene con queste creature, che identificarono, appena capirono cosa fossero, come grandi cani.
All’inizio, vedendoli montati dai soldati, entrambi con indosso armature, pensarono che uomini e animali non fossero due cose distinte, ma una creatura metà umana e metà animale, una specie di divinità o di demone.
Inoltre, ancora oggi, in centro e sud America, il cavallo non è usato dentro la foresta equatoriale, ma in zone aperte, o di boscaglia e montagna!

L’istruttrice, che come sappiamo era di un’ignoranza record, ci derise, dicendo che tutto il mondo sa che gli indiani sono tutt’uno con il cavallo e lo allevano dalla preistoria!
Si scatenò un putiferio! A quanto pare la finta bionda, lei e la barista erano le uniche a non sapere che il cavallo, nel continente americano, si estinse almeno un milioncino di anni fa e non riapparve se non con i conquistadores!
La tizia continuò a strillare che l’America è piena di cavalli, e tutti noi a dirgliene di tutti i colori.

Questo accadde un paio di ore dopo l’esperienza con l’Ossidiana, subito prima di cena, quando ero appena ridiscese dopo il mio tentativo di fuga e, beh, mi diede molto conforto: la mia compagna aveva una traccia certamente scorretta, storicamente scorretta, ma i suoi ricordi erano molto precisi e, al contrario, storicamente corretti.
Non storicamente di una storia addomesticata e violentata da varie censure, ma storicamente in modo serio, fondamentale.
Quindi, scoprii, gli organizzatori potevano avere torto e i partecipanti potevano, nonostante questo, avere rivelazioni nette e precise.
Credo che quella ragazza sia stata la più precisa nei suoi ricordi, tra tutto il gruppo, riuscì a costruire frecce e una specie di rete in fibre vegetali, come non avesse fatto altro in tutta la vita, ma, quella sera, era depressa quasi quanto me e tutti, senza esclusione, andammo a cena infuriati e delusi.
Dopo cena l’istruttrice ricevette una telefonata, si assentò con un torno subito e il biondino della sera prima ci raggiunse in sala da pranzo. Eravamo di pessimo umore, mezzi intenzionati ad andarcene la mattina seguente, ma lui sedette, offrì caffè e dolcino a tutti e ci chiese di raccontare cosa fosse successo e come ci trovassimo con P.
Si appuntò lamentele e dubbi, sempre più cupo, infine ci salutò dandoci appuntamento per l’indomani alle nove e mezza per colazione, perché per problemi tecnici avremmo iniziato con un po’ di ritardo.

La mattina dopo trovammo ad accoglierci un signore alto, dalla faccia simpatica, zazzera rossa e barbone, molto facile al sorriso e dalla risata fragorosa. Disse che purtroppo non avrebbe avuto tutto il tempo necessario da dedicarci, per via dei suoi impegni, ma avrebbe fatto del suo meglio e poi avremmo avuto, se lo volevamo, un seminario di risarcimento nell’anno nuovo, in data da destinarsi.
La finta bionda si disse scandalizzata dal trattamento riservato alla povera P.,  la barista era molto a disagio: lei aveva molta fiducia in quella donna e non capiva perché tutti ci accanissimo tanto con lei.”

Presi fiato: “Meno male, Marabel, avevo io l’ansia per quella lì! Spero tu non l’abbia più vista!”
“Oh, beh, la incrociai qualche volta, ma facemmo finta di non conoscerci”
“Va bene, va bene, ma veniamo alle cose importanti!” intervenne Franco: “Insomma, come è andata a finire? Sei andata avanti, cosa hai scoperto, poi?”

“La notte dormii pochissimo, mi addormentai verso l’alba: ero nervosa e piena di eccitazione per la piega presa dalla situazione. Da una parte ero nervosa per via di quell’orribile donna, dall’altra felice che l’avessero cacciata, infine continuavo a riflettere sulla nostra compagna di corso e su di me.
Con la mia fuga e poi la litigata, non avevamo terminato la condivisione ed avevamo tutti il muso finché l’istruttrice non era stata allontanata. Verso le dieci, dopo la visita del biondino, ci eravamo rilassati ed eravamo euforici, presagendo che non l’avremmo più rivista, così imbastimmo una condivisione tra noi, eleggendo mamma a moderatrice imparziale.
Era un gioco, ma venne fuori benino, devo dire. Io, ormai rasserenata, spiegai i miei dubbi, la mia voglia di mollare tutto, ma i miei compagni ritenevano che stessi sbagliando a pensare di sbagliare ed erano invece interessati alle mie intuizioni.
La ragazza “essena” disse di avere notato subito la somiglianza tra il mio schizzo e l’odierna Santorini, di cui si era procurata una foto aerea che sovrappose alla fotocopia: c’erano somiglianze troppo interessanti per essere casuali e lei era convinta che le ricostruzioni non fossero corrette.
Di tutti noi era l’unica ad aver visitato quei posti.
Così, il giorno dopo, nonostante avessi dormito circa tre ore, mi sentivo di nuovo fiduciosa. Insomma, quasi fiduciosa.
Ci furono nuovi esercizi, molti fatti con i colori, il rosso ci fece fare dei disegni, poi ci portò nel boschetto lì vicino, che secondo lui ci avrebbe aiutati a riflettere e ci fece seguire i nostri circuiti radionici per un po’.
Buttammo giù i nostri appunti per mezz’oretta e ci fu la condivisione.
E, poco dopo, io rivelai al mondo, o almeno ad un ristrettissimo pezzo di mondo, cosa fosse accaduto nel milleseicentocinquanta avanti Cristo.”

Marabel a quel punto si interruppe, pensosa.
Ma come, Franco e io penzolavamo dalle sue labbra come due lemuri da una liana e lei si interrompeva così?!?
Emisi un guaito sofferente e lei fece una smorfia buffa: “Io dovrei…dovrei…”
“COSA?!?”
“Dovrei avere…”
“MARABEL!!”
Si infilò dietro al divano, dove al mattino aveva lasciato il borsone e la borsa da lavoro, e si mise a frugare per un po’, poi riemerse trionfante: “Eccolo!!”
Aveva in mano un quadernetto di quelli della nonna, nero con i bordini delle pagine rossi, una finta etichetta bianca stampata sulla copertina. Era sgualcito e mi parve vecchietto: “Il tuo quaderno delle elementari?” osservai basita.
Mi fece una linguaccia: “No, è troppo moderno, ai miei tempi si usavano tavolette d’argilla, sai…È un quaderno che mi porto quasi sempre, se sto via a dormire. Ormai è finito, ma ci sono dentro sogni e visioni che mi serve rileggere, di quando in quando.”
Lo sfogliò e, ad una quindicina di pagine dall’inizio, mi mostrò quello che stava cercando.
Una scrittura fitta, piuttosto piccola, elegante ed ordinata, ma di non facile lettura, uno scritto a matita morbida, forse per poter correggere senza pasticci, riempiva le pagine sotto i miei occhi.
“Leggo io o leggi tu?” io la guardai dubbiosa: non ero sicurissima di capire tutto.
Lei sorrise incoraggiante: “Io sto parlando da ore e non mi sopporto più, inoltre ho la gola secca. Tu sei dislessica e scrivi molto peggio di me, quindi vai!”
Mi aveva messa all’angolo.
Presi cautamente il quaderno e mi schiarii la voce. “Sora, parla chiaro, eh!” mi intimò lo schermo.
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Il Marinaio dirige verso le isole a Nord, non lontane, con l’intenzione di doppiarle, avvertire la popolazione locale di allontanarsi dalla costa e salire sulle zone più elevate, portare le barche sulle coste Nord spingendole il più possibile sull’arenile, al riparo, perché non sappiamo cosa succederà per davvero.
Uno dei suoi uomini mi mostra una tavola con disegnate sia la nostra casa che le isole verso cui siamo diretti. A Sud, lontanissima, è disegnata anche Kriti e io osservo con terrore l’ampio braccio di mare senza approdi che la divide dalla mia isola. Avevamo solo due navi disponibili e una è là, veleggia davanti a noi, elegante e fiera, l’altra ha caricato molta gente ed è diretta verso Sud.

Le isole sono disposte come una barriera, in effetti: una ha forma allungata, con una coda verso Occidente, molto stretta, che si allarga nuovamente quasi a forma di pesce, l’altra è più grande e quasi rettangolare. Più in là, verso Est, un’altra isola che in parte si piegar su se stessa, ad angolo, ma per noi, ora, è troppo lontana.
Il Greco spera che il vulcano ci dia qualche ora di tempo, vorrebbe risalire ancora, oltre lo stretto, verso un paio di grandi isole montuose, probabilmente abbastanza lontane e sicure, sarebbe bello, non sono molte miglia, una volta doppiate le prime.

Aggrappata allo scafo vedo il mare assumere una colorazione strana, livida, verdastra, l’acqua sembra intorpidirsi e, quando la tocco, è calda.
Uccelli, banchi di pesci di ogni forma e dimensione stanno fuggendo, tanto che più volte cozziamo contro qualcosa che ci fa ondeggiare e il marinaio ci mostra come i pesci, colti dal panico, non si curino di urtarci nella loro fuga. È inquietante. Questo potrebbe rappresentare un pericolo ulteriore, se la situazione peggiora.
Alzando gli occhi vedo una moltitudine di barche viaggiare nella nostra stessa direzione, alcune si dividono e puntano a Nord-Est, così da non rischiare di speronarci al momento del passaggio negli stretti tra le isole.
Un paio di bambini piangono, devo mostrarmi sicura di me, cerco di consolare e rassicurare, faremo presto, andrà tutto bene, gli déi ci proteggeranno.
Il mare si sta ingrossando, ma ormai le prime barche sono vicine alle coste: un paio si avvicinano, raggiunte da una nave degli isolani, che subito torna verso riva a dare l’allarme, anche se di certo ormai si sono accorti tutti che qualcosa di grave sta per accadere.
C’è un odore strano nell’aria, l’acqua ha odore di marcio. Alzo gli occhi e vedo dei pesci morti galleggiare giallastri poco lontano.

Siamo nello stretto, uno strano vento caldo ci spinge verso Nord e la stessa corrente ci sta buttando verso la direzione giusta, ma sappiamo di avere il tempo contato, anche se non sappiamo ancora cosa ci aspetti. Il mare è costellato di vele.
Il Greco e io ci scambiamo uno sguardo preoccupato: “Ci siamo quasi, ce la facciamo, non ci conviene rischiare di riprendere il mare, dobbiamo dividerci tra queste due isole”
Molti stanno già attraccando, i marinai aiutano la gente a sbarcare e i locali li spingono a correre, aiutandoli con i piccoli, i vecchi, le poche cose.
Vedendoli risalire la terraferma mi sento sollevata.                                         

E poi la Terra grida.
Non ho mai sentito un simile lamento, è terrificante, mi strappa le lacrime dagli occhi, senza nemmeno piangere.
Un lamento, un gemito di dolore che riempie l’aria, il mare, il cielo e poi un altro grido, più profondo e più forte.
Mi manca il fiato, forse è terrore, forse dolore, forse quel grido risuona in tutto e in tutti, ci ammutolisce.
Poi un boato, indescrivibile, più indescrivibile di quel lamento, e tutto trema, si scuote, la barca rotea su se stessa, la gente grida, anche le altre barche ancora in acqua stanno roteando e l’aria si riempie di urla. Il boato è così forte che ci manca il cuore, come esplodesse dentro di noi e poi lontano, tutto è fuoco, e oscurità qui e ovunque.
Sentiamo degli schianti, urla, capiamo che alcune barche devono essere finite contro gli scogli o forse si sono urtate, ma è così buio, così buio, non pensavo potesse esistere un simile buio!
È denso, appiccicoso, un muro di nero che ci rende totalmente ciechi.

Il sole è scomparso dietro il pesante mantello di pece densa e innaturale, quel grido lacerante, dopo il colpo, è ripreso e diventa sempre più forte.
La Terra grida, tutta la Terra, nella sua immensità.
Abbiamo perso l’orientamento, non vediamo niente e non abbiamo più la rotta, perché avevamo ruotato su noi stessi e siamo immersi in quel buio appiccicoso e denso.
Sento una mano toccare la mia, la afferro, mi sembra perfino assurdo, irreale, sentire il tocco di un altro essere. Credevo che la gente non fosse altro che grida, invece è ancora corpo e materia.
La gente si chiama, cerca di toccarsi, i bambini piangono terrorizzati, poi, improvvisamente, l’oscurità è solcata da scie di fuoco. Sono terrificanti, ma ci permettono di capire dove siamo e ci possiamo dirigere verso la costa. Viriamo a sinistra, credo sia l’Ovest, credo sia la direzione giusta. Mentre una striscia di fuoco fende la tenebra vedo la costa vicina, ma le onde, nonostante ci troviamo sulla costa a Nord, sono altissime e feroci, la costa è frastagliata e con molte scogliere.

Dobbiamo fare in fretta, in fretta, il mare sta ingrossando sempre di più, grida dello stesso grido della terra, ruggisce, feroce, rabbioso, folle di dolore. Ormai è difficile reggersi, gusci di noce in balia di quell’inferno, rischiamo di cadere in acqua, alcuni cadono, se una scia di fuoco illumina per un momento la tenebra, vediamo impotenti occhi terrorizzati svanire nel nulla nero.

Dai rumori capisco che alcune barche sono riuscite ad attraccare, il vento spazza via le voci, ma sento chiamare, dire “di qui, presto”, capisco che c’è gente che sta risalendo verso l’interno, in salvo.
Ora le sfere di fuoco sono aumentate, ci raggiunge un vento bollente e polveroso che si mescola con l’altro vento e crea turbini, tossiamo, mezzi soffocati, la barca è sballottata dalle onde e dai venti, qualcosa di grosso sbatte contro lo scafo e ci fa inclinare pericolosamente, ma il Greco, non so come, riesce a raddrizzare la barca.

Tentiamo l’attracco diverse altre volte, ma veniamo rigettati indietro, dalla costa qualcuno tenta di accendere fuochi che il vento spegne immediatamente. Luci si accendono dentro le casette lungo i costoni, che si trasformano in piccoli fari.
Con sgomento mi rendo conto che le case sono state incendiate dall’interno, così che la tempesta non possa spegnere il fuoco, almeno per un po’.
La terra continua a gridare, il mare bolle, il buio è, se possibile, ancora più denso, ma le scie di fuoco aumentano. Un paio cadono, sono rocce di fuoco, una colpisce una barca poco più in là, intuisco dal fragore che una, un’altra, hanno colpito la costa esposta a Sud.
Perdo l’orientamento, ho la nausea per lo sballottamento, l’odore di marcio, di fumo e di qualcosa che non conosco. Ho un sapore assurdo in bocca, come mangiassi fango putrefatto.

Per un istante riesco ad intravvedere file di gente salire lungo la montagna, come vorrei essere con loro! Tentiamo un altro attracco, ma qualcosa di duro ci urta, è roccia, un pezzo di roccia che si è spezzato dalla scogliera! Un rombo, grida, capisco che la scogliera sta crollando e che ha colpito almeno altre due barche.
E poi la barca si spezza, la voce del Greco dice di aggrapparsi al relitto, mi tengo stretta a qualcosa, un grosso pezzo di scafo in cui riesco a rannicchiarmi.
Ma gli altri? Sento le loro voci, le grida. “TENETEVI, AGGRAPPATEVI A QUALCOSA CHE GALLEGGI!” grido, non so se sentano, il vento di fuoco mi strappa la voce, tossisco, le mie parole si perdono in un’eco indistinta, mescolandosi al grido della terra, alle altre voci, al fragore dei flutti.

Sono sola su un pezzo di relitto.
Dove sono gli altri? Dov’è il Greco? E io? Sono qui, ma qui dov’è? Dov’è il mondo? Il sole, la terra?
Non so se sia giorno o notte, non so quanto tempo sia passato, non so se esista un giorno, o se esisterà di nuovo.
La corrente mi spinge, è strano, nonostante la furia della tempesta sono ancora a galla, su quel pezzo di legno.
Mi sento pesante, con le mani intorpidite e rigide strappo l’abito, la stoffa è pesante e rigida, come fosse stata immersa nel gesso. Libera mi sento meglio, la pelle respira, sono più leggera.
Non ho freddo, perché l’acqua è molto calda e l’aria lo è fin troppo, quasi mi brucia la pelle.
Sono rannicchiata sul mio legno, aggrappata a qualcosa che, forse, era il sito dell’albero perché è una cosa circolare.
Al passaggio delle scie di fuoco vedo, a tratti, grandi banchi di pesci morti, pezzi di relitti, alberi, alcuni alberi stanno ancora bruciando mentre galleggiano, a volte mi rendo conto di urtare corpi non di pesci, ma di animali terrestri e non so quali, ma una scia illumina una cosa bianca, proprio qui vicino, che mi ricorda terribilmente un braccio.
Déi, che non sia qualcuno che conoscevo, almeno questo!
Non lo saprò mai, ma conosco tutti e nessuno, in quel corpo è il corpo di tutti, forse anche il mio.

Non so quanto tempo sia passato, ore, giorni, minuti, non ne ho idea, so che sotto è l’acqua e sopra l’aria, più o meno, niente altro.
Ho sete, le labbra bruciano e si spezzano, sento sapore di sangue, cerco di ripulirmi, ma ho le braccia e le mani troppo intorpidite.
Il finimondo non accenna a placarsi, solo il grido sembra un po’ più lontano, o forse sono io che mi sono così abituata da non sentirlo più intenso come prima.
Sono stanca. Prima o poi il relitto affonderà. È stato tutto inutile, non sono servita a niente.
Io non mi salverò, ma altri…quelli che risalivano le chine, si saranno salvati?
Le onde  erano alte come torri, verso costa, erano mostri dalle zanne lunghe come lance di giganti, stritolavano le barche, hanno spezzato la roccia.
Forse è meno peggio, qui?
A tratti penso di addormentarmi, perché mille immagini si sovrappongono nella mia mente, poi sono presente, consapevole di tutto questo orrore.

E poi qualcosa mi urta. Non forte, un piccolo tocco quasi delicato. Mi rattrappisco ancora di più sul mio legno, cos’altro può essere? È forse un demone, vomitato sulla terra insieme al fuoco?
Un altro piccolo urto, un altro. “Chi c’è?” riesco a balbettare.
Un altro.
Poi uno schiocco.
No, non può essere, mi si ferma il respiro.
Eppure, si, un altro schiocco, e un altro, un paio di squittii, schiocchi, qui, proprio accanto a me, e altri più lontani in risposta.

Grido, scoppio a ridere e piangere insieme, disperatamente, istericamente, il mondo non è più vuoto, non sono sola!
Non hanno la stessa voce di sempre, gli schiocchi sono più soffocati, non trasmettono allegria, ma ci sono, sono qui, sono vivi e stanno cercando la rotta!
Una scia di fuoco, intravvedo le pinne, sono molti, diversi branchi devono essersi riuniti e mi portano con loro, al sicuro.
Il viaggio dura a lungo, ma non sono più stanca, né disperata ora, ascolto quella sinfonia di schiocchi e richiami, apprezzo la loro spinta gentile, quando i rostri colpiscono il relitto cerco di toccarli, ma rischio di sbilanciarmi e sono troppo irrigidita.
È meraviglioso come con i loro richiami si guidino, come trovino una strada sicura in quell’inferno di pece.

I richiami sono cambiati, sono più rapidi, eccitati. Mi guardo inutilmente attorno, niente altro che tenebra densa, ma loro si stanno comunicando qualcosa di importante.
Una scia di fuoco, ecco, una cosa nera si staglia poco lontano. Terra!
Come farò? Eppure io non posso restare con loro per sempre, devo andare a terra! Gli urti si fanno più rapidi, siamo sempre più vicini, sento il fragore roboante dei flutti contro le scogliere, ho paura, nella mia mente il ricordo di torri d’acqua a schiantare la terra.
“Ho paura, mi schianterò come le barche laggiù! È troppo forte la tempesta!”
Quello che mi sta spingendo emette una serie di squittii corti e veloci, poi mi molla un colpetto più forte, come a dire di fidarmi.

La direzione cambia, stiamo facendo una larga curva, sento uno strano rumore gorgogliante, le onde hanno cambiato voce. Al passaggio del fuoco vedo una spiaggia incuneata tra due scogliere alte, un golfo si apre dopo un passaggio stretto, in profondità, vedo le spume biancastre risalire la terraferma, ma capisco di potercela fare. Se riesco a muovermi. Sono un pezzo di marmo. Cerco di muovere le mani e i piedi, un po’ alla volta, fanno male.
Loro sono sempre più eccitati, gli schiocchi sembrano risate, gli squittii sono ancora più alti e rapidi, mi sento quasi allegra anch’io.
Mi spingono, la risacca mi respinge indietro molte volte, ma loro mi spingono forte, quasi mi lanciano, riesco ad aggrapparmi alla terra, perdo la presa, mi lanciano di nuovo rischiando di spiaggiare, sento due rostri infilarsi sotto le mie braccia e spingermi, afferro di nuovo terra, mi aggrappo forte, mi danno un colpetto sulle natiche che quasi mi lancia mentre arriva l’onda e riesco a gettarmi oltre.
Li sento alle mie spalle, ormai indietro, squittire e schioccare festosi. Non si allontanano, capisco che deve esserci un posto sicuro anche per loro, qui, forse piccole grotte marine, il gorgoglio che sentivo doveva venire da lì.
Mi trascino a quattro zampe tra i sassi, mi ferisco le mani, le gambe, le onde mi gettano addosso pietra e sabbia tagliente, poi sono su sassi bagnati, ma fuori dall’acqua.
Sento un rumore, leggero, un fruscio. Passi, stoffa, credo. Alzo gli occhi, ma non vedo che il muro di tenebra. Una scia di fuoco, due piedi scalzi, alzo gli occhi, sono le gambe di un uomo.
E il ricordo si interrompe.”

“Come il ricordo si interrompe?? Così? Che ti è successo, dopo? Chi era il tipo? Ti ha salvata?” la voce di Franco era di un’ottava troppo alto e aveva una nota isterica.
Io mi resi conto di aver letto tutto d’un fiato e di avere l’affanno come dopo una lunga corsa o uno spavento pazzesco.
Più lo spavento.
“Per quel giorno e quello successivo, l’ultimo, per quanto ancora del tutto convinta che ci fossero un paio di errori madornali nei miei ricordi, continuammo a studiare ed affinare l’esperienza.
C’era tanto di quel materiale, comprendendo anche i sogni, da riempire non una tesi, ma almeno tre, solo che io non ero dell’idea di renderlo pubblico, per via degli errori.
Mi davano un senso di incertezza e disequilibrio, temevo il giudizio, se fosse finito in mani sbagliate, la derisione, le accuse di millantare.
Trovai interessante il sogno in cui i delfini mi salvavano dai “men in black” e il ricordo del salvataggio da parte dei delfini, veri, se l’esperienza fosse stata corretta.
Come che sia, mostrai il disegno di come doveva essere l’Egeo prima dell’esplosione e dopo, a parte la stessa Santorini.
Creta, che io vedevo “cicciotta” aveva perso una parte, a Sud, di cui in superficie oggi rimarrebbero soltanto  tre isolette: Gavdos e Gavdopoula, e Paximandia, molto più vicina alla costa Cretese odierna.
Un’isola a poche miglia da Santorini oggi è, o sarebbe, divisa nei due isolotti di Christiana e Askania, delle quali, se trovate le foto giuste, potete vedere le scogliere che si fronteggiano, come spaccate, a picco sul mare. È come se una cosa molto pesante le avesse trinciate in quel punto, inoltre, più o meno in mezzo, ci sono scogli sommersi poco sotto la superficie.
Anche le isole di Anaphi, Pachia e Makra dovevano avere un aspetto diverso da oggi, forse hanno perso o guadagnato territorio, mentre salendo a Nord, se ricordate, io parlo di due isole, una più o meno rettangolare, Ios, e una dalla forma molto allungata, con una strozzatura verso il centro.
Noi, invece, oggi troviamo Sikinos e Folegandros, divise da uno stretto braccio di mare da cui emergono scogli e le piccole isole di Tria Aderphia, Kardiotissa e Kalogeros e Karavos.
Credo che anche lo stretto con Ios fosse…più stretto di ora, ed era proprio la cosa su cui il Greco contava: quelle isole avrebbero fatto da barriera al maremoto, spezzando le onde anomale che si sarebbero generate e, sicuramente, lo fecero.
Io non ho idea di quanto sia durato il mio viaggio, dopo l’affondamento della barca, parevano giorni, ma potevano essere ore. So che, per quanto mi trovassi in mare aperto, abbastanza lontano dalle coste, ero consapevole non solo di quel grido lancinante e continuo, un urlo accompagnato da un ruggito, la cosa più terribile che…no, non si può immaginare, come non lo si può descrivere, dicevo, ero consapevole di continue scosse sismiche.
L’epicentro era sicuramente Santorini, ma tutto l’Egeo tremava, non soltanto a Nord, dove mi trovavo io e questo spiegherebbe anche la profonda trasformazione delle linee di costa e addirittura l’emersione o affondamento di parte delle isole, se io avessi ragione.”

“Tu hai anche accennato ad un’isola che si piegava con un angolo su se stessa” intervenne Franco:
“Qui ci sono alcune isole, tutte molto vicine, che formano una L e sono le Piccole Cicladi. Dici che si trattava di una sola isola con una forma particolare?”
“È quello che pensavo e che penso tutt’ora, si. Il seminario si tenne a settembre, come sapete, ma, nel novembre dello stesso anno, i miei vollero portarmi nell’Egeo. Era bassa stagione e la minor presenza di turisti ci avrebbe permesso di studiare meglio l’area.
Io trovai diverse spiagge che avrebbero potuto essere quella del mio naufragio, naturalmente se io avessi visto qualcosa di più di buio e sassi.”
“Però dicevi che i delfini ti gettarono sulla riva, ti aggrappasti a terra e pietra, la spiaggia era molto sassosa e c’erano grotte, lì vicino…io ho trovato qualcosa, ma…”
“Si?”
“Beh, è ad Est, pensavo di guardare verso Nord, immaginavo che la corrente, partendo dall’epicentro, dovesse spingere verso Nord, a ventaglio. Però Irakleia, sulle coste a Nord, sembra rispondere perfettamente alla descrizione, comprese le grotte all’interno di insenature protette”

Andai a vedere e mi resi conto che la direzione da cui il relitto doveva arrivare, dalla costa a Nord di Sikinos, se le onde si fossero allargate a ventaglio dirigendosi a Nord, poteva essere spezzata ed attutita in direzione Est.
Si, dopo le prime ore, una giornata, di maremoti continui, le onde potevano spezzarsi a causa delle coste e dell’incrocio di correnti, lasciando relativamente tranquille delle insenature che da Est si volgessero a Sud, protette dal corpo delle isole.
Sia Irakleia che Shinoussa, inoltre, presentavano degli ambienti perfetti: spiagge strette e sassose, con un salto che avrebbe permesso ai delfini di non spiaggiare, pur avvicinandosi moltissimo a riva, insenature con territori che si innalzavano parecchio sul livello del mare e creavano non solo colline e promontori, come descriveva lei, ma anche parecchie grotte marine molto ben protette.

“Anche io penso che le correnti mi abbiano spinta verso Est, anche se ci sono ottimi candidati sulle coste Sud-Ovest di Naxos, che è anche parecchio montuosa. Io, però, penso più ad Irakleia, come voi. Vedere quelle isole, quelle spiagge, mi diede uno strano senso di perdita e di ansia.
Avevo la sensazione di essere finalmente tornata a vedere dopo il disastro.
Sono certa di non essere mai più tornata a Creta, né tantomeno di aver rivisto Santorini.”
Silenzio.
“Ma…le gambe che hai visto…”
“Si?”
“Erano di un uomo, si?”
“Si.”
“Era lui?” Franco sembrava prenderla quasi sul personale, voleva la loro unione quasi più di quanto la volessi io.
“Penso di si, anzi, ne sono abbastanza sicura” rispose.
“Ma allora perché i tuoi ricordi si fermano lì? Perché non vanno oltre, se quello è il momento più importante della tua vita? Lui ti mancava! Ti mancava da quando eri piccola e ora era lì, alla fine! E tu dimentichi tutto?” beh, aveva ragione, che diamine!
Lei ripose paziente: “Ragazzi, era la fine del mondo. La civiltà Minoica non si risollevò mai da quel cataclisma, che ne segnò la fine, anche se si ritiene sia andata avanti, traballante, per un paio di secoli e, anche ai tempi di Sua Maestà, i Keftiu erano molto rispettati, ma come gli ultimi della loro stirpe. Il Faraone li ammirava e amava molto.
“Certo che li amava, sapeva di essere stato uno di loro!” strillò Franco.
“Forse.” Ammise Marabel. “Ricordate i due uomini che vidi all’incontro con il Delfino? Persone di grande fiducia che lui aveva inviato a cercare l’altra piramide, o quel misterioso qualcosa che avrebbe potuto salvarlo, ecco, loro erano Cretesi. Gli ultimi Keftiu. Le loro navi solcavano ancora il Mediterraneo, erano ancora rispettati perfino dagli Sherden, ma erano linguisticamente micenei, almeno in via ufficiale.
Io so che tra loro parlavano quello che, a quel punto, era una specie di dialetto, diverso dalle altre lingue e sono sicura fosse la misteriosa lingua minoica perduta. La parlavano ancora, nei loro gruppi familiari, ma come civiltà, non esistevano più e la loro fine fu quel cataclisma.
Ricordo le cose terribili, non ciò che seguì l’incontro con quell’uomo, perché a quel punto dovevo aver trovato il mio punto fermo, la mia risposta, ma avevo, avevamo, perduto il mondo intero.
Eravamo tutti naufraghi, sopravvissuti e vi assicuro che ci volle molto tempo perché le cose si sistemassero. L’eruzione durò molti giorni, anche se fortunatamente pare che la camera magmatica non fosse molto grande, ma l’oscurità, sempre meno intensa, poi un grigiore pesante,  poi un po’ luce, durò anni.
Ci furono carestie, malattie date dalla mancanza di luce solare, sconvolgimenti climatici e una drastica riduzione della fertilità, impossibilità per molte donne di allattare, deformazione dei feti…parliamoci chiaro, ragazzi, dalla terra doveva essere uscita una quantità di roba tossica che non immaginiamo e anche radioattiva.
So che un giorno guardavo il mare dall’alto ed era azzurro, limpido, il cielo era blu e le barche solcavano le acque gettando le reti.
Io ero su un promontorio, nel cortile di una casa bianca con delfini dipinti sui muri. Li avevamo dipinti insieme.” Sorrise, a quel vago ricordo.
Sapevo che non era in grado di descrivere il suo viso.

“Comunque, la cosa più importante accadde nel…dunque, il millenovecentonovantatre.
Allora ebbi l’esperienza più liberatoria della mia vita: ero nella sala d’aspetto del dentista, per la detartrasi, eravamo andate insieme, mia mamma e io, così la stavo aspettando sfogliando dei numeri del National Geographic e di un altro paio di riviste dello stesso genere.
Mi divertivo a guardare le immagini, scegliendo gli argomenti dalle copertine, finché fui attratta da una rivista sull’Europa con una monografia su Santorini.
La presi, preoccupata di trovare cose che non mi sarebbero piaciute, ma l’articolo era lungo e non lo lessi, mi soffermai invece su un riquadro che parlava dell’eruzione.
E c’era scritto: “Mentre le eruzioni precedenti mieterono moltissime vittime, dell’ultima, la più catastrofica, curiosamente non si trovano resti, come se gli isolani fossero riusciti a mettersi in salvo e fuggire prima dell’esplosione” e io, dando un colpetto con le dita alle pagine, esclamai: “Per forza, li ho avvertiti io!” e poi mi resi conto, con un senso di gioia intensa e di commozione, che era la verità! Là, su quel pezzo di giornale, era scritta la conferma ai miei ricordi, a quello che io avevo ritenuto per anni pura follia e su cui mi ero tormentata.
Non ero, non eravamo, soltanto dei pazzi! E, per quanto conscia che ogni passo poteva essere un passo falso, che potevamo sbagliare e prendere cantonate, che avevamo bisogno di prove sulle nostre scoperte, in quel momento, nella sala d’aspetto di un dentista, la mia vita cambiò per sempre.
La forma dell’isola, nelle ricostruzioni, ancora non tornava, da qualche parte dicevano che probabilmente le navi si erano assiepate nell’unico approdo dell’isola, finendo per speronarsi una con l’altra e affondando in quel porto stretto, ma ora io sapevo, e lo sapevo con certezza, con una forza che non avevo mai avuto dall’età di otto anni, che era tutto vero, che ciò che sapevo e scoprivo ogni giorno, con fatica e dolore, era la verità.
Fu il momento più bello della mia vita, fino a quel momento. E…beh, ammetto che rubai il giornale. Ce l’ho ancora, da qualche parte.”

Finalmente! Finalmente qualcosa che la faceva sentire forte, una scoperta contro le ipotesi precedenti che le dava le conferme che aveva cercato per tutta la vita!
“Dopo quell’articolo, decidemmo di tornare nell’Egeo e io lavorai un po’, per quanto possibile, sul sogno fatto in quella mezz’ora di pausa del seminario.
Su quello non ho conferme, non ne abbiamo e temo non se ne vogliano trovare molte, ma in alcune aree, effettivamente, sono state scoperte città sommerse risalenti ad un periodo precedente a quello che si sospettava. Naturalmente il precedente è molto ridotto e come riferimento, per qualche ragione a me ignota, non si è presa la civiltà Minoica, ma gli albori di quella greca. È stupido, perché i greci furono gli ultimi in ordine di tempo a dominare quell’area, ma l’umanità ha un sacro terrore ad andare indietro nel tempo più di un tanto accettabile, come chi ha paura di allontanarsi a nuoto dalla riva più di qualche metro, spingendosi appena appena oltre il limite imposto dall’educazione, dalla mente, dal senso comune, terrorizzato dalle acque profonde, dal blu, dall’immensità. Il tempo e il mare si assomigliano.”

“E hai scoperto qualcosa di quell’epoca?”
“No, purtroppo, però era interessante l’aspetto geologico e climatico del sogno. L’acqua molto più bassa, molte più terre emerse collegate tra loro in quello che oggi è l’arcipelago a Nord, molta vegetazione, il clima doveva ancora essere più fresco di oggi e quelle terre in lento e costante affondamento erano ricche di boschi e piante da clima temperato, più continentali, non tipiche della macchia mediterranea, secca, ventosa e salmastra.
Penso che l’Egeo fosse molto meno salino di oggi, più simile al Mar Nero, e che la salinità sia aumentata con l’arrivo di correnti ioniche e tirreniche. Il minor salmastro rendeva l’aria più pura e fresca, gli odori più puliti di oggi.”
“Pensi che quel periodo fosse il massimo splendore della civiltà Minoica, quindi?”
Annuì: “Penso proprio di si. Indietro di quei tre o quattromila anni, rispetto alle datazioni correnti, ma, attenzione, supponendo si trattasse del seimila avanti Cristo, ricordiamoci che ciò che vidi non erano semplici pescatori primitivi all’alba della civiltà, ma gente con conoscenze architettoniche, botaniche, navali e perfino geologiche molto avanzate. Conoscevano il funzionamento dei vulcani, i terremoti, addirittura il mio sposo parlò di terremoto di profondità, citando quello che doveva essersi verificato a Creta un giorno o due prima. Quindi, non parliamo dell’alba dei Minoici.”

Stavo sognando ad occhi aperti, o per meglio dire semiaperti. Era mezzanotte passata ed era stato un lungo giorno, tanto da averne un ricordo indistinto ed irreale.
Avevo attraversato continenti, epoche, civiltà e storie d’amore.
Avevo scoperto ed imparato, avevo tante domande da farmi scoppiare la testa.
Quei giorni di giugno, che si erano inizialmente prospettati piuttosto noiosi e monotoni, scanditi da passeggiate col cane e preparazione della fiera, erano diventati le mie personali mille e una notte. Solo che, a quanto pareva, per quanto incredibili e pazzesche fossero le storie narrate, nel nostro caso non erano favole.
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Marabel chiese di poter andare a dormire nella casetta in giardino. Avevo preparato per lei la stanza degli ospiti, molto più comoda, di fianco al bagno con la doccia da fantascienza installata da uno studente inquilino di Franco come parte della tesi in architettura, ma lei, imbarazzata, disse che andava matta per quella casettina in mezzo agli alberi, che pareva di stare in un bosco, invece che in un giardino del centro.
Aveva desiderato, come i bambini, di poterci dormire da quando era entrata la prima volta a casa nostra e me lo chiedeva ora.
Portai il borsone mentre lei si caricava della lettiera e del micio. “Il bagno è proprio piccolo, qui” dissi, scusandomi per il disagio.
“Non importa, io mica sono tanto grossa…o sono grossa?” chiese preoccupata, con occhioni grandi così. Non lo era. La lasciai camminando a ritroso verso casa: diciannove passi, circa dieci metri.
La distanza tra la casetta era poco più di quella che c’era tra la mia stanza e quella degli ospiti, ma c’era la scala, la porta, il pezzo di giardino…insomma, era un’altra casa. E lei, così, era di nuovo sola.
Certo, non potevo non ammettere che era bellissimo dormire in quel piccolo prefabbricato in mezzo a due pini strobi, un paio di abeti e tre larici, con un delizioso sottobosco di piante aromatiche e siepi floreali, ma era sola e io avevo la sensazione di aver fallito.
Tornata in camera mia, però, mi ricordai del racconto di Santorini: viveva tra agiatezze, una famiglia un po’ anomala di sacerdotesse, con la madre, zie, forse una nonna, forse sorelle, aveva tutto quel che si possa desiderare, eppure si nascondeva a piangere in solitudine per la malinconia e la nostalgia per qualcosa di sconosciuto.
Era abituata da anni ad essere sola e, per quanto questo la facesse soffrire, una full immersion con altri, pur gradita, doveva stancarla molto. Doveva aver bisogno del suo spazio, del ritrovarsi e rilassarsi nel silenzio.

Sotto la doccia, mi chiesi se non le sarebbe piaciuto viverci, in quella casetta. Potevo parlarne a Franco…certo, quel prefabbricato avrebbe dovuto essere un “rifugio d’emergenza” in caso di ospiti inattesi o lavori in casa, ma non era mai servita se non per qualche festicciola in giardino, per le quali andava benissimo la veranda o  il mio terrazzo. Era graziosissima, ma, alla fine, quasi del tutto inutile. Si, gliene avrei parlato l’indomani, pensai.
Per non farla sentire di peso, potevamo stabilire un affitto, una stupidaggine, chessò, cento euro, centocinquanta, via, tanto perché si sentisse più a suo agio, no?

Mi buttai sopra le coperte con gli appunti, e mi svegliai quattro ore dopo, grazie a Micky che protestava per la luce accesa. “È ai LED, micio, non consuma!” protestai. Allungai la mano e spensi: la stanza si riempì di fusa.
Pensavo si fosse sistemato lì, sul letto al suo posto, invece era davanti alla finestra. “Mick…Micky?” Si voltò appena con un “Grmmmrr?” e tornò a fissare il buio. Mi alzai e gli andai vicino, pensando che il Mau stesse passeggiando in giardino o fosse sulla finestra della casetta, ma, con le mie limitatissime abilità percettive, non vidi nulla. Mi voltai per tornare a dormire e sentii una strana sensazione nella schiena: c’era qualcosa in giardino.
Provai a guardare meglio: forse Marabel non riusciva a dormire ed era uscita a godersi il fresco notturno? Non vedevo niente, ma avevo la certezza che ci fosse qualcosa.
D’altra parte, il gatto era interessato a qualsiasi cosa stesse vedendo, ma tranquillo, ronfava con un rumore di motore da formula uno e stava lì, tutto soddisfatto, con gli occhioni a palla.
Forse era davvero Marabel che si godeva la solitudine della notte con il Mau.
Tornai a letto bofonchiando qualcosa sul fatto che lui vedeva chissà quali mondi e io no e mi riaddormentai.
Avevo la sensazione che il felino ridacchiasse sotto i baffi.

Sognai di essere in un bosco. Sembrava il nostro giardino, ma era molto più grande, più fitto, una pineta di quelle della mia valle, distesa sui fianchi delle Montagne, digradando verso i pascoli e i ghiacciai e fino giù a lambire il fiume.
La notte era limpida, più che fresca, illuminata dal riverbero dei ghiacciai azzurri alla luce stellare.
Camminavo attenta a non fare rumore, perché non volevo disturbare.
Poi vidi qualcosa, una luce indefinita, argentea, una specie di alone che baluginava tra i fusti svettanti nel buio. Incuriosita, camminai più in fretta, verso quella luminosità che si faceva via, via più intensa.
C’era una donna. Non una donna in carne ed ossa, non proprio. Era una donna fatta di luce, come una ninfa o un qualche tipo di spirito.
E c’era un uomo. Anche lui era fatto di luce, appena un po’ diversa da quella della donna.
Uno dinanzi all’altra, restarono a guardarsi negli occhi, apparentemente senza una parola, ma io sapevo che comunicavano come nessun altro potrebbe nella realtà quotidiana.
Si presero le mani e dalla loro gola uscì una luce verde azzurra, trasparente come acqua di fonte.
No, beh, intorno era verde azzurro, il centro era di un bianco intenso, altrettanto trasparente, eppure emetteva riflessi dorati.
Fissavo quel miracolo a bocca aperta. Le due stelle si fusero al centro, diventarono come cerchi d’onda, espandendosi, con una frequenza sempre più intensa. Loro si avvicinarono, si baciarono e si trasformarono in un solo ovale di luce, in cui le due figure erano solo pallidi fantasmi luminosi, affogati nel fulgore. Non erano due corpi vicini, vedevo chiaramente che, in parte, si compenetravano. Forse era logico, non essendoci materia solida a separarli, ma aveva dell’incredibile. Mi svegliai con la pelle d’oca.

Era l’alba. Micky dormiva al suo posto, sul fondo del letto. Mi alzai e sbirciai verso la casetta, aspettandomi chissà che.
Lo sognava. Non sempre, ma a volte riusciva a sognarlo. Era questo che avevo visto?
Davvero c’erano forze opposte che cercavano di tenerli lontani, come Sua Maestà aveva detto nella visione di Boston, e questo era veramente l’unico modo che avevano per incontrarsi?
Ma perché, nonostante la loro grandezza, anni e anni di preparazione, quelle due anime progredite, non riuscivano a darsi delle nozioni come: “Sono in quel posto, lavoro là, vieni in...” era così difficile? Trasmettersi un’immagine di una piazza, di una stazione, di qualcosa?
Non si poteva? Perché no?
Erano le sei. Pensai di chiamare Franco, ma ero quasi sicura non fosse la cosa più prudente, se volevo vivere fino a tarda età.
Mi riaddormentai, una cosa calda e morbida che sbatacchiava sulla mia caviglia, là in fondo, probabilmente seccata dai miei ragionamenti.

Alle nove sentii la porta che si chiudeva delicatamente e, un attimo dopo, un Mau fresco d’aria notturna saltò a salutare Micky e si misero a giocare azzuffandosi allegramente sul mio letto.
Quel gatto si era sistemato bene, da noi. Si, non potevamo far tornare le cose come prima: Marabel avrebbe dovuto diventare la nostra nuova inquilina, per il bene nostro e dei gatti.
Avevo un cerchio alla testa.
“SORAAAAAAAAAAAAAAAA!!!!!!!!!!!!!” eccolo.
“Cià”
“NON HAI IDEA!!!!!!!!!!” strillò dal balcone di Parigi: “No, non sai cos’è successo stanotte!”
“Hai sognato il Faraone e Marabel insieme”
“…”
“No?”
“Ma…come fai a saperlo?”
Sospirai: “Anche io” risposi laconica.
“DAVVERO?” poi la sua parte intellettuale prese il controllo della situazione: “Beh, in fondo ha molto senso, siamo stati influenzati dai racconti, abbiamo passato ore a parlare insieme di questa cosa, ed è ovvio che…”
“Fra? Non dir ca**ate!”
Il telefono si chiuse in un mutismo offeso.
“Senti” spiegai: “Io la sto a sentire ogni giorno da un pezzo, eppure non ho mai fatto un sogno come stanotte mentre lei dormiva qui nella tua casetta di legno. In questo periodo ho fatto dei sogni interessanti, per carità, ma non come questo e non sono così sicura che sia suggestione.
Ieri notte, per esempio, ho sognato il suo amico Robert, e quando le ho detto cosa avessi sognato, mi ha confermato tutto. E c’erano cose di cui non avevamo proprio parlato. Credo che sia qualcosa di più e di meglio che semplice suggestione…però…”
“Cosa?”
“Beh…se loro si incontrano davvero in sogno perché non riescono a scambiarsi dei segnali? A comunicarsi dove sono?”
Franco articolò qualcosa di inintelligibile, sentii un rumore di meccanismi che presumibilmente proveniva dai meandri delle sue volute corticali: “Non mi pare una cosa proprio facile” disse poi.
“Mai detto che lo sia!” brontolai.
Ci confrontammo per scoprire, con ancor più sgomento, che i nostri sogni divergevano solo per particolari minimi, che rendevano l’insieme addirittura più completo.
“Io, insomma, sono andato ad ascoltarmi le registrazioni che mi hai mandato sulla visione dell’altro ieri. Sono abbastanza sicuro che lui abbia fatto delle cose, non so se in sogno o come, ma deve aver fatto e forse fa delle cose perché lei possa trovarlo, ma non sta funzionando e sono passati anni! Io credo che lui stia perdendo le speranze…forse Marabel non dovrebbe cercare in altri tempi, anche se mi rendo conto che abbia bisogno di capire. Certo” aggiunse: “Non saprei proprio come possa fare. Mi sembra la ricerca di Robert, o peggio. Oltre sette miliardi di umani e non hai un cavolo di niente da cui partire! Sai che c’è, sai che è divino, quindi potrebbe essere indifferentemente su un altare, un trono o in manicomio.”

Decidemmo di sentirci verso metà pomeriggio, io portai Grigno a fare un giro, passai dal benzinaio e tornai a casa alle undici passate.
Avevo comprato un mucchio di insalata di riso alla gastronomia vicina, non volendo fare la spesa: sarei partita entro due giorni e non volevo lasciare niente che potesse andare a male.
Marabel arrivò poco dopo.
Al mattino non l’avevo vista, ma ora era più bella del solito e aveva comprato un abitino estivo in cotone indonesiano nei toni sfumati dal celeste all’indaco.
Dopo aver sbaciucchiato i gatti (anche il mio) si infilò in bagno a provarselo. Le stava alla grande, segnandole la vita sottile e mettendo in risalto le gambe slanciate. Le brillavano gli occhi e pensai che non dimostrava più di venticinque anni.
Ne aveva più del doppio. Per gioco presi una lente di ingrandimento e mi avvicinai critica alla sua faccia. Lei mi guardò interrogativa: “Uhmmm…ssi, bene”
“Cosa c’è?”
“Oh, no, nulla, un paio di rughette, sai, ma solo molto da vicino” alla parola “rughette” spalancò gli occhi preoccupata e io scoppiai a ridere.
“Lo hai sognato, non è vero?”
Lei strinse le labbra, pudica, trattenendo un sorriso.
“Perché non riuscite a spiegarvi dove siete, in sogno?”
Tornò seria. Armeggiò con il cartellino dell’abito e poi si ricordò di qualcosa: “Questo dovrebbe andare” disse porgendomi un sacchetto di plastica bianco.
Dentro c’era un completo arancio e ruggine, con inserti bordeaux, giacchina e gonna lunga, con un pezzo di spacco laterale: “Dovrebbe essere perfetto per la fiera. Comodo, fresco, pratico. E, se per caso si sporca a maneggiare pietre, non si vede.”
Era fantastico e, si, mi stava a pennello! Non sono la persona più espansiva del pianeta, ma le sarei saltata al collo, se avessi osato. Ma, nonostante tutto, avevo ancora timore di invaderla, di fare qualcosa di sbagliato, di troppo o troppo poco. Ci riflettei un attimo, poi le diedi comunque un bacio sulla guancia.

La sera, a quanto pareva, ci sarebbe toccato un lungo collegamento con Parigi, per cui decidemmo di uscire.
Infilai a Grigno il guinzaglio e ci dirigemmo verso la Montagna.
Avevo in mente di raggiungere una famosa abbazia medievale, abbarbicata in cima ad un montucolo piuttosto insignificante, ma con uno strapiombo da favola, un posto magico e, in giorni feriali, non eccessivamente affollato. Là vicino c’erano un paio di locali dove poter pranzare, proprio con il panorama dell’Abbazia, ma, al nostro arrivo, poco dopo mezzogiorno, il tavolo migliore era situato accanto ad una finestra che guardava la valle sottostante dal precipizio.
Grigno aveva corso a perdifiato su e giù per la strada che portava alla prima rampa di scale e ora, dopo una bella scodella d’acqua offerta dalla casa, era svenuto sotto il tavolo.

“Ieri ti ho interrotta per chiederti seminario perché avevo avuto la sensazione per tutte le due ore precedenti che tu avessi visto in prima persona quel disastro, che poi effettivamente avevi visto. Però, se prima avevo delle domande, ora me ne ho altre, mi sono spuntate come funghi e…”
Sembrava avesse dimenticato l’imbarazzo di quando le avevo chiesto come mai non riuscissero a dirsi dove e come potersi trovare, invece non aspettò che facessi domande, buttando fuori cose che dovevano starle lì da troppo tempo:
“Sai, è difficile. Ho conosciuto dei Lama tibetani che riuscivano a comunicare per via mentale tra loro, e a volte per loro è molto facile interagire attraverso i sogni con persone anche lontane, a volte che non vedono da anni. A volte, forse, con persone che non hanno mai incontrato nel mondo ordinario. Avendo un buon controllo sui sogni, ecco che riescono a comunicare informazioni molto precise, a ricordarle e ad interpretarle. I tibetani hanno una cultura sul mondo onirico che ha dell’incredibile, ma il problema era, ed è, che io non riesco ad avere il minimo controllo sui sogni.
Se pensi che dopo quindici anni di studio, ipnosi, regressioni, ancora mi ritrovo ad avere esperienze oniriche interessanti facendo come da ragazzina, cioè prendendo un antinfiammatorio e buttarmi sul letto per farmi passare il mal di testa! Non un progresso in tal senso, nessun controllo. A volte si, ho avuto sogni lucidi, ma in modo casuale, e, pur rendendomi perfettamente conto di sognare, non ero in grado di attuare alcun controllo sugli eventi.
E non avendocelo…non riesco a fare quello che dovrei. Ho periodi in cui lo sento vicino, molto, e allora lo sogno, ma mi rendo anche conto che non sono io a sognare lui, ma il contrario! A parte rarissime volte, è sempre lui a venire da me, solo che la percezione dell’ambiente esterno è indefinita, priva di punti di riferimento veri e propri su cui potersi orientare: lui non sa dove sia quel posto in cui va in sogno, come non lo sapevo io il giorno in cui mi trovai in quella che era presumibilmente la sua stanza, casa sua.
Sapevo che era mattina e che da noi era tardo pomeriggio, lui dormiva e per caso, pure io.
A parte una volta, che lo sognai su una scogliera dall’aspetto particolare, seduto abbracciato alle ginocchia a guardare il mare. Era un posto caratteristico, al risveglio me lo ricordavo bene e riuscii anche a capire, a grandi linee, in quale zona del mondo dovesse trovarsi. E poi, poco tempo dopo, lo trovai con il satellite. Preciso al sogno.
Non so se fosse lì, quella notte, se ci fosse andato per un po’, se…se…
È chiaro che, ovunque sia, non è nei dintorni. Eppure a volte, l’ho sentito così vicino, da voltarmi a cercarlo, sicura che fosse lì, alle mie spalle” Era molto amareggiata.
“Però vi parlate! Non puoi dirgli: io sto in questa città, in questo posto, vado là, lavoro lì…insomma, qualcosa del genere!”
Mi guardò divertita: “I sogni non hanno la stessa logica della veglia, Eva. La nostra mente funziona diversamente, con simboli e linguaggi diversi, se non si è in grado di pilotarli. Non puoi dare a qualcuno indirizzo e telefono, sperando se li segni. Se lo fai, il tuo messaggio muta, appare come immagini o simboli che, una volta svegli, non hanno più significato, almeno apparente.
L’unica via, forse, sarebbe quella del sogno lucido, ma anche così! Vedi, per riportare ad un’altra persona un messaggio, non devi sognarla nella tua mente, ma portare a lei o lui la tua coscienza. Insomma, un giretto in astrale, per capirci. Ma i sogni lucidi sono spesso ologrammi all’interno della tua mente e della tua coscienza, che ricreano perfettamente determinate situazioni e determinate persone. Loro appaiono nel tuo sogno, ma non è detto che tu li stia incontrando. E, sinceramente, non so se sia così semplice capire se stai veramente incontrando quella persona o se la stai semplicemente…sognando.”

Sembrava veramente scoraggiata, in quel momento.
Non sapevo se dirle del mio, di sogno, e del fatto che anche Franco lo avesse fatto quasi identico.
Là erano insieme, e la loro coscienza si fondeva in un solo uovo di energia, quindi, almeno secondo me, lui avrebbe dovuto sapere quello che sapeva lei e viceversa. La comunicazione avrebbe dovuto essere istantanea, non dal punto A al punto B, ma con A e B sovrapposti, perfettamente aderenti l’uno all’altro.
Ma forse mi sbagliavo.
Restai a rimuginare sulle sue parole, lei guardava fuori dalla finestra, il mento sul palmo.
Una cameriera ci chiese se avevamo idea di cosa ordinare e prendemmo il piatto scritto sulla lavagnetta come piatto del giorno.
Gnocchetti alla bava con salvia. Mi venne in mente il suo pranzo a New York, mille anni prima, con Robert che la costringeva a mangiare alle tre del pomeriggio.
Forse anche lei ci stava pensando.
“Eravamo seduti ad un tavolo, guardavamo qualcosa, non so se un quaderno o un pc. Lui mi ha abbracciata, tenendo la guancia contro la mia e mi cullava, dicendomi: “Su, dai, andrà tutto bene! Hai visto quanti progressi abbiamo fatto? Quante cose abbiamo scoperto?”
Poi mi sono svegliata. E mi è venuto il magone, perché…insomma, quali progressi?”
La guardai senza capire: “Scusa, no…ma è il sogno di stanotte?” lei fece le spallucce, giocherellando con la forchetta sul tovagliolo. “Perché?” chiese poi alzando gli occhi verso di me.
“Ma non è quello che…” mi morsi la lingua. “Non è quello che?”
“No, ecco, io…e pure Franco, noi…ehmmm…” Marabel mi guardò interrogativa, anche un po’ spazientita: “Insomma!” io sbuffai. E poi le raccontai il sogno.
Lei restò ad ascoltare, per la prima volta la vidi leggermente avvampare, imbarazzata.

Non disse niente per un bel po’, arrivò la signora con gli gnocchetti, Marabel prese la forchetta fissando il piatto come una scolaretta vergognosa, scoperta in flagranza di qualche reato, tipo non aver fatto i compiti o aver tagliato le lezioni.
“E lo avete fatto uguale? Tu e Franco?”
“Beh, praticamente si, ci siamo confrontati stamattina, e…è una brutta cosa?” Ero in imbarazzo, mi sentivo come l’avessi spiata dal buco della serratura.
“Ma perché io non lo ricordo?!?” sbottò poi, spazientita. “Io…io a volte lo so che…insomma, che succedono delle cose, ma è solo una sensazione, non ricordo! È successo un paio di volte, anni fa, che sapessi di averlo sognato e cercassimo con l’ipnosi di recuperare il ricordo.
Sembra facile, no? Stiamo lì a ricordare roba successa migliaia di anni fa, che vuoi che sia il sogno della notte prima?
Ma niente. Ricordo che lui è lì, so che mi sorride, mi tende le mani, e poi mi immergo in una specie di luce. Ma niente altro, niente pensieri, niente di niente. A volte, si, ho sentito le sue labbra come fisiche, reali, a volte altro, ma…sono attimi! Non arriveremo da nessuna parte, così!”

Ci rimasi malissimo: era così serena, quel mattino, così felice di averlo visto, e ora, per colpa mia, si sentiva così frustrata!
La signora del locale portò a Grigno qualche bocconcino, che lui spazzolò alla velocità della luce agitando la coda e tutta la sua metà posteriore con eccesso di entusiasmo. Come al solito.
Quel cane non era serio, per niente, altro che Anubi!
Dopo un momento, però, mi resi conto che Marabel lo stava di nuovo viziando e che rideva dei suoi atteggiamenti festaioli e ruffiani, con smorfie e mossette per farsi notare.
Forse non era davvero scemo: forse era un cane serissimo e saggio che faceva il buffone per farla ridere.

Facemmo un giro all’abbazia, poco dopo, ma non potevamo entrare con Grigno, così, poiché la conoscevamo molto bene tutte e due, andammo nei boschi lì attorno.
Era pure meglio: per quanto importante, sacra, famosa e tutto il resto, non poteva certo esserlo più di ciò che la Terra faceva per propria iniziativa.
“Ci sono affioramenti di energia da queste parti, molto intensi” mi spiegò Marabel. “Non parlo delle linee di epoca cristiana, ma di qualcosa di molto più antico e forte che è semplicemente passato di mano e cui sono stati dati attributi cristiani, come i riferimenti ad arcangeli o santi.
Prendi Santiago de Compostela, per esempio: oggi è una straordinaria via di ricerca, ma non risale all’uomo che le diede questo nome, è molto, molto più antica e già in epoche remote era percorsa come cammino iniziatico, sciamanico, di guarigione e così via. Questo mondo è zeppo di percorsi, linee, punti, affioramenti…e penso ne sappiamo ancora pochissimo”
“Le costruzioni antiche, le piramidi, quella roba lì, erano fatti per sfruttare questi affioramenti o cosa?”
“Per tante cose. Per esaltarli, usarli, anche per proteggerli o creare una comunicazione tra uno e l’altro, ma…a volte gli affioramenti, con i millenni, si sono spostati o, peggio, sono stati spostati i templi o i monumenti. A parte Abu Simbel, che è  un’apoteosi della stupidità, anche altri hanno subito trattamenti simili, magari involontariamente. Prendi Stonehenge: oggi i new ager continuano ad andare là ai solstizi, in adorazione, ma le pietre non sono nella posizione originale, quindi, qualsiasi cosa volessero rappresentare o a qualsiasi cosa servissero, non è quello che oggi si ritiene, molto superficialmente. Certo, per quanto riguarda i templi successivi alla diciottesima dinastia, andiamo sempre più nel fisicamente grandioso e sostanzialmente effimero, visto che le conoscenze si ridussero ai minimi termini in un ventennio, grazie alla pensata geniale della magia proletaria!”

Mi faceva sempre ridere come parlava di Ekhnaton. Quello che mi era difficile capire era come, in poco più di vent’anni, avesse potuto cancellare conoscenze tanto antiche quanto gigantesche.
“Qualcosa sarà sopravvissuto, no?”
Scrollò le spalle: “Si, per carità, ci mancherebbe, solo che quello che non fece il barbaro lo fecero i Barberini successivi. Horemheb era un ignorante, Eva! Io non so da che famiglia venisse, so che aveva una qualche parentela con le famiglie reali, ma era veramente un buzzurro!
Penso che non abbia fatto danni maggiori solo perché aveva una corte che ancora riusciva a frenarlo nei suoi deliri e, soprattutto, una Regal Consorte che era stata generata da una famiglia di livello culturale altissimo. Vipere, ma tutto fuorché idioti.”

Si, non mi risultava che il faraone Horemheb brillasse per la grandiosità delle sue opere, tanto più che si era attribuito il lavoro di altri, opportunamente fatti sparire.
Di sicuro, in questo era stato un grande, aveva lavorato con perizia e pignoleria ammirevoli.
“È strano, vero? Ogni tanto, nel corso delle epoche, succede qualcosa. Qualcosa di così distruttivo, da cancellare secoli, magari millenni di fatiche, sogni, ricerche…a volte sono catastrofi naturali, a volte d’altro tipo.”

Grigno si stava rotolando nell’erba con espressione beata, sembrava perfino un po’ fatto, a dire la verità. “Corre nei prati del parco tutti i giorni, ha il giardino, ma qui è un’altra cosa”
Non aveva torto, l’odore del bosco, dell’erba, dell’aria, anche se a pochi minuti dall’unica strada e dal parcheggio, era un altro mondo, rispetto al verde cittadino.
Stava meglio di così soltanto da zia Greta, certo. Là, a milleottocento metri, si divertiva come un matto, impazziva letteralmente. E poi c’era il pastore della zia e quelli dei vicini con cui formavano bande di adolescenti scatenati.
“Lui è fortunato” commentò Marabel: “Il vostro giardino è quasi una foresta in miniatura, una biosfera perfettamente in equilibrio. La maggior parte dei cani vive in appartamento e va a fare il giro dell’isolato un paio di volte al giorno. Sai quanti ci metterebbero la zampa a stare come Grigno e Micky? Poi, la zia in Montagna…gli amici, le coccole suppletive.
Se miagolo e ti seguo fino a casa, mi adotti?”
Ridacchiai: “Uhmmm, se ne può parlare.” Non sapeva della mia idea di affittarle la casetta, ma le cose parevano andare nella giusta direzione.

“Parlando del Delfino. Io su ieri sera ho un sacco di domande. Tipo, quando lo hai visto in quella serie di flash, ad un certo punto lui ti ha detto una sfilza di cose abbastanza scioccanti. Tipo, forse ho capito male, ma…ti ha detto che lui, cioè lui il Faraone lo aveva allontanato sapendo che gli avrebbero fatto la pelle? Ho capito bene?”
Mi guardò tra le ciglia socchiuse, pensierosa: “Si, hai capito bene”
Restai là a guardarla come una scema, a bocca aperta: “Mmma…ma…maa…”
“Se te lo dico ora, potrei scatenare un incidente diplomatico con Parigi.” Rispose serafica.
Sbuffai. “E quella cosa, quella dell’apertura della bocca? Che doveva farla lui, ma l’avrebbe lasciata a te? Ne parlano sempre, ma io non ho mai capito cosa fosse, voglio dire, veniva fatta dopo la mummificazione, quando ormai il buonanima era tutto bendato e inscatolato in un certo numero di sarcofagi…come facevano? E poi, almeno nei dipinti, sarebbe stato Aye a farla, no?”
“Già! A quanto pare, quei due hanno fatto tutto, eh? Liberandosi opportunamente di chiunque intralciasse la loro strada…” restò a riflettere: “Dopo la sua morte le cose cambiarono improvvisamente, in tutto il paese. Aveva costruito un equilibrio che si spezzò non appena ebbe esalato l’ultimo respiro e…regole, leggi, la protezione che avevano coloro che gli erano vicini, tutto venne a mancare. Il paese sprofondò nel panico e nella confusione, oltre che nel dolore.”
“Ma N’kht era lì! Ed era carismatico, potente, capace…”
“Lo era, si. Avrai capito, però, come la situazione fosse sempre più precaria e scottante.
L’esercito era diviso in due, una grossa parte era con il Delfino, un’altra con il Generale..l’altro generale, e Aye.
I soldati vivevano di guerre, di bottini, di campagne e N’kht aveva fatto chiaramente intendere che avrebbe mantenuto la linea del cugino, compresa la politica sulle campagne militari, cioè mantenimento dell’ordine, presidio dei confini dove necessario, ma più niente guerre d’offesa, a meno che non fosse assolutamente necessario e questo significava…molto meno oro per i soldati.

Lui era amato, ma l’altro prometteva oro e potere. Ci fu chi tradì, abbacinato dai discorsi deliranti di uno che, poi, non è che abbia combinato granché, in seguito. A parte, naturalmente, cancellare l’esistenza di tre faraoni, quattro con Smenkhara, un paio di generali a lui superiori, tra cui il futuro Faraone, qualche ancella futura sposa di faraone…ed essersi appropriato di un certo numero di opere attuate dai suoi predecessori, fingendo di essere stato lui, aver sistemato il proprio cartiglio qua e là sotto vari ritratti per far finta fossero il suo…cosette così. D’altra parte, immagino che l’aver preso una batosta colossale dagli Ittiti, possa aver avuto il suo peso, anche se oggi non se ne sa praticamente niente. Per debita epurazione.”
“EEEHHHHHHHHHH??????????”
Mi sbirciò con la coda dell’occhio: “Ah, non te ne avevo parlato?”
“NO!” strillai. “Cioè, alla fine lui è andato a combattere gli Ittiti durante la peste? O dopo? No, spetta…ma era faraone?”
“No. E non avrebbe dovuto diventarlo, anzi, l’idea era di farlo sparire per l’onta della sconfitta.
Fu poche settimane prima del…dell’incidente.
Negli ultimi mesi della sua vita, dopo la morte della seconda bambina, le circostanze cambiarono repentinamente e in diversi modi. Come sai le condizioni del Faraone, in quel periodo, erano peggiorate in modo pesante e, alla fine, si rese necessaria la famosa operazione al piede. Con il suo medico e il Gran Sacerdote, avevamo stabilito di rimetterlo in forze il più possibile e poi tentare l’amputazione.
Il programma era di lasciargli integro l’alluce, cosa piuttosto semplice, e possibilmente le due dita esterne, il quarto e il quinto dito del piede, cercando di amputare soltanto le due centrali malate. Non sarebbe stato facile tecnicamente: in teoria, amputare le quattro dita sarebbe stato più comodo e sicuro, ma ci sarebbe voluta una protesi, mentre avendo tre dita integre praticamente avrebbe potuto muoversi in modo normale. Insomma, i medici avrebbero deciso come comportarsi al momento dell’operazione: se avessero visto che il male stava attaccando le altre dita, avrebbero amputato tutto, altrimenti avrebbero fatto il possibile per limitare i danni. In ogni caso, Sua Maestà doveva essere in forze il più possibile, o il rischio di infezione sarebbe stato troppo elevato.
Appena si fosse ripreso dall’operazione, poi, avrebbe annunciato il nostro matrimonio, che è come dire che tra noi e il nostro matrimonio c’era di ostacolo la bazzecola della sua sopravvivenza.

Le cose però si stavano facendo sempre più pesanti e difficili a corte, anche chi lo adorava cominciava ad essere molto nervoso per la sua fragilità, le sue frequenti febbri e tutto il resto e lui era stanco. C’era stato il lutto, lui si era nuovamente impuntato per la mummificazione della bambina, mandando fuori di testa la corte e lasciando nel panico metà della popolazione, e si stava creando molto, molto nervosismo perché ormai stava mostrando con molta determinazione quale direzione politica, spirituale e religiosa, avesse in mente di prendere.
Religiosa, a dire il vero, è un termine molto riduttivo, ma per capirci…insomma, sembrava un controsenso: il ragazzo era sempre più gracile, in apparenza, eppure le sue prese di posizione erano sempre più nette e determinate, a volte inappellabili. Era sempre gentile, se la sua salute glielo permetteva perfino scherzoso, sorridente, disponibile, ma tendeva a non discutere più di tanto. Proponeva, ascoltava, e poi decideva, senza dare eccessivo peso alle obiezioni.
Esercitava la sua autorità come mai prima. Gli altri si opponevano e lui alzava appena una manina e li metteva a tacere. “Questa è la volontà di Sua Maestà.” Diceva. Punto.
Vedi, per anni aveva usato la politica del convincimento, della discussione, si era mostrato umile e disposto a seguire i consigli, facendo spesso di testa sua, ma in modo non evidente, sottile.
Penso che si fosse semplicemente stufato di perdere tempo in discussioni sterili.
Insomma, se non ti va bene il mio operato o mi dai una motivazione valida per ritenere io stia commettendo un errore, oppure puoi sempre andare a pesca. O a fare gare di nuoto con i coccodrilli. Gentile, si, ma li sfidava, ormai apertamente.
Non aveva scelta: non avendo più la forza di usare quella specie di mesmerizzazione, convincendoli che stavano facendo quello che loro volevano e non il contrario, doveva mettere sul piatto il peso della sua autorità, senza mezzi termini, ma questo lo rendeva pericoloso.
Il nervosismo che serpeggiava, tra inchini e sorrisi falsi era palpabile.

Un giorno arrivai al palazzo reale per la cura quotidiana e quasi mi scontrai con il Generale: non lo vedevo da quella famosa notte al tempio. Mi si parò di fronte con un sorriso trionfante e disse: “A quanto pare, alla fine, stiamo cedendo, eh?” io lo guardai incredula, non potevo capire di che accidente parlasse, ma non volli chiedere nulla per non fargli capire che non sapevo qualcosa di importante, che evidentemente lui sapeva.
Corsi negli alloggi reali, e trovai Sua Maestà disteso, gli occhi chiusi e segnati da occhiaie.
C’era il Delfino con lui. Mi venne incontro e mi portò a parlare fuori, in un angolo riparato e mi spiegò che Sua Maestà aveva fatto con il Generale una specie di accordo.
Poteva partire subito per una campagna contro Hatti, ma, in caso di sconfitta, avrebbe accettato un terreno e una villa in un Nome presso il confine nubiano e si sarebbe ritirato dalla vita militare e politica. Sembrava una proposta assurda per un uomo tanto ambizioso, ma lui era così sicuro di vincere che non aveva esitato ad accettare, ma, disse il Delfino, gli Ittiti erano pronti.
Sapevano che sarebbero stati attaccati, come, quando, dove e con quante truppe, sia a cavallo che di fanteria e la sconfitta del Generale era praticamente certa.
N’kht e Sua Maestà ne avevano parlato a lungo e, per quanto non sembrasse una soluzione onestissima, era sembrata la più accettabile.
Gli Ittiti erano ancora impegnati con le ultime recrudescenze della peste, ma non erano piegati dal male, se non in modo parziale, forse più psicologico che fisico.
Inviare una delegazione Keftiu a vendere una battaglia, sembrava ormai l’unica via da percorrere per liberarsi di un uomo troppo fanatico per non essere pericoloso, un guerrafondaio strafottente, e sarebbe stata una buona soluzione anche per Hatti: quella vittoria avrebbe mostrato al mondo come il grande impero Ittita fosse ancora il più forte.
Odiavo il Generale, ma questa storia non mi piaceva, mi dava disagio.
Temevo, per esempio, che qualcuno scoprisse qualcosa e lo riferisse al Generale, o che gli Ittiti, alla fine, decidessero di andare fino in fondo e conquistassero l’Egitto, ma N’kht mi rassicurò: la parte più importante dell’esercito era ai suoi comandi e, in caso di imprevisti, sarebbe intervenuto riportando la situazione a nostro vantaggio.
In ogni caso, Sua Maestà si fidava della loro parola, anche se non capii come potesse essere tanto sicuro della loro onestà.
N’kht mi disse solo che, tra il cugino e gli Ittiti, c’era qualcosa di misterioso di cui nemmeno lui era a conoscenza.
Si può dire che Sua Maestà e il suo Delfino stessero ripagando il Generale con la sua stessa moneta, ma, se N’kht era indifferente, troppo abituato alle battaglie sul campo e al concetto di sporca guerra, per il Faraone quel gesto era una mezza sconfitta morale.
Era un idealista e tradire, quando lui e la sua famiglia avevano spesso sofferto per altrui tradimenti, non lo faceva sentire vendicato, lo faceva sentire male e basta.
D’altra parte, questo era un modo molto elegante per liberarsi da almeno un più che probabile traditore. Ovviamente, gli unici a sapere come stessero realmente le cose erano il Faraone, N’kht, Mursilis e un paio dei suoi figli. E io, ovviamente.
Per gli altri tutta la questione era una specie di scommessa tra un faraone cocciuto e un generale altrettanto cocciuto.
Aye e i suoi fedeli parevano soddisfatti, comunque: evidentemente, dimostrare agli Ittiti chi fosse il più forte era un atto di forza di fronte al mondo e un’acquisita maturità del Faraone, che non aveva mai voluto ascoltare i buoni consigli.
È pazzesco, pare che Egizi ed Ittiti non potessero fare a meno di darsele di santa ragione, periodicamente. Poi, naturalmente, commerciavano in segreto, usando Mitanni, Libanesi o Keftiu come intermediari, un po’ come oggi, che tutto il mondo arabo vuole cancellare Israele dalla faccia della terra, ma si comprano la merce ebraica a vagonate. E non solo legale, temo.
Lui doveva soltanto stare buonino per un po’, poi, con la sconfitta del Generale, avrebbe dimostrato in primo luogo di aver avuto ragione, in secondo luogo si sarebbe liberato di un fastidio che avrebbe reso ancora maggiore il potere di N’kht, ormai senza rivali. Questo, in fondo, non sarebbe dispiaciuto nemmeno al Gran Visir, visto che il Delfino rimaneva pur sempre suo genero.”
“Non gli avrebbero dato la colpa del fallimento della campagna?”
“No. No perché i patti erano che il Generale sopravvivesse e, al suo ritorno, si sarebbe beccato una gran bella lavata di capo, sai, il classico “te l’avevo detto!” e, dopo due anni, forse di più, di litigi, insistenze e prese di posizione, con tanto di testimoni, non avrebbe potuto replicare.
Inoltre ci sarebbe stata la figura del Generalissimo N’kht, contro di lui. E, non dimenticarlo, sebbene il Generale non sapesse esattamente cosa fosse successo quella notte nel Tempio, ciò di cui era certo, era che il Faraone lo aveva schiacciato. Chissà, forse ne aveva sentito la voce o lo aveva visto, come lo vidi io fuggendo in quel raggio di luce.”
“Già, diceva di averlo imprigionato nella sua paura”
“Esatto.”
“Fooooorte!!” esclamai come una bimbetta. “Ma invece? Non è andata così! Perché le cose non sono andate così? È addirittura salito lui sul trono, qualche anno dopo!”
Marabel annuì: “Già. Qualcosa non funzionò. A dire il vero, la battaglia fu molto rapida e gli Ittiti sconfissero l’esercito egizio anche più rapidamente del previsto, ma il Generale non diede le dimissioni.
N’kht, dopo la sconfitta, era corso sul campo di battaglia, presso Amqa, vicino a Qadesh, firmando con i generali Ittiti un trattato in cui veniva delineato il confine dei territori persi dagli Egizi e guadagnati dagli Ittiti e un patto di pace armata e non interferenza.
Mi risulta che Horemheb non abbia poi condotto grandi battaglie, durante il suo regno, peraltro durato circa una dozzina d’anni, ben diversi dai ventisette o trentatre o addirittura cinquantanove da lui dichiarati. D’altra parte, doveva far tornare i conti, elidendo quei tre o quattro predecessori. Presumibilmente ci furono le solite scaramucce di confini e di potere, ma niente di che.
E il buon buzzurro se ne andò da questo mondo senza lasciare eredi. N’kht non aveva avuto figli con la pargola di Aye, quindi potremmo pensare che fosse lei a non essere fertile, ma sappiamo che Horemheb ebbe almeno un’altra moglie in precedenza, ma nemmeno con lei generò un erede, per cui appare probabile che il problema fosse proprio lui, il che ha un che di divinamente equanime, visto che il Generale non perse mai occasione per rimarcare la mancanza di eredi del Faraone.”

“D’accordo, ma non mi hai spiegato cosa successe a N’kht! Abbiamo capito, lo hanno fatto secco, ma come, quando e perc…ok, il perché puoi tralasciarlo, ci arrivo. Come e quando”
Si strinse nelle spalle, gli occhi fissi oltre il dirupo, verso la valle, novecento metri più in basso.
“È tutto così confuso, quel periodo! Io vivevo praticamente in uno stato di ansia perenne: per la salute del Faraone, per l’avvicinarsi dell’amputazione, ero terrorizzata che lui potesse non sopravvivere, e poi c’era la questione del matrimonio, che avrebbe richiesto anche la separazione da mio marito. Lui era preparato a questo, da anni, ma sapevo che soffriva e ci stavo molto male. Inoltre io avevo ormai quasi ventisette anni, ero sposata da un pezzo e non avevo avuto figli e questo, come ben diceva Ankhesenamon, non sarebbe stato una cosa da poco. Ho la sensazione di una serie di eventi che si susseguono in una danza rocambolesca di cui non riesco ad afferrare tutti i passaggi, sempre più incalzanti.
Il Generale torna sconfitto dalla campagna contro Hatti, ma non se ne va.
Sua Maestà invia il suo Delfino a placare una rivolta ad Oriente, ma dove? E mentre lui non c’è, ha questo increscioso incidente, che lo manda in coma.
E poi tutto inizia a sgretolarsi, improvvisamente non c’è più né il Faraone, né il suo successore, tutto è ostile e spaventoso, il mondo intero va a rotoli.
Vedi, oggi tutti pensano che le condizioni del Faraone si fossero semplicemente aggravate in modo irreversibile e la sua morte sia stata l’inevitabile conseguenza della sua salute, ma non è così, è il contrario.
Lui stava migliorando, aveva molte speranze. La storia dell’operazione era stata tenuta segreta fino all’ultimo momento, ne eravamo al corrente soltanto il medico, il suo aiutante, che avrebbe dovuto operare con lui, io e naturalmente il Delfino. Beh, immagino anche mio marito, ma nessun altro. il medico era assolutamente fedele, e l’unico su cui potremmo ragionevolmente avere qualche dubbio potrebbe essere il chirurgo, ma sono certa che non abbia mai parlato, per la semplice ragione che, per mesi, nessuno sospettò nulla, ma, appena fu diffusa a corte la notizia…lui ebbe l’incidente. Il giorno dopo. Un po’ troppo per essere una casualità, non trovi?”

“La notizia che lo avrebbero operato a quel piede?” annuì: “Si, beh, ci fu una riunione con i membri del cosiddetto consiglio di reggenza, cui eravamo presenti io come guaritrice, il medico, l’altro medico, N’kht e poi, ovviamente, il Gran Visir e la Sposa Reale. Forse Maya, ma non ricordo. Mi pare non ci fossero nemmeno scribi o segretari, a dire la verità.

Sua Maestà era molto sereno, annunciò che aveva notizie delicate, ma molto importanti che avrebbero potuto cambiare profondamente la sua vita e la vita di chi gli era intorno, poi diede la parola al wabu, il quale spiegò dettagliatamente cosa sarebbe successo alla luna nuova, di lì a tre giorni. Aspettare la luna nuova era il modo migliore per ridurre al massimo il sanguinamento e il pericolo di infezione. Il medico spiegò come intendeva operare e che sperava si potessero salvare tre delle dita, anche se esisteva il pericolo che il piede rimanesse quasi del tutto mutilato, ma in questo modo si sarebbe fermata la malattia, definitivamente.
Spiegò cosa sarebbe successo dopo e che era possibile tentare l’operazione perché Sua Maestà si era sufficientemente irrobustito, in quegli ultimi tempi. Si sentiva molto ottimista e, davvero, il Faraone era raggiante e riposato, stava bene. Quel giorno mi aveva fatta sedere a terra accanto a sé e, durante la riunione, non aveva mai smesso di tenermi la mano, nonostante gli occhi puntati addosso di zietto Aye. Anche quella era una sfida…forse un’imprudenza, chissà.
Aveva molto dolore a tutta la gamba e, a causa del dover mantenere una pessima postura, aveva dmale all’anca e alla gamba destra, che era sempre sovraffaticata, ma, a parte quello, stava molto meglio di quanto fosse stato negli ultimi anni. Nei giorni precedenti era addirittura uscito a cavallo e aveva tirato con l’arco contro dei bersagli, assieme al Delfino.
Non lo vedevo così da almeno cinque anni, credimi. Pareva un miracolo…
Ovviamente Aye si scagliò contro di lui, disse che il Faraone doveva essere uscito definitivamente di senno e che quella follia lo avrebbe portato alla tomba, ma il wabu sostenne imperterrito che, al contrario, avrebbe potuto essere la sua salvezza, perché quel male stava infettando il suo sangue. Certo, non avrebbe guarito altre patologie del Faraone, ma sicuramente per l’afflizione alla gamba e che, con un’adeguata protesi, che stavano già progettando, e sandali appositi, avrebbe camminato presto normalmente, appena claudicante. Da lì in poi, si sarebbero potute cercare con più calma soluzioni adeguate per gli altri mali, ma almeno uno, il più doloroso e ormai pericoloso, sarebbe stato arginato.
Fu questo a terrorizzare qualcuno, là in mezzo: nell’ultimo anno erano stati molti più i giorni in cui il Faraone era costretto a letto o febbricitante, che non quelli in cui era in grado di svolgere i suoi compiti, meno ancora quelli in cui si sentiva bene e costoro sicuramente contavano quanto poco li separasse dal funerale del ragazzo. Poi, improvvisamente, quel miglioramento repentino e ora, improvvisamente, i loro sogni di gloria si infrangevano così!
All’alba N’kht partì e la mattina dopo Sua Maestà ebbe l’incidente. È davvero curioso, non trovi?”

Mi uscì un francesismo da censura.
Quella notizia era così sfacciata da arrivare come uno schiaffo. Dovevano essere davvero preoccupati per agire in modo così palese: era chiaro che le possibilità di sopravvivenza del Faraone dovevano essere una buona percentuale, troppo elevata per non mandare quegli avvoltoi nel panico.
“Ma…ma N’kht ti disse che lui lo aveva mandato lontano. Se si aspettava che agissero contro di lui, perché lo fece? Cosa voleva ottenere?”
“Questo è un discorso lungo e complesso, Eva, vorrei farlo a tempo debito perché è quanto di più esplicativo di tutto ciò che accadde dopo. Non volevo quella soluzione, ma Sua Maestà sapeva che la sua salute sarebbe migliorata per una parte, avrebbe bloccato la necrosi e le infezioni, ma non le sue malattie genetiche e congenite. In quel momento era in forze, era felice, perché sapeva che, appena ripresosi dall’operazione, ci saremmo finalmente sposati, ma…gli rimaneva comunque poco tempo, tre anni, quattro, forse, non di più. A meno, naturalmente, di trovare la Piramide d’Oro. O lo Djed, o una qualche altra diavoleria. Era stanco, sai?
Vedi, lui sapeva cose che gli altri ignoravano sulle sue condizioni e N’kht era forte, saggio, autorevole, imponente, carismatico, deciso, giusto.
Ed era completamente pronto a seguire qualsiasi indicazione gli avesse dato l’aureo cuginetto, come lo definiva scherzando. Così, aveva maturato un piano che per la nostra cultura e conoscenza ha dell’assurdo, ma non per lui, per noi, per quei tempi. Un piano, devo dire, assolutamente geniale, se avesse funzionato.
La vera tragedia fu la scomparsa del Delfino: se ci fosse stato lui, le cose sarebbero andate completamente in un altro modo e, oggi, quella farfalla blu sarebbe là, in qualche teca, in un mondo molto diverso da questo. E a far sparire N’kht dovette essere qualcuno che sapeva molto bene quanto fosse importante, pur non essendo a conoscenza, probabilmente, dei reali progetti di Sua Maestà. È che morto un faraone se ne fa un altro, non è molto grave, di solito, ma se un faraone molto pericoloso lascia il regno in mano ad uno quasi più pericoloso di lui e con una speranza di vita di decine di anni davanti a sé, immagino la faccenda si faccia molto seria.”

Cominciava a fare caldo e cominciavano ad arrivare turisti, troppi per i miei gusti.
Tornammo al locale a prendere una bibita fresca e una scodella d’acqua per Grigno e risalimmo in auto. “Insalata di riso stasera e anche domani. Pensi di farcela? Non volevo lasciare roba in frigo, sai…”
Lei sorrise: “Domani non pensavo di fermarmi a cena, sai, voglio andare via un po’ presto e poi tu devi partire, il giorno dopo.”
Volevo parlarle della mia idea della casetta, ma non volevo farlo in assenza di Franco.
Ero triste. Volevo che l’indomani ci fossero ancora tante cose da dire, volevo partire con lui felice di aver coronato il sogno di una vita con la sua vera sposa.
Sapevo non sarebbe successo e mi sentivo pesante come non credevo possibile.
Avevo in mente l’immagine dello schizzo di Marabel, quegli occhioni pensosi che, da un tempo infinitamente lontano, la accarezzavano con tutto l’amore dell’Universo.

A casa fummo accolte da due gatti molto sdegnati che avevano lanciato due sedie pesanti sul pavimento, rotto un vaso, divelto un tappeto nel proposito di nascondere le loro malefatte e ora se la prendevano con noi. Si, beh…se Marabel avesse accettato di abitare la casetta, quei due avrebbero dovuto imparare un po’ di buone maniere!
“Penso si siano rincorsi, sai?” disse Marabel pensierosa: “Si, con un certo entusiasmo. Immagino, micetti belli, che abbiate avuto a che fare con qualche catastrofe nei cui confronti la scomparsa di Santorini sia una bazzecola, no?” indagai io.
I due criminali se ne stavano seduti a guardarci con quella faccia piena di rimprovero scandalizzato che solo i gatti colpevoli di qualcosa riescono ad avere e non muovevano una coda mentre passavamo loro intorno per risistemare tutto.
“Sono un po’ vivaci, insieme, eh?” disse la mia amica spalancandomi due occhioni così.
“Umpft! Mostri!”

“Quindi…mi sono persa. Allora, vediamo un po’…tu e famiglia siete sconvolti dall’aver scoperto che il soldato che vedevi accanto al Faraone non era un soldato, ma la persona più importante dopo di lui, bene. Sappiamo che il rapporto con alcuni della corte si guastarono a causa dell’idea malsana di mandare soccorso agli Ittiti e con la sepoltura ufficiale di una bambina mai nata e poi ci fu quella disperata ed inutile ricerca di qualcosa che potesse riportarlo in salute, ma qualcosa che però era una leggenda. Almeno…è qui che ci siamo persi: abbiamo iniziato a parlare di scoperte archeologiche negate o meno, di Antartide, di shuttle in fondo all’oceano e abbiamo abbandonato la nostra storia. Però, tutte ‘ste piramidi in giro per il mondo e quelle cose strane in fondo al mare, tra l’altro dalla parte del Pacifico, mi fanno venire in mente la tua visione.
Qualcosa nel Pacifico, dove non c’è niente se non le Hawaii e le Galapagos. E quell’uomo in piedi sulla terrazza di una piramide a gradoni. È affascinante! Ma poi, alla fine, riusciremo a capire la faccenda delle due stirpi? Devi aspettare il parigino, eh?”
Lei mi strizzò un occhio: “Temo di si. Ma non posso dirti che capiremo la faccenda delle due stirpi. Ho dei sospetti, altri, in questi anni, hanno esposto delle teorie, non sapendo niente di me, che potrebbero dare delle conferme, ma niente di definitivo. Forse dovremmo mettere insieme più pezzi, per venirne a capo. Dai, sono le quattro meno venti, abbiamo giusto il tempo di riordinare un po’ i tuoi appunti.”
“Ci vorrà altro che un’ora e mezza a riordinare tutta ‘sta roba! Certo che morire così, quando era ad un passo dalla soluzione!”
“C’erano esseri crudeli, là, in quel tempo, forse ci sono ancora. Forse c’è gente peggiore, se ti guardi attorno. Una delle cose che mi sono spesso trovata a considerare, in questi anni, è che questo tanto celebrato ed osannato progresso, non saprebbe cosa fare in casi come il suo.
Se oggi uno soffre di un’osteonecrosi, amputano. Trentatre secoli dopo. Non c’è una cura evolutissima che possa semplicemente fermare l’avanzare della necrotizzazione e  curare la parte colpita. La mia imposizione delle mani, le cure del suo wabu, le incisioni compiute assieme, non fermarono la malattia, ma la tennero quasi ferma per sette anni, tanto che gli egittologi che si resero conto di quel problema, alcuni oggi lo negano, come ben sai, o diciamo che lo ignorano, pensarono che fosse stato “presumibilmente” afflitto da quel male negli ultimi due anni della sua vita. Quindi, forse non è malaccio come risultato. Non furono due, furono sette, se consideri che mostrò i primi effetti del male intorno ai tredici anni. Lo curammo con l’amore, il miele, la propoli e la pappa reale, erbe, resine…e lo curammo meglio dei geni della medicina attuale.
Contro la Marfan, in tempi recenti, alcune cure si sono trovate, ma niente di risolutivo.
L’unico tipo di trattamento, quando i problemi cardiaci diventano seri, è un intervento chirurgico.
Altrimenti, farmaci beta bloccanti o bloccanti del recettore 1 dell’angiostensina 2.
Se ascolti i medici sostengono che, se fino a pochi anni fa, chi era afflitto da questa malattia non superava i quarant’anni, come tremila anni fa, oggi l’aspettativa di vita è “praticamente pari a quelle del resto della popolazione”. Però invocano fondi per la ricerca, il che mi dà da pensare. E quando con i miei parlammo con persone affette da Marfan, beh, loro non erano così ottimisti.
In ogni caso, lui non aveva soltanto quei due problemi e se fosse nato qui, in questo tempo, in quelle condizioni, probabilmente non avrebbe superato il primo anno di vita. Invece arrivò a vent’anni e li avrebbe superati, se non fosse stato per…quelli là.”

Vent’anni. Diciotto per gli archeologi, probabilmente fuorviati da un paio di date e dal ritardo nello sviluppo. Pochi, in ogni caso, troppo pochi e noi, il nostro racconto, era ormai entrato nel suo ultimo anno. Lo immaginavo che si faceva curare, che ce la metteva tutta per stare bene, fremendo nell’attesa di quella pericolosa soluzione ad almeno uno dei problemi e al suo prossimo matrimonio, un matrimonio vero, desiderato da sempre, con la sola donna che veramente amava.
E poi? Perché? Perché non si era tenuto stretto quel cugino prezioso, non si era fatto proteggere?
Aprii la bocca un paio di volte, ma la richiusi, perché sapevo che, qualunque domanda avessi fatto, Marabel non avrebbe risposto prima dell’arrivo virtuale di Franco.

“E invece, l’altro seminario? Quello di gennaio? Hai detto che lo avete poi rifatto, che è successo?”
“Oh, beh…diverse cose strane e interessanti. C’era un ragazzo, un tipo non male, biondino, uno di quei timidi che fanno i superuomini per non dare nell’occhio. Era là quasi costretto dalla madre, una donna molto singolare, apparentemente eccentrica, malata di enfisema a causa del fumo, vedova, e con caratteristiche trasmesse al figlio non comuni. Senza volere era molto in gamba, o lo sarebbe stato, nelle guarigioni. Raccontò, ritrattando praticamente mentre raccontava, di essersi trovato in una situazione d’emergenza, pochi mesi prima, con un ragazzo che era andato in coma dopo aver ingerito accidentalmente della benzina. Avevano chiamato l’ambulanza, ma durante l’attesa, lui, senza sapere perché, si era seduto accanto al corpo e aveva iniziato a chiamarlo, facendo strani movimenti con le mani, senza nemmeno sapere perché li facesse. Non era la prima volta che gli succedeva, così si lasciava semplicemente guidare. E, improvvisamente, il tipo si era ripreso, prima ancora dell’arrivo dei soccorsi.
Giorni dopo era andato a cercarlo dicendo che, in ospedale, gli avevano chiesto chi lo avesse soccorso dopo lo svenimento, e lui aveva spiegato come poteva cosa fosse successo. I medici gli avevano risposto: “D’accordo, qualsiasi cosa abbia combinato il tuo amico, ti ha salvato la vita”
Il ragazzo gli aveva detto di aver visto una grande luce e delle persone che gli andavano incontro, poi aveva sentito la voce del biondino chiamarlo e delle grandi mani che lo riportavano indietro e si era svegliato nel bagno del parcheggio. Non sapeva come fare per ringraziarlo, ormai lo considerava una mezza divinità e, pochi giorni dopo, era andato a vivere con la sua ragazza, si era convertito, aveva messo la testa a posto e smesso di fare gare clandestine con le auto e bere.
Ma lui, sinceramente, non aveva idea di cosa fosse successo, considerava quella mezza resurrezione come un caso. Non era la prima volta che gli capitava e la madre, senza dirgli niente, lo aveva iscritto a quel seminario, pagando in anticipo sia l’alloggio che il corso, così era stato costretto a venire, ma era molto a disagio, si sentiva fuori posto.
Gli piacqui, da subito. Era molto evidente, sai, non cercava di nasconderlo, nonostante la timidezza e la presenza di altra gente. Faceva un po’ lo sbruffone, ecco.
Ci aspettavamo chissà che meraviglie, chi parlava di un guaritore esseno, chi di uno sciamano siberiano o un grande sacerdote Maya, per esempio, invece niente.
Devi sapere che ci venne data, come la volta prima, una vita su cui lavorare seriamente e una traccia di una seconda su cui si lavorò mezza giornata. Io non ricordo la sua altra vita, ma quella seconda traccia si, perché mi riguardava.
Vedi, lui ebbe come traccia un’area nel Sud degli States, inizio novecento, una grande villa.
Io inizio novecento, Louisiana, Gospel. Strano, vero?

Ero una ragazzina nera, avevo due fratelli più piccoli, forse mi chiamavo Dora.
Stavamo bene, rispetto ad altri, mio padre faceva l’autista per una famiglia ricca, mia madre la cuoca nella stessa famiglia. Avevano un solo figlio, loro, un ragazzino poco più grande di me.
Giocavamo assieme nei grandi giardini della villa.
C’era una chiesa battista, bianca, non molto grande e un prete nero alto e con un sorriso più bianco della chiesa. Gli volevo bene, gliene volevamo tutti. Penso fosse il maestro, ci insegnava a cantare nel coro. Io ero la solista e i suoi occhi ridevano quando cantavo.
C’era un campo, fuori dalla chiesa, dove cresceva qualcosa, non penso fosse grano, mi pare che le spighe fossero troppo morbide. Avevo un abitino rosa con le maniche a sbuffo e cantavo giocando in quel campo, accarezzavo con le mani quelle spighe alte quasi quanto me. Poco più in là c’era un fiume e alberi lungo le rive. Io giocavo in quel campo cantando: “Michael row the boat ashore, halleluja… River Jordan is chilly and cold, hallelujah. Chills the body, but not the soul, hallelujah…”

Non avevo ancora vent’anni quando cominciai a guadagnarmi da vivere con la mia voce. Cantavo in un posto dove la gente si metteva elegante e andava a cenare o solo a bere qualcosa e ascoltava la musica. A volte venivano anche dei bianchi.
Lui veniva sempre, da solo, sedeva ad un tavolino in fondo alla sala, ordinava qualcosa e restava là, con un panama bianco calcato sulla fronte, fingendo di essere lì per caso, ma veniva per me. E io cantavo per lui, pur senza guardarlo.
Ero molto felice. Mia madre mi diceva che non dovevo incoraggiarlo, perché era il figlio dei padroni e, anche se mi voleva bene, non avrebbe mai potuto compromettersi e avrei finito per diventare soltanto la sua amante, o sarei rimasta sola.
Io non so, forse non le credevo, forse non volevo pensarci, forse non mi importava. Vivevo quell’attimo, senza chiedermi nulla.
Ero innamorata, facevo un lavoro che desideravo e mi dicevano che avevo talento, che sarei diventata famosa, un giorno e io, forse, pensavo che questo sarebbe bastato a colmare tutto il resto.

Un giorno venne un’epidemia. Morì molta gente, anche suo padre.
Io non morii, ma mi ammalai gravemente, era qualcosa ai polmoni. Non so se ci fosse una relazione, con questo, ma stavo perdendo la vista. I miei spesero tutto quello che avevano da parte per curarmi, e chiesero aiuto a familiari e amici, ma non era sufficiente.

Un medico bianco disse che ci sarebbe stata una cura, ma bisognava andare a New Orleans ed era molto costosa.
Lui sapeva tutto, sapeva di potermi salvare, ma non disse niente per non compromettersi.
Morii a circa ventidue anni.
Lui non venne al mio funerale, andò in quel locale, andò nel mio camerino e si uccise.

Per tutto il tempo Io finsi di non essere la stessa ragazza dei suoi ricordi, inventai delle cose diverse, attenta sempre a parlare dopo di lui per non rischiare di dare tracce simili e l’istruttore, che non era la gallina della volta precedente, capì e non disse nulla.
Il ragazzo biondo fu parecchio sconvolto da quell’esperienza, soffrì molto a causa della sua viltà, disse di aver improvvisamente capito perché non poteva fare a meno di provare rabbia e disprezzo per se stesso, ma lui non sapeva: io non potevo restare, io dovevo andare via di là, da quel tempo, dovevo lasciare quella vita, perché la tomba era stata aperta.” 
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Appena pensavo non potesse più esserci niente di sconvolgente nel suo racconto, sistematicamente restavo con un palmo di naso.
In questo caso specifico avevo le lacrime agli occhi: quella vita, nella sua semplice drammaticità, forse perché tanto vicina a noi, mi toccò più profondamente di quanto si possa immaginare.
Quel ragazzo biondo, ricco, chiaramente innamorato, si era comportato da vigliacco ed egoista, senza nemmeno sapere che non stava facendo altro che quello che doveva fare e che quello che doveva fare era sacrificare lei, quella lei imprigionata in quell’incarnazione per un disegno, un destino, un chissà cosa, molto più grande di tutti loro, qualcosa che, forse, era stato deciso da lui stesso migliaia di anni prima, insieme a qualcun altro.

“Era tuo marito, non è vero?”
“Credo. Sono quasi sicura di si.” Rispose: “E sono sicura che lui lo sapesse, come sapeva di essere la seconda scelta. Mi guardava, mentre parlavo, a pranzo, cena, o durante le condivisioni, con una strana espressione distante e malinconica, sorridendo appena e, più volte, mi accorsi che aveva gli occhi lucidi. Qualsiasi cosa succeda, ora, non lo voglio mai più incontrare. La sua missione è finita, è libero di andare per la sua strada.”
Sapevo bene che non parlava del prossimo futuro, ma del futuro: da adesso, fino alla fine del tempo e forse oltre.
Immaginai quell’uomo camminare da solo, dopo tre millenni in cui aveva eseguito, inconsapevole, l’ordine del suo Re; lo immaginai smarrito, confuso, ferito. Col trascorrere dei secoli, lei, senza il suo Sposo, si era legata a lui e ogni volta se ne innamorava o si convinceva di esserlo.
Erano diventati qualcosa di molto simile ad anime compagne, tenendosi per mano attraverso il tempo…ma lei, quella che ora io chiamavo Marabel, era lontana. Senza nemmeno saperlo, immemore, teneva nell’anima una parte del suo Sposo.
Forse non se ne accorgeva, ma lui doveva sentirlo chiaramente e, forse, ne soffrì sempre. Ora doveva abituarsi ad esistere senza di lei, come un ergastolano deve riabituarsi ad una inattesa libertà, scoprendo che la libertà pesa, disorienta, smarrisce e rende soli, almeno all’inizio.
È faticoso essere liberi. È doloroso rimanere soli.
Marabel voleva, da una parte, scrollarsi di dosso quella presenza che le era stata imposta, da un’altra la immaginavo lanciare in volo un colombo da un’altura e restare a guardarlo volare via nella sera.

“Le cose che stai raccontando…sono sempre più difficili da affrontare, non è vero?”
“È difficile, si. È proprio tecnicamente difficile spiegare e mettere assieme tutti i pezzi. E poi, ovviamente, è difficile ancora oggi accettare quello che successe.”
Presi l’acqua dal frigorifero e preparai un infuso di ribes nero, bello ghiacciato.
“Tecnicamente?”
“Si” rispose: “Tecnicamente, perché ci sono elementi così al di là della nostra concezione della vita, delle nostre nozioni sui popoli antichi…o che riteniamo tali, da rendere complicato spiegare con precisione la situazione. Senza contare che i ricordi iniziano ad avere degli impasse, dei blocchi, come se il mio inconscio non mi permettesse di affrontare e guardare in faccia alcuni episodi. Per questo è difficile.”

Grigno abbaiava festosamente in giardino, invitando a giocare noi, i gatti, le cornacchie, ma poiché nessuno se lo filava, rincorreva la sua stessa coda e cercava di saltare verso i rami più bassi per spaventare gli uccelli, ricevendo in cambio una serie di epiteti non proprio affettuosi.
Lui non ci badava. Forse non parlava uccellese, forse non gliene fregava niente, forse trovava divertente farli arrabbiare e basta.
I gatti si lavavano sul terrazzo, all’ombra, e lo guardavano sdegnati dall’alto.
Marabel e io ci mettemmo a riordinare gli appunti, in attesa delle cinque.
 “Ecco, qui abbiamo iniziato a divagare peggio del solito” esclamò pinzando alcuni fogli con una graffetta: “Meno male che hai segnato i numeri delle pagine, prima di strapparle…perché le strappi?”
“Beh, perché mi viene più comodo scrivere su quelli dopo. Tanto sono numerati!” replicai.
“Ssi, finché non arriva una folata di vento o una raffica di gatto!”
“Beh, comunque sono numerati!” rimbeccai. “Quindi, facciamo il punto. Abbiamo spaziato sugli ultimi sei, sette mesi della sua vita, giusto? Senza però un racconto cronologico vero e proprio.”
“No, tendete a fare parecchia confusione, tra tutti e due. E io vorrei potervi dire tutto, per cui peggioro ulteriormente le cose” constatò rassegnata.
“Si” mi entusiasmai: “Ma le cose che ci hai mostrato ieri, quelle strane strutture sottomarine, il racconto della faccenda dell’Alaska e poi tutta la tua storia nell’Egeo! Quella cosa è fantastica! Vedi, i tuoi amici avevano ragione, hai fatto bene a fare quei seminari!”
Aveva diviso i fogli a mucchietti tutti uguali e ora li stava pinzando con precisione.
Mi chiesi se avesse letto qualcosa o si fosse limitata a controllare i numeri delle pagine: tra le sue parole, alcuni riferimenti trovati via web, qualche schemino e un paio di schizzi, quei fogli erano pieni delle mie riflessioni e non ero sicurissima di volere che Marabel le leggesse.
“Si” commentò tra una punzonatura e l’altra: “Ammetto che quelle informazioni, apparentemente non così necessarie, servono invece a capire l’immensità del mistero che impregna tutta la faccenda.”
Si fermò con la pinzatrice in mano, lo sguardo nel vuoto: “Questa non è la storia di un ventennio. Non è la storia di un ragazzo, non quella di un re, o di una civiltà. Forse non è nemmeno la storia di un amore…è qualcosa di incredibilmente grosso e a volte mi chiedo come ci sia finita”

No, ecco, questo non andava bene: “Che dici, Marabel? Tu non ci sei finita! Tu ne sei parte integrante, di questa faccenda, tanto quanto lui!”
Lei sospirò: “Non lo so…mi sono chiesta tante volte come sarebbe stata la mia vita senza tutto questo. Se la mia maestra avesse, per esempio, saltato quel pezzettino di storia, se io non avessi mai visto quel viso, né sentito quel nome. Non so nemmeno dirti con certezza cosa avrei fatto.
Sai, mi piaceva un sacco tuffarmi e fare apnea, davvero. E non andavo a ferro da stiro, io!” affermò con forza: “Forse mi sarei dedicata all’apnea e poi? Magari non avrei seguito le orme di mio padre, forse avrei studiato, chessò, oceanografia, per esempio. Magari avrei lavorato con i delfini…biologia marina, ecco! Avrei potuto stracciare qualche record di apnea e poi dedicarmi alla biologia marina. Magari avrei conosciuto qualche bel biologo abbronzato e prestante e lo avrei sposato, sfornando un paio di delfinotti. Avrei avuto una bella casa in un angolo di mondo riparato dalle tempeste, in qualche insenatura, con un ingresso dalla pineta e l’altro a picco sul mare. Magari ci saremmo tuffati direttamente dalla terrazza di casa, perché no? Sarei stata felice. E anche i miei. Almeno credo.”
Avevo molti dubbi, ricordando il suo racconto della vita a Santorini: era importante, era adorata, aveva tutto, viveva in un posto da sogno, eppure si nascondeva a piangere da sola, per la mancanza di qualcosa, o qualcuno, che non arrivava mai. Non sarebbe stata felice, anche con una bella famiglia e un marito tenero e affettuoso, oltre che intelligente.
“Beh” risposi: “Avresti fatto biologia marina, poi saresti andata tipo in Antartide con un bel biologo marino a studiare orche e pinguini e là…ti saresti scontrata con qualche mistero che ti avrebbe portata esattamente dove dovevi essere. Solo che, scoprire con il tuo bel biologo tutto questo, compreso il fatto che appartieni dall’inizio del tempo a qualcun altro, non sarebbe stata una passeggiata, no? Per nessuno dei due. A proposito, Floyd è un biologo, no?”
Lei ridacchiò: “Oh, beh, si Floyd è un biologo, ma non un biologo marino e non credo sia mai andato in Antartide. D’altra parte, non so se ci sarei mai andata io. Forse ci si poteva incontrare a qualche congresso, chissà. O io avrei scritto dei saggi e lui li avrebbe letti e poi mi avrebbe mandato qualche lettera puntualizzando, chiedendo o obiettando qualcosa, oppure lui li avrebbe scritti e io avrei contattato lui…O forse no, forse non ci saremmo mai incontrati, evitando di farci del male.”
C’era malinconia nelle sue parole. Rimpianto per una vita che non aveva mai vissuto, né conosciuto, né immaginato, se non in qualche sogno ad occhi aperti nei momenti più bui, completamente imprigionata in quell’altra, che non le aveva dato scelta.

“Eppure hai avuto una vita interessante, Marabel. Viaggi, studi, un sacco di incontri, scoperte incredibili…a cui non credi, di solito, ma è fantastica! La tua vita non è sprecata.
L’unica cosa negativa è l’aver perso delle persone con cui avevi creato una squadra vincente ed essere rimasta così sola. Questo è male. Il resto è grandioso. Beh, poi, ovviamente, c’è il fatto di non aver ancora potuto trovare Sua Maestà. E questo non è poco, certo, ma pensa se tu domani lo trovassi! Allora ti accorgeresti che non c’è stato niente, ma proprio niente di sbagliato, e che tutto quello che hai fatto era esattamente la cosa migliore che potessi fare.
Sapresti di aver combattuto battaglie difficili, ma giuste e di averle combattute al meglio. In fondo…” riflettei: “Non è diverso da quello che succede a grandi scienziati incompresi, derisi, messi alla gogna e che poi, all’improvviso, diventano eroi o mito per sempre, grazie alla loro caparbia ricerca lungo una vita intera.
È soltanto il risultato finale a decretare il vincitore, non è vero? A definire se tutto sia assurdo ed inutile, oppure eroico e grandioso. Poi, a volte, c’è quel genio che muore di stenti, pensando di aver sprecato la vita e, poco o molto tempo dopo, qualcuno raccoglie le sue ricerche e trova quell’unico particolare che mancava, e allora tutto cambia. Si, sono sicura che sia frustrante, ma io credo che tu stia facendo qualcosa di straordinario. Anche se manca…quel particolare.” Conclusi sconfortata.
“Mi sono sempre sentita una disadattata, Eva. Non una ragazza speciale, con una vita affascinante, nonostante viaggi, musei, cultura e tutto il resto. Se i miei non fossero stati fuori quasi quanto me, sarei finita in cura psichiatrica per secoli, forse avrei finito i miei giorni in qualche casa per malattie mentali. E mi chiedo se non ci sia finito lui, tante volte. Come diceva ieri Franco, considerato il caso potrebbe essere indifferentemente su un trono, su un altare, o in manicomio.”

Il Beep del mio telefono mi informò che c’era un messaggio: “Ragazze, io ho finito prima, pago il tappezziere e sono tutto vostro, ci siete?”
Quel ragazzo doveva soffrire di una grave forma di telepatia.

Pochi minuti dopo la webcam ci mostrò il primo piano di un bavaglino con un maialino rosa davanti ad una tavola imbandita, la bocca piena di dolci e la scritta: “Je suis ton petit cochon”. L’immagine era un po’ sfuocata e ondeggiante, come se il portatile venisse portato in giro a passo di valzer. Dopo qualche sballottamento divenne stabile e orizzontale e la webcam inquadrò il “portatore di bavaglino” seduto davanti  allo schermo con una confezione maxi di gelato melone-pistacchio-cocco alla destra del pc. Non aveva un cucchiaino, mangiava direttamente col cucchiaio da gelataio, quello per fare le palline.
“Fao ‘agaffe!! Fuffo ‘ede offi?”
“Noi si, tu mi preoccupi…” risposi. “È feffo!” Marabel scoppiò a ridere.
“È gelato, Fra! Certo che è freddo!”
Finalmente trangugiò la cucchiaiata di gelato al melone e dopo una serie di versacci e mezze imprecazioni si scrollò con un brivido e si riaffacciò alla webcam.
“Mi avete fatto trangugiare di corsa, stavo per morire!” Marabel rideva sempre di più.
“No, sei tu che sei scemo! Potevi mangiare col cucchiaino, no?” lui mi guardò come fossi stata uno strano insetto: “Ma nel cucchiaino ce ne sta poco!”
Marabel era ormai sdraiata sul tavolo dalle risate. “Ufff!!! Che avete fatto di bello, oggi?”
Gli dissi della nostra gitarella, lui schiattò d’invidia ma fu felice per Grigno (che, dopo aver bevuto due scodelle di acqua e spazzolato un piatto di pappa e mezzo di crocchette, ora dormiva della grossa nell’altra stanza), quindi ci sistemammo per iniziare il nostro intensivo.

“Dunque” esordii dopo essermi schiarita la voce: “Sappiamo che per il Faraone, come è immaginabile, fu un colpo molto duro la perdita della seconda bambina, anche se, almeno razionalmente, era più che preparato. Anche sua sorella lo era, sembrava quasi rassegnata.
Apparentemente, al contrario di alcuni anni prima, quando era praticamente uscita di testa dopo il terzo aborto, la prese quasi con indifferenza, probabilmente per un meccanismo di autodifesa.
Lui no, nonostante fosse sicuramente il più forte ed il più saggio.
Poi sappiamo che subì un altro duro colpo quando tutte le sue ricerche di un qualche misterioso e antico strumento di guarigione, si rivelarono infruttuose. Non voglio dire vane, perché sono abbastanza sicura che non sia la parola corretta. Vane no, infruttuose sicuramente.
Gli eventuali strumenti erano più di uno, abbiamo: un tavolo di guarigione, che tu hai visto in un sogno fantastico parecchi anni fa nel futuro, lo Djed, che, pur essendo una cosa che appare spesso in illustrazioni, testi e perfino in forma di colonne o gioielli, non è l’oggetto originale da lui cercato e, infine, una misteriosa piramide d’oro, o meglio, un oggetto a forma di piramide, probabilmente custodita in una piramide che non avrebbe a che fare con quelle di Giza. Figo! Altro che caccia al tesoro, poro ragazzo!”

“Esatto. Sappiamo, da una visione molto precisa, che degli emissari Keftiu erano stati in territori, da quel che sembrava, Mitanni e probabilmente Ittiti, forse spingendosi perfino più in là, assieme ai mercanti, ma senza successo e sappiamo anche che una delle spedizioni scomparve all’arrivo nel Karakoram, nell’odierno Pakistan.
È possibile che volessero attraversare le Montagne insieme alle carovane locali o, ancora più probabilmente, volevano penetrare nella catena del Karakoram per incontrare qualcuno. Là da molti millenni è pieno zeppo di luoghi leggendari, abitati da eremiti e da Monaci dalle capacità straordinarie. Oggi si pensa siano da attribuire all’avvento del Buddhismo, ma vuoi mettere tutta la conoscenza precedente?!? Induismo antico, Shivaismo del Kashmir e chissà quante scuole o correnti di minor fama, magari oggi scomparse, potevano invece esserci? Forse cercavano qualche Monastero isolato in mezzo ai bricchi, dove vivevano dei saggi, detentori di conoscenze antiche. Non dico Shamballa, magari una roba un po’ più a portata di mano. Metaforicamente parlando, naturalmente”
Franco ingollò una cucchiaiata di gelato: “’erò ‘ofì fi fono ferfi!”
“Non lo sappiamo, Franco” spiegò Marabel: “Sappiamo che si erano persi i contatti con loro, almeno per il periodo in cui Sua Maestà rimase in vita, ma il viaggio era lungo, molto lungo. Parliamo di carovane, di un’area sconfinata, potrebbero semplicemente aver avuto bisogno di molto tempo per raggiungere un posto del genere e poi…beh, poi avrebbero dovuto poter comunicare con i Monaci, scoprire se sapessero o meno cosa loro stavano cercando e poi andare a cercarlo. Anni! Esattamente quello che Sua Maestà non aveva. Potrebbero essere tornati chissà quanto dopo la sua morte, oppure, avendone avuta notizia e avendo scoperto come le cose si fossero messe in Egitto, potrebbero aver deciso di non tornare o di non farsi riconoscere.
Non è affatto detto che siano scomparsi. Certo, il Faraone era molto preoccupato, non sapendone più nulla, ma non disperato: la disperazione gli veniva dalla consapevolezza che, se stavano bene, come si sperava, erano molto, molto lontani. Troppo.”

Già, come dimenticarlo? Stiamo parlando di uno morto a vent’anni. Cioè…di lì a poco. C’eravamo quasi, ormai. Sedetti sconsolata: non potevo neppure rubare il gelato a Franco.
“Beh, quindi? Avete deciso di metterlo in forma il più possibile per tentare l’amputazione…a causa della mancanza di alternative?” brontolai.
“Si, per forza. I dolori erano lancinanti e peggioravano. Era lampante come le difficoltà influissero negativamente sulla sua salute, d’altra parte: dopo la perdita della bambina ebbe un peggioramento netto, poi queste notizie…si, bisognava prendere delle decisioni, anche drastiche, non potevamo più andare avanti così. Purtroppo tutto il suo organismo era sempre più affaticato e le malattie, o il veleno, come lui le definiva, stavano avendo il sopravvento.
Ricordo che, nel vederlo peggiorare, ero attanagliata da un senso di nausea e di gelo, tanto che, sotto il sole cocente, riuscivo ad avere le mani ghiacciate. Ero terrorizzata! Avevo vissuto sedici anni accanto a lui, sapendo che avrei potuto perderlo ogni giorno, ma non avevo mai provato un terrore simile e questo mi spaventava più di tutto: insomma, per capirci, tante volte avevo avuto paura, mi ero preoccupata, avevo temuto di non poterlo guarire, si, ma sapevo di avere in mano la situazione, di poter scacciare quei démoni almeno per un po’, almeno in parte.
Esaminavo le mie sensazioni e mi rendevo conto di non esserne sopraffatta, che sarebbe andato tutto bene, o perlomeno non peggio. Lo sapevo e mi sentivo forte.
Ora no. Lo guardavo e sentivo dentro qualcosa di terribile che mi stringeva la gola, mi paralizzava ed era quel terrore a terrorizzarmi: era il segnale che lo stavo perdendo, la consapevolezza che, ora, non sarebbe andato tutto bene, che stavamo perdendo. Non so se riesco a spiegarmi, ragazzi.”

“Oh, ti spieghi benissimo!” risposi dal divano, dove me ne stavo abbarbicata alle mie ginocchia.
“Penso che anche i suoi medici più fedeli provassero la stessa cosa, sicuramente la provava il Delfino. Lui era criptico, non lasciava trapelare emozioni e continuava a comportarsi come al solito: protettivo, affettuoso, premuroso, molto cane da guardia, ma apparentemente sereno e sorridente. Però mandava in missione gli altri e restava nella capitale il più possibile. Faceva in modo di essere sempre presente, anche in modo possessivo, a volte, e a volte vedevo, quando Sua Maestà non era con lui o riposava, un’ombra oscurargli il viso, un breve trattenere il respiro e stringere la mascella, un lampo di terrore passare nei suoi occhi. Lo riconoscevo molto chiaramente, perché era lo stesso che provavo io e mi riflettevo in lui.
Così un giorno arrivò lo wabu camminando curvo, le mani intrecciate dietro la schiena, e mi disse torvo che ci saremmo trovati negli alloggi del Faraone quel pomeriggio perché dovevamo parlare. Provai un misto di paura e sollievo: qualcosa, in ogni caso, si sarebbe mosso.
E qualche ora dopo, Sua Maestà, N’kht, il Gran Sacerdote, io e i due medici mettemmo a punto questo piano disperato. È buffo: noi eravamo cupi, preoccupati, spaventati e lui ci guardava divertito. Era sereno. Diceva di avere una grande fiducia in noi, tutta la fiducia di cui sembravamo invece carenti e che non ne poteva più di quella situazione: era sicuro che sarebbe andato tutto nel migliore dei modi, qualsiasi cosa fosse successa.
Io sapevo che, se lui fosse morto, non gli sarei sopravvissuta un solo istante.”

Non avevo dubbi che ne fosse convinta, però sapevo che non era andata esattamente così.
Sapevo che Iset era sopravvissuta al suo Faraone, anche se per breve tempo.
“Ma era davvero così? Non c’era più nulla da fare, osteonecrosi a parte? Voglio dire, il resto, le malattie, erano così peggiorate?”
“I mesi successivi a quell’incontro ci dimostrarono che non era così, che potevamo ancora essere ottimisti. Il suo wabu gli faceva bere ogni giorno intrugli a base di miele, erbe e una strana spezia giallo brillante che proveniva da Oriente ed aveva proprietà curative molto importanti. Se chiudo gli occhi posso sentirne l’odore.
Gli faceva molto bene, gli levava i dolori di stomaco e intestino, dolori ossei e lo aiutava anche con le emicranie, attenuandole ed evitandogli svenimenti e convulsioni.
Lo wabu, che era riuscito a procurasela da mercanti di terre lontane, sosteneva che era anche molto protettiva per il cuore e lo avrebbe aiutato a depurarsi di tutte le infezioni e le sostanze maligne dentro al suo sangue.
Al resto pensavo io che, vedendolo migliorare e farsi più forte, mi sentivo forte a mia volta e riuscivo a curarlo con rinnovata energia.
Quando, all’inizio degli anni novanta, portammo ad emergere quel ricordo, sia mio padre e io che l’ipnotista, sviluppammo una passione smodata per la curcuma.
Comunque, dopo un po’, il Faraone riprese a parlare del matrimonio. Ne parlava con entusiasmo, con determinazione, anche se non voleva ancora lasciar trapelare la notizia, accampando la scusa delle sue incertezze alla salute: la stessa Sposa Reale dichiarò di voler aspettare che le condizioni di Sua Maestà si fossero stabilizzate, prima di prendere una decisione sulla futura sposa, ma che si stava preoccupando di esaminare delle donne che potessero essere adatte a quel ruolo.
Per le strade si percepiva, dopo il trauma terribile del lutto, un’atmosfera di sollievo, di speranza e ottimismo: il popolo vedeva che il suo Sacro Fanciullo migliorava, presto ci sarebbe stata un’altra sposa e sicuramente dei bambini! Così tutto tornava a risplendere, la gente sorrideva, spesso gli mandavano doni e auguri di guarigione, perfino giocattoli per quando fosse nato qualche piccolo erede. Lui era felice, si riempiva gli occhi di speranza e, a volte, lo trovavo a trastullarsi con i giocattoli per il suo futuro bebé.

Noi ci vedevamo ogni giorno e praticamente in solitudine, si che potevamo starcene tranquilli. Io gli imponevo le mani, lui ingurgitava gli intrugli dei medici, e poi restavamo abbracciati, scherzavamo, parlavamo, oppure non dicevamo nulla e godevamo semplicemente della reciproca presenza. A volte mi nascondeva la testa nell’incavo tra la spalla e il collo, come da bambino, e ripeteva: “Non vedo l’ora, non vedo l’ora, non vedo l’ora!”, riempiendomi di baci.
Era buffo. Era tenero. Era mio, ora, o lo sarebbe stato presto e per sempre.
Io ero molto preoccupata per mio marito, invece: avevamo inoltrato la richiesta di divorzio, necessaria perché non erano passati sette anni dalle nostre prime nozze, ma il Faraone l’aveva messa da parte e non sapevo perché. D’accordo, la mia separazione non doveva essere resa pubblica per non destare sospetti, ma così si ritardava la burocrazia, che, sebbene molto più pratica e veloce di oggi, era sempre burocrazia.
Gliene avevo chiesto la ragione e lui aveva sorriso, senza però rispondere. “Forse vuoi ripensarci? O credi che non ti verrà permesso di sposarmi, Am’n?”
Lui si era fatto una risata, mi aveva abbracciata facendomi appoggiare la testa sulla sua spalla e aveva risposto che non gli avrebbero più proibito un bel niente, entro breve, anche fosse stato solo contro la corte e tutti i sacerdoti d’Egitto insieme.
Capii che dovesse essere in ballo qualcosa, ma non rispose direttamente alla mia domanda e io non osai più chiedergli nulla.

C’era, in un ansa riparata lungo il fiume, un po’ fuori dalla città, un capanno presso cui venivano ricoverate le barche da pesca e dove, nei tempi in cui l’approdo era governato, il guardiano aveva alloggio anche per la notte. Era ormai in disuso da anni, ma veniva adoperato in casi di necessità, così era mantenuto costantemente agibile e pulito.
Il Faraone se ne serviva, a volte, quando da ragazzino ancora andava a caccia o in barca e aveva ora mantenuto l’abitudine di rifugiarvisi quando non ne poteva più della corte e del peso del regno.
Una sera mi fu consegnato un messaggio in cui mi chiedeva di recarmici appena avesse fatto giorno, l’indomani.
Dormiva, quando entrai. Mi accorsi che doveva aver passato la notte in meditazione e che doveva poi essersi addormentato dopo aver mangiato dei datteri, non molto prima dell’alba.
Restai a guardarlo dormire: sembrava un vecchio bambino.
Il viso non aveva ancora perduto del tutto l’aspetto di fanciullo, ma gli occhi erano segnati e un alone scuro era reso più evidente dall’ombra lanciata dalle lunghe ciglia abbassate.
L’espressione nel sonno era di stanchezza profonda e una ruga, quasi assurda in quella giovinezza, gli spezzava la fronte tra le sopracciglia.
Era magro, per quanto i muscoli di spalle e braccia fossero tonici e, consideravo studiandolo, aveva, per natura, la stessa struttura fisica del Delfino, solo non ben sviluppata a causa della malattia e alterata dai fianchi ereditati dal padre e dalla postura innaturale.
La gamba sinistra era debole e la destra, dovendo sopportare il peso di tutto il corpo, mostrava una muscolatura più sviluppata, ma sofferente.
Sapevo che spesso aveva dolori alle ossa, a destra, causati dall’affaticamento e anche la schiena ne risentiva. Stava bene a cavallo, oppure, quando era abbastanza in forze, sul suo cocchio speciale.
Vent’anni. E tutto quello che aveva passato…certo che era stanco!
Eppure, mentre i raggi del sole mattutino entravano dalla finestra e andavano ad accarezzarlo, mi parve non umano: era come se la sua pelle risplendesse di luce propria, irradiando un alone di pulviscolo dorato, più intenso sulla parte alta del corpo e intorno alla testa e le spalle. Le gambe e i fianchi meno, si, come se la forza vitale se ne fosse allontanata.
Era divino e io mi sentii minuscola.
Avrei voluto imporgli le mani, portare più energia nel suo corpo, nelle gambe, ma non volevo svegliarlo, così restai a contemplarlo, chiedendomi cosa sarebbe successo il giorno in cui ci fossimo sposati. Se la profezia era vera, se io avevo il potere di guarirlo, ci sarei riuscita, finalmente?
Cosa mi aveva impedito di esserne capace, fino a quel momento e cosa sarebbe cambiato, in seguito? Sarei stata all’altezza? Ero all’altezza della sua divinità?
Dopo un po’ si mosse nel sonno e sussurrò qualcosa. Egoisticamente mi parve “Is”, ma forse era solo un mio desiderio.
Poi socchiuse gli occhi, un po’ imbronciato per quel raggio dispettoso che gli batteva direttamente sul viso e si sfregò entrambi gli occhi con i pugni, come i bimbi.
“Ah, non era un sogno!” brontolò ancora assonnato vedendomi.
“Sono stata ubbidiente, hai visto? Sono arrivata ancor prima che il sole fosse sorto”
Lui sorrise, e ancora mi sembrò piccino, quando si svegliava e io gli facevo il solletico per farlo ridere. Era cambiato troppo, e non era cambiato affatto. Era vecchio ed era un bimbo come a cinque o sei anni.
Era divino, sopra ogni cosa.
Forse era per questo che N’kht lo chiamava “l’aureo cuginetto”, forse anche lui, a volte, aveva visto quell’alone di luce dorata emanare dalla sua pelle nel sole del mattino.
“Luce d’Egitto” gli sussurrai, chinandomi a dargli un bacio.
Lui, ancora ridendo, mi afferrò facendomi perdere l’equilibrio, così che gli cascai praticamente addosso e ci trovammo abbracciati a ridere. “Hai fame?” chiese. Scossi la testa: “Io si!” sedette e afferrò dei fichi con entrambe le mani: “Posso fare il bifolco?” chiese e si infilò in bocca due fichi interi senza aspettare risposta.
Aveva bisogno di essere libero, di fare cose innocenti ed inutili, forse anche un po’ stupide, che non gli era mai stato permesso fare, come infilarsi due fichi interi in bocca, per esempio.
Io scoppiai a ridere, abbracciandogli la vita e lui mi avvolse con un braccio, continuando a mangiare frutta, ma tenendomi contro di sé con il gomito.
Erano forti le sue braccia, compensavano la fragilità delle gambe. Non muscolose come avrebbero dovuto essere, o meglio, i muscoli erano nervosi, slanciati, sottili, ma tonici e robusti.
Sarebbe stato un uomo di una bellezza folgorante, se fosse stato sano.
“Vuoi prenderti una pausa?” gli chiesi, mentre mi sedevo a gambe incrociate accanto a lui e mi rassettavo la veste.
“Tutt’altro” rispose con la bocca piena di frutta, poi si interruppe per masticare e deglutire. Aveva le labbra macchiate di uva e un aspetto felice.
“Ti ho chiamata perché dobbiamo occuparci di qualcosa di molto, molto importante. Non c’è più molto tempo, dobbiamo essere pronti” sbattei le palpebre, senza capire.
“Sono in pericolo, Is, lo sai! E potrei non sopravvivere all’operazione, è inutile illuderci che andrà tutto sicuramente bene…lo speriamo, ma non ne siamo certi per nulla.
Quindi, dobbiamo tutelarci. Ho fatto sposare il mio uomo più fedele alla sorella di Neferuaton, non solo per liberarmi di lei, ma nella speranza di renderlo gradito alla famiglia di Aye e di metterlo al sicuro, ma chi può dirlo? Sono capaci di azzannarsi tra loro come randagi attorno ad un osso, incuranti dei legami di parentela, degli affetti e di qualsiasi altra cosa e N’kht è della stirpe di mia madre, che orrore! Anni fa ho temuto che lo avrebbero trovato il modo di farlo sparire, nonostante fosse il capo dell’esercito, valoroso, attento e scaltro, anche per questo gli imposi Mutnodjmet come sposa. Speravo che, essendo il genero del Gran Visir fosse sconsigliato eliminarlo, soprattutto considerando che, a volerlo eliminare, sono proprio i fedeli di Aye. Mi disgustano.” Restò a riflettere per un po’, ingollando chicchi d’uva che si lanciava in bocca meccanicamente, perso nei suoi pensieri.
Io lo adoravo e i suoi discorsi mi terrorizzavano. Sospirai, pensando a quanto fossero stati dolorosi quei quasi sedici anni al suo fianco.

“Che avresti fatto?” chiese improvvisamente, sorprendendomi. “Che avresti fatto se non ti avessero mai mandata ad AkhetAton? Saresti rimasta qui, eri sola, legata al tempio, ne saresti stata la custode, fino alla restaurazione? Saresti stata libera, e forse non povera come il resto della popolazione e poi avresti avuto gli onori dovuti a chi era rimasto fedele agli antichi déi e avresti sposato un dignitario, o il Gran Sacerdote. Siete amici, sarebbe stato un ottima unione, no?”
“Io non…non ci ho mai pensato. Il Gran Sacerdote? No, non credo! Ma perché?”
Lui scrollò le spalle lanciando il graspo oltre la finestra, in un gesto molto bifolco.
“Saresti stata rispettata, spensierata, almeno dopo la scomparsa del mio predecessore. Ricca, onorata. Desiderata, elegante, nobile agli occhi del mondo.
Ti sei trasformata in una servetta per me e ne hai passate di tutti i colori! E non è ancora finita! A corte non salteranno certo di gioia. Almeno una volta sposati potessimo essere lasciati in pace! Non sarebbe male come risarcimento, no?” brontolò ombroso.
“Non dicevi di aver perso le tue capacità di sentire i pensieri altrui? E comunque, io non voglio nemmeno pensare a come sarebbe stata la mia vita senza di te, sarebbe stata orribile e triste. E poi, il giorno del tuo arrivo qui, appena ti avessi visto, mi sarei innamorata follemente di te, senza conoscerti, e sarebbe stato tutto più difficile!”
Lui ci pensò su: “Forse. O forse no…una giovane sacerdotessa dalle capacità di guarigione. Avrei potuto chiamarti al mio capezzale in qualsiasi momento e forse, dico forse, ti avrebbero considerata diversamente, come di alto rango e non la servetta trasformata in dea dal capriccio di un bambino sul trono. Comunque, tu non sei altrui: io so ogni cosa alberghi nel tuo cuore o ci passi per caso, sempre. Non ho bisogno di alcuna abilità o potere magico, per questo.”
“Sei un ragazzino terribile!” risposi tirandogli leggermente un orecchio. Lui rise e mi fece una linguaccia.
“Bene, veniamo alle cose importanti” disse, affondando le mani nel catino accanto al cesto di frutta e poi buttandosi l’acqua in faccia.
“Come ti ho detto più volte, l’obiettivo dei miei nemici non è soltanto quello di eliminarmi fisicamente ora, ma di eliminarmi definitivamente, impedirmi la vita nell’aldilà o nell’aldiquà, ora e in futuro. E, per estensione, l’eliminazione di chi mi sia troppo vicino o mi sia imparentato per parte di madre, o appartenga comunque a...alla mia stirpe, in modo da cancellarne la linea animica. Vedi, un essere abbastanza progredito può tranquillamente nascere in un corpo non del tutto idoneo, in mancanza di meglio, quindi, molto meglio bloccarlo in un non aldilà.
Questo potrebbe sembrare una sciocchezza, ma, una volta varcato il confine tra la vita fisica e quella cosa chiamata morte, che per inciso hanno inventato loro, quegli altri, la faccenda diventa molto complicata. Quando un corpo e uno spirito si separano, non dovrebbe esserci niente di cupo, di spaventoso, ma il mondo oltre la materia è molto duttile e dinamico, soprattutto appena varcata la soglia. Ricordi come Aye e i suoi seguaci si opposero al mio progetto delle colonne al Tempio Settentrionale? Aye era disposto a spendere un patrimonio almeno dieci volte più importante per costruire un colonnato gigantesco che celebrasse le mie vittorie in battaglia…una gran presa in giro, naturalmente, piuttosto che permettermi di mettere in atto il mio progetto.
Questo perché le mie colonne, l’uso della foglia d’oro e dei colori in quella sequenza, abbinato alle scritture e ai bassorilievi, alle spirali ascendenti e discendenti alternate, tutto il complesso in sé, erano in grado di dare all’osservatore un’esperienza a molti livelli, più reali della vita quotidiana, portando a sperimentare qualcosa di sconvolgente ai nostri tempi, ma che gli antichi conoscevano perfettamente.
Questo potrebbe essere pauroso per la gente comune, ma nel Tempio, a parte qualche generale intemperante, la gente comune non ci va e i sacerdoti, di solito, sanno benissimo cosa succede separandosi dal corpo. O, almeno lo sapevano, una volta…” si fermò a riordinare i pensieri.
“Il processo di mummificazione con la sua ritualità e i suoi scopi magici, è un’arma a doppio taglio: se una persona è invisa a qualcuno in alto, gli imbalsamatori e i sacerdoti sono in grado di bloccare le anime del defunto in modo più o meno aggressivo e definitivo.
Solitamente, se il sarcofago viene aperto e la mummia liberata dagli orpelli e dalle bende, lo spirito scappa via, più ancora se vengono aperti i vasi canopi, per cui, per qualche verso, i profanatori non sono un male come crede la gente comune, per questo non vengono quasi mai catturati e si passano il mestiere da padre in figlio: alla fine, fanno comodo a tutti. Ufficialmente maledetti, nella realtà utili spesso inconsapevoli mediatori di beghe tra famiglie nobili e stirpi reali. Alcuni sono in grado di accorgersi se qualche maleficio è stato compiuto sul chi è nella tomba, ma spesso non sono in grado di fare nulla per contrastarlo,  a parte quello che fanno normalmente”
“Basta aprire il sarcofago e sciogliere le bende?”
“A volte, ma non sempre. Spesso è necessario leggere i nomi del defunto in sequenza, a volte, purtroppo, sono necessarie altre operazioni che solo dei Sacerdoti edotti nell’arte magica più antica sono in grado di compiere, altrimenti le anime rimangono incollate tra questo mondo e l’altro, tra i resti del corpo e l’oltre. A volte, con il passare delle ere, finiscono per…svanire, come acqua ferma sotto il sole. Non mi è dato sapere, in questo caso, se sia la morte definitiva o se possa esserci ancora una speranza, ma…sembra terribile, non è vero?”

Avevo ascoltato rannicchiata sul divano, con le ginocchia praticamente in bocca. Franco fissava lo schermo con gli occhi e l’espressione di un Tarsio del Madagascar, il cucchiaio da gelato infilato in bocca.   
 
Saltai in piedi come una molla strillando: “Ma…ma…ma…MA E’ LA VISIONE DI MAGGIE!!!!! NELLA TOMBA!!!!!” 
“Risposta esatta” rispose Marabel.
“Ma allora, cavolo, cosa aveva visto il ragazzino?!? E il padre, cioè l’altro, gli altri due, insomma, cosa avevano visto? Il piccolo tombarolo piangeva disperato!”
“Si, qualsiasi cosa avesse visto, doveva averlo veramente sconvolto, ma ricordati che i due adulti, pur molto turbati, non ebbero la stessa reazione, secondo il racconto di Maggie. Certo, si, erano spaventati, anche loro, da cosa ci raccontò.
Dovevano aver visto qualcosa di grave, ma il ragazzino, evidentemente alle prime armi, ne fu sopraffatto. Dal momento che la tomba pare essere stata violata pochissimo tempo dopo la sepoltura, è probabile che costoro sapessero molto bene di chi si trattasse e, pur volendolo derubare, è probabile che a modo loro lo avessero amato.
Uscirono, chiusero la tomba e fecero dei segni, che, dal ventidue ad oggi, saranno sicuramente stati cancellati, perché nessuno entrasse in seguito. Purtroppo non sono in grado di dirvi che cosa possano aver visto, perché non lo sapevo, non l’ho mai saputo, né lo sapeva N’kht o il Gran Sacerdote! Sicuramente lo sapeva Aye. Si…troviamolo, e costringiamolo a cantare!” scherzò per alleggerire l’atmosfera.
Franco sputò il cucchiaio: “Ma…perché impedire ad altri di entrare? Loro non erano in grado di aiutarlo, ma così, insomma, lo hanno costretto a restare imprigionato per millenni! E se nessuno avesse mai trovato la tomba? Che gli sarebbe successo, sarebbe…svanito?”

“Franco, tu pensi che, come Carter lo liberò aprendo i sarcofagi e i vasi canopi, altri avrebbero potuto compiere le loro ruberie liberando il Faraone, ma non dimenticate le parole di Sua Maestà! Esistono rituali occulti…beh, perlomeno esistevano, così potenti da far si che, aprendo sarcofagi, vasi, rompendo e togliendo i gioielli, sigilli e ogni cosa che possa tenere le anime imprigionate, invece che liberarle, le impastoino ancora di più in una sorta di limbo, come schiacciate in un luogo di transizione, che sarebbe la vera causa di questa evaporazione.
Probabilmente il caso era esattamente quello e dovevano avere quelle minime nozioni che permisero loro di rendersene conto, quindi, chiusero con rispetto la tomba, segnalarono il pericolo alle generazioni future, e si allontanarono, lasciando il Faraone Fanciullo al suo sonno eterno. Era terribile, si, ma era la cosa meno peggio che potessero fare.”
“Non segnalarono il pericolo per chi fosse entrato nella tomba, ma per chi ERA nella tomba!” esalò Franco, in estasi.
“Esatto. Forse incisero qualche segno che indicava un Essere divino e il pericolo cui lo si sarebbe esposto, non cui si sarebbero esposti, violando la tomba.”

Era questo! Era come avevo sempre pensato, anche se io non avevo mai avuto tanta fantasia!
“Ma, allora, scusa” non ero sicura che quella notte sarei riuscita a dormire, dopo quella storia: “Come mai Carter e compagnia bella, invece, lo liberarono?”
“Perché né Aye, né il o i sacerdoti che lo imprigionarono, né i tombaroli, sapevano alcune cosette. Tipo che lui aveva posto una parte di sé dentro qualcun altro e un’altra parte in un oggetto molto magico. La _Farfalla Blu, appunto.”
“Ma…ma la farfalla è scomparsa!” esclamò il mio pc, con una nota isterica.
“Si, lo è. Ma evidentemente non distrutta, ma non da chi avrebbe potuto sapere cosa ci fosse effettivamente dentro. Se un sacerdote-mago potente lo avesse saputo, avrebbe potuto servirsi di quell’oggetto imprigionando Sua Maestà, forse in modo irreversibile, danneggiando il suo Essere molto più di quanto non sia stato fatto, ma non deve essere successo, per fortuna.
Era un oggetto molto prezioso, splendido, unico nel suo genere, grande come le mie due mani incrociate aperte, così, a farfalla, vedete? Un supporto d’oro massiccio, con inscrizioni eseguite secondo il suo volere, in particolari condizioni, ricoperte di lamine di Lapislazzuli, e con tanti Diamanti del deserto, lo stesso da cui proveniva il corpicino della farfalla, in Silica Glass, a dividere le due ali superiori da quelle inferiori e intorno. E poi due piccoli Rubini per gli occhi e sette Smeraldi lungo il corpicino. Un oggetto tanto meraviglioso e prezioso da non poter essere distrutto a cuor leggero, ma non solo! Quando lo si prendeva in mano, pulsava, caldo, tra le mani e, nel momento in cui venne posato sulle bende, risplendette, come si fosse attivato.
Io credo…io credo che sia stato nascosto per un periodo, in qualche posto sicuro, magari con l’intento di distruggerlo senza liberare l’anima, ma probabilmente non fu possibile agire indisturbati, forse accadde qualcosa.
Poi, probabilmente secoli dopo, forse alla caduta di Tebe durante l’invasione di Assurbanipal, quando Waset venne rasa completamente al suolo e saccheggiata, qualcuno deve averla trovata e, a quel punto è facile supporre che, vista semplicemente come oggetto di immenso valore, sia stata rubata e venduta, sia passata di mano in mano, magari per secoli.
Chi lo rubò, però, dovette rendersi conto che c’era qualcosa di strano, forse pulsava, emanava calore, forse aveva qualche altra caratteristica anomala, tanto che chi ne era in possesso, deve aver deciso di fondere l’oro, prendere le lamine di Lapislazzuli, i Diamanti, Rubini e Smeraldi, e, probabilmente, a quel punto il corpo in meteorite venne spaccato, con una bella martellata secca, per esempio.”
“E questo avrebbe liberato una parte di lui?”
“Si. È sicuramente successo, perché ho la certezza quasi matematica che lui sia riuscito a nascere una, forse due volte, ma solo negli ultimi mille, millecinquecento anni, non prima. Sicuramente ebbe vita breve, sicuramente doveva avere delle deformità o qualcosa di fortemente limitante, ma riuscì a venire al mondo.”
“Quindi…soltanto una parte, un terzo di Sua Maestà è rimasto là sotto? Ma è possibile, questo? Può un’Anima dividersi in più parti, così, come una focaccia?”
“Ricordate quel vecchio film sulla vita del Buddha?” chiese con un sorriso: “Quel film è molto più d quel che sembra, sapete? Mostrò al mondo, in una bella favola, come un monaco fosse riuscito a nascere in tre diversi bambini. Tre piccoli che non si conoscevano e, per un po’, nemmeno si sopportavano granché, ognuno con le sue caratteristiche e la sua individualità, ma…uno e trino.
Il regista, discepolo di una grande Maestra di tradizione Shivaita, volle mostrare al mondo occidentale ed incolto, come sia alla fine relativamente semplice, per così dire, il concetto di emanazione fisica di un Essere singolo, manifesto in più aspetti e più persone.
La storia del dogma della trinità cristiana è preso di sana pianta da queste tradizioni, ma in modo superficiale, per cui la Sacra Triade non viene compresa. La tradizione Hindu, come minimo da ottomila anni, ma secondo la tradizione brahmanica, almeno da quarantamila, cioè, alla discesa di Shiva sulla Terra, raccontano come esista un Dio, il Brahman Supremo, al centro dell’Universo, da cui provengono delle emanazioni, principalmente Shiva e Vishnu, da cui poi provengono tutte le altre, anche se, originariamente, non era il Brahman, ma Prajapati e Brahman era un’emanazione al suo servizio…in ogni caso, non è importante, il concetto è chiaro.
I Deva, all’origine, non erano Dei, ma esseri umani dai poteri spirituali e, forse, tecnologici, immensi, capaci di compiere operazioni magiche inimmaginabili per le popolazioni molto più primitive che li circondavano, tanto che vennero trasformati in divinità, ma erano esseri umani, o perlomeno umanoidi. Progrediti tecnologicamente e spiritualmente, ma umani.
Ed evidentemente il segreto di scindere in più parti il proprio Essere era una delle loro capacità estreme.”

Ero incantata: “E lui conosceva ancora quei segreti? Dopo millenni e mescolamenti, malattie, eresie e chi più ne ha più ne metta? Lui era ai livelli di quelli là di quaquaqua…di tanti secoli prima?”
“Evidentemente…” rispose, quasi scusandosi.
“Come?” intervenne Franco, che aveva messo in freezer il gelato, sufficientemente raggelato da quelle informazioni.
“Beh, le Conoscenze più segrete hanno viaggiato per millenni attraverso l’Asia, fino ad arrivare all’Egitto, prima di…scadere. Penso che, a parte gli Egizi, gli ultimi detentori di grandi segreti fossero i Minoici, ma la distruzione della loro civiltà, la perdita della lingua, l’adozione delle lingue e scritture allora utilizzate, dal cuneiforme, ieratico e poi greco, abbia reso incomprensibile anche a loro la lineare A, facendo scomparire definitivamente le ultime conoscenze. È pur vero che, probabilmente, le cose importanti, anche i Minoici le tramandavano oralmente e in forma simbolica, ma tant’è! Perdendo lingua parlata e scritta, ecco che si perde anche la comprensione dei simboli.
Lo stesso Egitto perse almeno l’ottanta per cento di se stesso con il faraone eretico, in quel periodo, ma si trattava di un processo iniziato molto, molto tempo prima. Temo che lo stesso alternarsi di stirpi diverse, solitamente in conflitto una con l’altra, su quel trono, abbia influito molto negativamente sulle trasmissioni magiche e spirituali, anzi!
Secondo Sua Maestà gli stessi déi costrutti erano alla base di questa perdita, probabilmente temendo che le conoscenze finissero in mano a…plebei, facendo loro perdere potere sui popoli.
Il resto, da lì in poi, non è che leggenda.”


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