Due parole sul blog

Se pensate che qui si parli di Fate, Elfi e Creature simili, beh, avete ragione.
Quasi.
La verità è che qui la vera protagonista è la Terra, com'è o come avrebbe potuto essere se...Se l'uomo non fosse com'è, se si fosse evoluto diversamente, se le cose fossero andate in un altro modo...

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Su, su, guardate, guardate...

Come Polvere Nel Deserto 1



Il racconto di Marabel fu improvvisamente e poco graziosamente interrotto da una mia rumorosa soffiata di naso: “Sgusabi, io…gredo di sovvrire di gualghe allergia…vorse g’è iggiro gualghe sdubido…” mi giustificai.
Lei sollevò un sopracciglio: “Oh! Santo cielo, potresti essere allergica a me!”
Appallottolai il fazzolettino di carta le restai a guardarla costernata.
Lei ridacchiò: “Oh, sono le cinque!” esclamò fregandosi le mani: “Sarebbe l’ora del tè…che ne dici di un tè ghiacciatissimo?”
Qualcosa di non ben identificato ronzava tra le aiuole e coppie di pensionati si facevano aria sulle panchine all’ombra: “A volte mi chiedo perché nascere in Egitto” ragionò Marabel mentre richiamavamo Grigno: “Dal momento che il mio clima ideale è più o meno quello della Siberia Orientale d’inverno…”
“Immagino che, all’epoca, l’Egitto dovesse essere più interessante della Siberia Orientale, no?” chiosai, alla ricerca di un cestino in cui buttare il fazzoletto: “Chissà…la Siberia doveva essere piena di simpatici orsi, lupi, renne…E ricordati che è la terra degli Sciamani…oh, dubito che non fosse interessante, ma siamo nati là, che farci? Era là che lui doveva essere, là doveva portare avanti il suo compito e sappiamo come non fosse nemmeno la prima volta.” 

Camminava fissando il terreno ai suoi piedi, diede un calcetto distratto ad un sassolino che rotolò nel prato: “Comunque, dopo la costruzione della diga di Assuan, il clima è cambiato. Oggi l’Egitto è molto più povero, anche se campa per lo più di turismo” Fece una smorfia: “Ci rimasi malissimo la prima volta che vidi le piene” rifletté: “Mi aspettavo qualcosa di grandioso, di…si, di faraonico, toh, invece tutto fu così, così limitato, modesto, controllato.
Certo, è tutto verde, coltivato, il fiume è pieno di barche da trasporto e pesca, non c’è che dire, ma allora, oh, allora si che era meraviglioso e grande, non una misera strisciolina di terra attorno all’acqua! Le inondazioni erano come una splendida, lenta, inesorabile marea che divorava il deserto e poi…e poi tutto germogliava.
È incredibile come tremila anni dopo quei tempi, sia stata fatta una cosa così imponente e così stupida, dagli ingegneri moderni! Furono addirittura spostati dei templi dal loro sito originario, pietra per pietra, come Abu Simbel per esempio, e ricostruiti più in alto, dove l’acqua non li avrebbe sommersi. Che idiozia! Se gli antichi li avevano costruiti in un posto, là dovevano stare e non traslocati e pasticciati come casette di lego!” brontolò.
“A scuola ci avevano detto che nessuno si aspettava i disastri ambientali che seguirono il completamento della seconda diga, ma che ne svuotarono una parte, o forse ridussero la chiusa per permettere le inondazioni…è vero?”
Marabel fece una linguaccia al nulla: “Diciamo che le chiuse vengono aperte parzialmente per permettere l’irrigazione più volte all’anno, ma quella robaccia è stato un vero disastro!
Gente sfollata, distruzione di un ecosistema che si reggeva in perfetto equilibrio da migliaia di anni, scomparsa di specie ittiche e aviarie, aumento di malattie, comparsa di nuove, riduzione drastica della pescosità fino al mare e nel mare, figurati!
L’Egitto, nonostante le proteste e le denunce di ricercatori ed ecologisti, continua a sbandierare quel mostro come una delle meraviglie della civiltà…sai dove gliela metterei, io, la loro meraviglia?”

Mi fece ridere: Marabel era sempre così corretta, educata, raffinata, da lei non ci si aspettava un’uscita simile. Pensai che dovesse esserci qualche guizzo di Luna Nascente che improvvisamente saltava fuori di quando in quando.
Entrammo nella caffetteria e ordinai una cisterna di tè alla pesca ghiacciato, mentre Marabel faceva scegliere a Grigno il posto migliore.
Sospirai rassegnata: se prima quel cane era viziato, ora stava superando qualsiasi limite della decenza, ma il mio incubo peggiore era la consapevolezza che Franco, al suo ritorno, non avrebbe tentato di ricondurlo a più miti consigli, anzi, esisteva la non remota possibilità che peggiorasse la situazione per farsi perdonare la lunga assenza.
Sedetti di fronte a lei, poi ci ripensai, mi rialzai e tornai al bancone ordinando qualcosa a loro discrezione per quella fogna a quattro zampe cui ci accompagnavamo.
“Bene” esclamai sedendomi: “È incredibile come ti abbia protetta, fin dall’inizio! Così piccolo e già così saggio!”
Marabel aveva lo sguardo distante: “Si, certo, è proprio così. Anche se si irritava a sentire il suo nome reale, Toro Possente dalla Nascita Perfetta, in un certo senso non era così sbagliato: la sua nascita era stata veramente perfetta, al di là della fragilità e delle malattie. Quello era il corpo, ma lui, LUI era perfetto.
E io non so, non lo sapevo allora e ancora meno lo capisco ora, come potesse considerarmi sua pari. Io volevo credere di essere l’altra parte di lui, una cosa con lui e, d’altronde, come avrei potuto negarlo, se eravamo stati così sempre, fin dal primo giorno, dal primo minuto del nostro incontro?
Eppure…io ero così…così umana, così imperfetta. Ero così piena di limiti, gliene combinavo una tutti i momenti, a volte sono stata gelosa, incapace di vedere le ragioni delle sue azioni! Non ero lontanamente paragonabile a lui!”
“Ma non è vero! E poi eri divertente, no? Io adoooro la passionalità e l’irruenza di Luna Nascente, la sua irrequietezza, l’orgoglio. Quello che ha detto lui, com’era? Che la gente ti adorava perché trattavi i più umili come re e i nobili come pezze da piedi?”
Scoppiò a ridere: “No, dai, esagerata! I più altolocati come umili, questo diceva!”
“Beh, ma perché lui era fine, però il senso è quello, dai! Il punto è che tutto questo era favoloso! Magico, si, ma per davvero! Quella cosa della luna e poi il sacerdote che parte per un lungo viaggio per interrogare l’oracolo! Voi dovete stare assieme, lo vedi? E comunque, dal tuo carattere, sono sicura che avessi sangue nobile! Non hai mai saputo chi fossero i tuoi genitori?”
Scosse la testa: “No, e non è importante. In fondo non erano i miei genitori: erano soltanto il mezzo attraverso cui ero venuta al mondo”
“Si, ma se fossero stati nobili? Almeno uno dei due? Allora avresti avuto diritto di sposarlo, non avrebbero potuto ostacolarvi!”
“Eva, se mia madre mi abbandonò, è perché qualcosa non andava. Forse era adultera e il mio aspetto denunciava una diversa paternità, rispetto al marito, oppure mio padre era qualcuno che non poteva avere un figlio da quella donna, forse una meretrice.
Io ero troppo sana per essere nobile, sai? Se mio padre lo era, doveva esserci  in ogni caso qualcosa che non mi avrebbe resa apprezzabile dalle classi elevate. No, non credo sarebbe cambiato qualcosa, forse sarebbe perfino stato peggio! In ogni caso non lo scoprii mai e non me ne importava. E ormai non ha davvero più alcuna importanza”

Aveva ragione, ma io avrei voluto darle ciò che, ne ero certa, le spettava. Una non nasce come forma di Iside, così, a caso, che diamine!
Era potente, divina, quella profezia. Immaginare queste due anime così unite, così tese l’una verso l’altra…ma erano davvero due anime? Perché la profezia non diceva esattamente così.
“Lui ti aspettava, fu la prima cosa che ti disse, al tuo arrivo, lui era la tua anima gemella e lo sapeva. È così, vero?”
Marabel mi guardò severa: “Non sono sicura che il termine anima gemella sia corretto…era qualcosa, io credo, di ancora diverso, o forse hai ragione tu, ma questo termine è così usato a casaccio da aver perso il suo significato…la gente legge, vede e sogna. Stupidaggini, di solito. Sognano un’ipotetica anima gemella senza avere la più pallida idea di cosa questo significhi e c’è pure chi ci scrive montagne di saggi, dicendoti di avere capito tutto. E spara idiozie.

L’anima gemella, per il novant…diciamo novantotto per cento della gente, è un uomo o donna del tutto irreale, che nelle aspettative risponde ad esigenze proiettive o complessi edipici o di Elettra.
Si sognano storie romantiche con partner bellissimi ed eroici, tutte mazzi di rose rosse, cenette, sguardi ammiccanti e notti di sesso. Irreali, vacue, inconsistenti e poi ci si imbatte in persone normali, con pregi e difetti, diverse da come ci si aspettava ed ecco che zac! il romanticismo finisce, perché l’altra persona si permette di essere normale, imperfetta, di avere problemi al lavoro, o con la famiglia propria o del partner.
Magari porta le scarpe basse o i calzini bianchi, che cosa orripilante!
Come puoi svalutare una persona per scarpe o calze, o perché non segue abbastanza la moda, o chissà quale altra idiozia!
Ho sentito ragazze plurilaureate deridere un collega perché portava i calzini invece delle calze o perché si era fatto “beccare” con le maniche della giacca rivoltate. Collega che, peraltro, aveva un cervello da Nobel, per intenderci, ma…questo non contava! Le maniche rivoltate, contavano, una cosa vergognosa!
Eppure è così. “L’uomo della mia vita non si comporterà così e se lo facesse, o lo mollo subito, o lo faccio cambiare! È il mio uomo ideale, ma lo cambierò!” È assurdo, vero? Altro che ossimoro! 
E quante volte senti frasi del tipo: che quello, quella, non può piacere, perché si vuole uno/a con i capelli biondi o con gli occhi verdi, o di una certa statura, oppure con un seno diverso, di più o di meno, o gli si fanno tagliare i baffi e così via. Angosciante.
Quasi mai il soggetto si chiede se per caso egli, ella, risponda all’ideale dell’altro o meno, però si sente ingannato in quanto il partner non è come lo si era sognato.
Si è insoddisfatti perché si attribuiscono all’altro le proprie insoddisfazioni, perché non ci si ascolta, perché ognuno è bloccato in un mondo a sé e la comunicazione è difficile, perché non ci si vede realmente.
Ognuna delle due parti vede nel compagno o compagna quello che vuole vedere e in cui, magari, l’altro non si riconosce e questo stato di autoipnosi continua per anni, finché uno si sveglia e dice: “Ehi! Che fregatura! Non è come credevo!”
Si litiga, ci si fa i dispetti, ci si tradisce e si va sempre più a picco.
Alle volte, alla fine, si trova un equilibrio e si finisce per essere amici o sopportarsi, giustificando piccinerie e tradimenti, e allora ecco che i litigi diventano il sale di un rapporto, la gelosia, una delle emozioni più infantili e stupide del mondo, un motivo di orgoglio per il partner, che si sente considerato e bramato.
A volte c’è competizione tra i due, e allora, si, allora tutto finisce e di solito malino, ed ecco che nasce il concetto di “coniuge più debole”, tanto caro agli avvocati divorzisti.
È un termine terribile, perché relega qualcuno ad un ruolo subordinato, di necessità, perfino di ricatto morale per quello che meno guadagna o ha meno proprietà. E sono liti legali, frustrazioni, infinite catene di ripicche e minacce, in cui il cosiddetto amore è sostituito da denaro, case, auto, figli, a volte perfino il cane e il gatto. 
Altre volte, per fortuna, c’è affetto, tenerezza, amicizia e allora la storia va avanti, magari traballando, magari “impegnandosi molto” o “avendo molta pazienza”.
Senti persone chiedere ad anziani coniugi “Come si fa a far durare tanti anni un matrimonio?” e questi a rispondere con sorrisi di sussiegosa saggezza, cose terribili, quali: pazienza, sopportazione, impegno. Sopportazione?
Un semplice: “Amandosi e rispettandosi ogni minuto della propria vita” non lo senti mai. E non lo senti perché, per loro, non esiste. Se provassi a suggerirlo, ti riderebbero in faccia, dandoti della romantica ed ingenua.

E poi ci si mette a leggere libri del cavolo o guardare film altrettanto del cavolo per sognare ancora l’irrealtà, un amore scritto che ha i tuoi stessi limiti, le tue stesse piccinerie.
Altre volte si sogna un amore davvero più grande, cui non si può accedere semplicemente perché non si è pronti, non si è in grado nemmeno di comprenderlo, figuriamoci di viverlo! È come voler dipingere la Cappella Sistina e non saper nemmeno tenere in mano un pennello!

Molta gente, sentendo la nostra storia, penserebbe a qualcosa di estremamente romantico, ma non lo era: era dura, invece.
Era dura per la sua salute, per i pericoli da cui eravamo circondati, per le nostre nascite. Era dura essere separati, seppure così vicini, era una ferita costantemente aperta, e dovevamo sorridere sempre.
La nostra vita era splendida, lussuosa, elegante, colta. Di fuori. Ma dentro non smettevi mai di sanguinare.
Siamo stati in simbiosi per sedici anni e abbiamo avuto una decina di rapporti fisici. D’accordo, per almeno nove di quei sedici anni lui era piccino, io un po’ meno, ma la nostra storia, da bambini e dopo, non è certo qualcosa che abbia un minimo a che vedere con le storielle che mandano in brodo di giuggiole le moderne signore imbottite di sfumature, angeli caduti, vampiri luccicanti o altre variazioni sul tema, che troverebbero sicuramente noiosa e priva di sale tutta questa faccenda.
Noi non eravamo arrapati o arrapanti. Eravamo ragazzini soli, perduti in un mondo opulento e ostile, pieno di meraviglie e di veleni. 
Ci vedevamo spesso, a volte passavamo la notte insieme, è vero, perché era il momento del silenzio, dell’intimità, in cui sapevamo di non essere disturbati, il momento delle confidenze.
Abbiamo passato notti intere a guardare le stelle, a parlare, o semplicemente ascoltare l’uno il respiro dell’altra, oppure ancora a decidere, discutere, passarci informazioni come non sarebbe stato possibile durante il giorno in quella corte affollata, ma spessissimo senza andare oltre.
C’erano baci, ci accarezzavamo non solo con le mani, ma con la faccia, con le braccia e le gambe, con tutto il corpo per sentirci uno. Essere uno e due.

A volte, nel sonno, lui usciva dal suo corpo e mi tirava fuori dal mio e lì, così, privi di un corpo materiale che per la sua stessa natura ci teneva separati, avveniva il nostro miracolo, il nostro fare l’amore così fuori dall’ordinario, che partiva dal centro di noi, dallo sterno e dalla gola, estendendosi ovunque.
Ci abbracciavamo e fondevamo in un’unica cosa, una specie di sfera luminosa in cui ogni particella di uno permeava quella dell’altra, pur mantenendo perfettamente la coscienza di sé.
Non accadeva spesso, ma sapevamo farlo e io credo che la sua guarigione potesse passare attraverso questo metodo. Io so che quell’energia che si sprigionava in un altro livello di esistenza, aveva in sé il seme della guarigione.
Ma tutto questo…tutto questo non è comune. E non è romantico. Non è sentimentalismo, non è erotismo, per quanto nel nostro stesso pensarci ci fosse una immensa forza attrattiva. È un’altra cosa.”

Mentre parlava pensavo alla prima volta in cui mi aveva descritto il loro incontro in quella specie di sogno, o al disegno, ora infilato in un cassetto, che, contro ogni senso logico o razionale, la guardava con quello sguardo di amore assoluto e totale che non riuscivo a negare manco volendo.
Ne intuivo la grandezza, ma non riuscivo ad andare oltre e il senso di tensione erotica, sovrumana, c’era, c’era altroché, ma era diverso da come lo si può immaginare: non era desiderio, non era ormoni, non era passione, era un’altra cosa, come diceva Marabel, cui io non ero in grado di dare un nome o un colore, ma di cui intuivo la Divinità. Era qualcosa di eterno. Non so come lo sapessi, ma ne ho la certezza: si percepiva, entrava attraverso la percezione come il frangersi di un’onda con il mare grosso, quando la affronti in piedi, sfidandola a buttarti giù o a spezzarne tu il frangente.
“Il fatto è” riprese Marabel: “Che la gente pensa che l’amore sia una cosa che parte dal corpo e poi, forse, procede in un’altra direzione. Pensa che almeno all’inizio ci sia niente altro che un’attrazione per l’aspetto dell’altro o per qualche reazione chimica ad un richiamo sessuale. Questo è biologia, istinto riproduttivo, non altro.
Quante volte senti dire che “l’amore finisce” e allora la storia si chiude? Oh, era bello, ma poi l’amore è finito. Ma che vuol dire? L’amore è forse un chilo di zucchero o di caffè, che si rimane senza? Che apri un’antina e dici: “Ops! È finito!” No, dai, questo è quell’altra cosa, quella che viene semplicemente rivestita di fronzoli, di lenti rosa e cuoricini, ma non è l’Amore, è raccontarsela.
L’Amore non è una cosa che nasce, cresce e muore.
È qualcosa di perfetto e completo in se stesso, al centro di ogni cosa e che tu devi raggiungere. Non devi costruirlo, è là da prima del tempo, quello che devi costruire sei tu, te stesso medesimo, così da riuscire ad arrivare a toccarlo e poi ad immergertici.
Non parte dal corpo per arrivare al cuore e poi all’anima, è il contrario, per quanto sia difficile da capire e, più che mai, da spiegare. Io non so farlo, Eva.
Io posso soltanto raccontarti di noi, della nostra vita, niente altro.
Se nelle parole il pensiero è ucciso, pensa come può esserlo qualcosa che al pensiero va tanto oltre! Se le parole sono una gabbia in cui il pensiero potrà dispiegare le ali, ma non volare, questa cosa non può nemmeno dispiegarne un pezzettino, sacrificata in una minuscola gabbia e schiacciata da tutte le parti.
Se qualcuno è capace di parole in grado di spiegare tutto questo, beh, non sono io. Io non posso che impantanarmi come nelle sabbie mobili.”

Non sapeva quanto stesse sbagliando: non erano le parole, ma le immagini che esse evocavano, la forza che ci metteva, il tono della sua voce, il potere che riusciva a trasmettere e che io, la stupida umana, non sarei mai stata in grado di rendere nei miei appunti, nemmeno in un milione di anni.

Eppure ero sconvolta dal racconto di Sua Maestà: avevano provocato a sua madre un aborto violento, uccidendolo già prima che nascesse, minando la salute sicuramente non eccezionale di quella giovane donna così inaspettatamente forte e coraggiosa.
Anche lei, per tanto tempo, era stata totalmente cancellata dalla storia.
Indagando più a fondo, in quelle settimane, avevo scoperto che ancora al momento dei nostri giorni di confidenze, nulla era certo: si diceva che la tomba di Kiya fosse stata scoperta nel 2006, ma altre fonti dicevano che il primo esame della mummia risalisse al 2003.
Altri che la tomba di Kiya non conteneva la mummia, altri che era stata scoperta, forse, l’anno precedente. Che il DNA la dava come madre del Fanciullino e sorella o sorellastra di Ekhnaton, ma non si sapeva di che mummia parlassero esattamente…forse di quella che non si trovava.

Ogni giorno un nuovo annuncio, un categorico dare per sicura una mummia, una tomba, un DNA, ma, come per il resto, la verità era soltanto confusione, un arrampicarsi su specchi saponati per rifilare spiegazioni accettabili e redditizie.
Io sapevo che Kiya era stata uccisa con violenza e lo sapevo da Marabel, quindi tenevo per buona la mummia assassinata e, ancora una volta, mi chiedevo se un giorno o l’altro si sarebbe trovata qualche traccia di Luna Nascente e se, in questo caso, sarebbe stata o meno resa nota e come.
Era storicamente e deontologicamente accettabile l’esistenza di una donna così importante per lui, tanto lontana dal parentame del Fanciullo?
Ora, dopo quasi un secolo di speculazioni, teorie, lotte per un frammento di potere accademico, si può rivoltare tutta la storia a causa di una…ancella?
Avrebbero forse fatto sparire definitivamente qualsiasi possibile traccia, così da non dover alterare una storia già tanto traballante?
“Avevo te, avevo tutto” diceva Sua Maestà, e il mondo rattoppato, costruito nel corso di novant’anni crollava come un castello di carte.

“Chi erano i Figli di Seth?”
Marabel si strinse nelle spalle: “Mah? Gente infiltrata al potere, io direi della classe sacerdotale. Loro avevano un enorme potere anche politico, gli stessi visir erano quasi sempre sacerdoti e se non lo erano, lo diventavano al momento opportuno.
Sicuramente erano gente con grosse conoscenze esoteriche, lo abbiamo già detto e non ci sono dubbi. Se così non fosse, non ci sarebbe stato un caso come il nostro.”
“Cioè, questa cosa di…di imprigionarlo? Per sempre? Ma è possibile?”
“Evidentemente” Ripose laconica.
Più i giorni passavano, più ci avvicinavamo alla fine, più Marabel diventava inquieta e malinconica.
Sorseggiai il mio tè soppesando le ultime informazioni: “Quindi?”
“Beh, in quei giorni a Londra mio padre, l’ipnotista e l’americano, si resero conto che stavo diventando sempre più dipendente da quelle sedute.
Vivevo per quelle regressioni, vivevo per tornare da lui.
Sembravo avere sempre meno relazione con la mia vita attuale, non cercavo un rapporto con gli amici, che pian piano si allontanavano da me. Vivevo come in una sorta di clausura volontaria, totalmente impegnata nella ricerca di ricordi e nel cercare lui.
Dopo la seduta in cui il mio Bambino mi svelò la verità sulla profezia, decisero che non era il caso di fare altre sessioni e mi rispedirono in Italia.
Non la presi benissimo. Accettai la loro decisione perché non potevo fare altro, ma decisi in cuor mio che sarei andata avanti per mio conto”
“E come?” domandai: “Lavoravo sui viaggi astrali e sui sogni lucidi, avevo sempre gli schemi radionici da usare per aiutarmi. Ritenevo che, se fossi riuscita ad uscire volontariamente, sarei riuscita a trovarlo e a comunicare con lui in modo più preciso che non in sogni che non ero in grado di governare”
“E ci riuscisti?” scosse la testa: “Ero sempre troppo tesa, troppo ossessionata dall’ottenere un risultato, così creavo quel famoso blocco. Lui era più bravo di me, evidentemente, perché a volte riusciva a raggiungermi.
A parte quel tardo pomeriggio a Londra, in cui mi trovai probabilmente proiettata nella sua stanza, io non riuscii mai più ad andare da lui, mentre lui, qualche volta, riusciva a venire da me. Mi studiava, mi osservava.
A volte mi abbracciava, mi stampava un bacio sulla guancia, a volte mi baciava per davvero e io sentivo queste cose come fisiche, come si sentono nella realtà quotidiana.
A volte si…nascondeva, prendeva l’apparenza di altri, o forse era il mio inconscio a cercare di dargli un viso riconoscibile. Una volta mi apparve perfino come Richard Gere!” disse ridendo.
"Perché?"
"Mah, immagino fosse uno scherzo della mia mente, un tentare di dare un aspetto noto a qualcosa di ignoto...oppure c’era qualche messaggio nella logica della realtà onirica, con regole e logiche del tutto diverse dall’ordinario, che non riuscii a capire. Non sempre un buon allenamento al...a realtà parallele, o alternative è sufficiente. Io, poi, soffrivo di ereditarietà al razionale ordinario per parte materna."
"E allora?"
Marabel sbuffò: “L’archeologo aveva un’amica a Boston, una sensitiva per quasi metà scozzese, per  il resto Narragansett e Pequot. Era una donna coltissima, con credo tre lauree, che noi ritenevamo più mischiata di quanto volesse far credere, dal momento che era bionda e aveva gli occhi verde nocciola, ma lei si sentiva Nativa praticamente per intero e sosteneva che il suo aspetto fosse dovuto agli antenati Vichinghi, non al padre.”
 “Oh, Vichinghi? Lo dava per certo, quindi?” esclamai entusiasta.
“Altro che! Guarda, non è strano. Non tanto nell’Est degli States, quanto in Canada, non solo tutti i Nativi sono assolutamente certi della presenza dei Vichinghi nel Nord America in epoca precedente a Colombo, ma Maggie ci portò anche a vedere delle tombe nei territori Innu. Ci sono parecchi reperti vichinghi nei musei presso alcune riserve canadesi e per loro questo è assolutamente normale. Se dici che Colombo scoprì l’America, ridacchiano.”
“Ma…in che periodo arrivarono i Vichinghi? Nuuk risale al settecento, non potrebbero…”
“No, i reperti sono effettivamente molto più antichi e loro raccontano che le popolazioni vichinghe ebbero rapporti commerciali con l’Est del Canada e parte degli odierni Stati Uniti per secoli, molto prima dell’arrivo di Colombo, ma ad un certo punto i viaggi si interruppero quasi improvvisamente.
Una leggenda dice che ci fu un litigio tra un capo Vichingo e uno Nativo Americano per una ragazza, se non ricordo male la figlia di uno fuggì con il figlio dell’altro e i padri finirono per litigare, ma penso…anche loro lo pensano, che sia solo una storiella.
Secondo le loro datazioni, infatti, i rapporti tra le due popolazioni si interruppero in coincidenza con le guerre vichinghe in Europa e allo stesso tempo con cambiamenti climatici e di correnti marine, che creavano maggiori difficoltà nelle traversate.
Probabilmente i norvegesi vennero semplicemente distratti dai loro problemi nel vecchio continente e si dimenticarono degli amici al di là dell’oceano, trovando più redditizio e comodo viaggiare in questa parte di mondo.
In ogni caso, seppure molto raro, il gene biondo è presente nelle Popolazioni Indigene Nordamericane, come lo è quello degli occhi grigi e non a causa di contaminazioni.
Loro raccontano che Tashunka Witko, erroneamente tradotto come Cavallo Pazzo (in realtà “Il Suo Cavallo Scalcia”), fosse piuttosto chiaro di capelli e dagli occhi grigi e sappiamo per certo che non aveva alcuna ascendenza europea, almeno dopo l’arrivo di Colombo.
Se poi avesse queste caratteristiche per antenati vichinghi, o se si trattasse di geni endemicamente presenti in quelle Genti, non ci è dato saperlo, ma in ogni caso apre ad interessanti possibilità, non trovi?

Comunque sia, l’aspetto di Maggie, più prossimo a quello di una donna di origine europea, le permetteva di mimetizzarsi nella società colta e snob del New England degli anni cinquanta, quando studiava all’Università, senza subire grosse discriminazioni, anche grazie al cognome scozzese, così poté tranquillamente studiare e farsi una buona posizione.
Come gran parte dei Nativi Americani, si laureò in antropologia e, uff, non ti dico! Lei e mio padre sembravano gemelli separati alla nascita! Si buttavano in discussioni sulle popolazioni e le usanze che iniziavano a cena e non smettevano fino all’alba, quando mia madre e io dormivamo sul nostro divano o su quello della donna. Se poi c’era anche l’archeologo, ah, era la fine!”
Io ero affascinata: “Ma dai! Doveva essere fantastico, no?”
“Come no! Trovavano qualche tradizione in un popolo magari dell’Africa Centrale, che ricordava stranamente qualcosa di…boh, Navajo, per esempio e si mettevano a mimare una danza, un rituale o che altro, immedesimandosi totalmente e confrontandosi, entusiasti. Sembravano bambini, sembravano!” disse fissando il vuoto con gli occhi sbarrati: “Il buono, in tutto ciò, è che li trovavo rassicuranti: erano molto più matti di me, in fondo. Mi dava un senso di sicurezza, si.”
Scoppiai a ridere, immaginando una gentile signora della colta società bostoniana e due rispettabilissimi scienziati, che si mettevano a mimare danze sciamaniche e canti nel salotto buono.
“E quindi? Questo che ha a che fare con il Faraone?” incalzai: “Semplice. No, non è semplice per niente, ma, insomma, lei e alcuni colleghi, assieme al nostro archeologo preferito, si misero d’impegno a studiare, vaticinare, a fare, non per finta, rituali appartenenti ai loro antenati, arrivando alla conclusione che l’Anima del Fanciullo, dopo l’apertura della tomba, avesse dovuto essere parecchio disturbata da rilievi, esami e via dicendo, essendo stata liberata dopo tremila anni di prigionia, e avrebbe avuto bisogno di preghiere, di pace, non di sballottamenti delle sue parti fisiche, cui era, purtroppo, ancora in legata a causa di quei malefici. Per quanto folle possa sembrare, pasticciare quei poveri resti, trasportarli, esaminarli, aprire e pasticciare i vasi Canopi, creava sofferenza all’essenza del Faraone, dopo così tanto tempo.”
Sospirò e riprese: “Per i Nativi un concetto come quello, che per noi europei è a dir poco folle, è invece del tutto comprensibile, a livello sciamanico: mostruoso, ma comprensibile. C’era un uomo Ojibway, per esempio, che parlava di uno sciamano che era stato imprigionato in un blocco di Ossidiana da stregoni suoi nemici per due o trecento anni. A noi pare follia, no? Per loro era una brutta cosa molto normale. Dicevano che, una volta liberato, aveva sofferto molto, perché tutta la sua famiglia era morta da molto tempo e il suo spirito non sapeva dove andare. Sembra inquietante, c’è qualcosa di spaventoso nell’immaginare una simile realtà, ma per loro è normale, perfino per quelli ormai troppo cristianizzati e occidentalizzati.
Comunque, dissero che Sua Maestà era fuggito verso il Cielo appena possibile, lasciandosi alle spalle quei pazzi scatenati che si accanivano sui suoi resti, per andare a cercare pace, silenzio, un momento di stallo in qualche dimensione di luce, prima di tornare a nascere e, alla fine, decretarono come probabile periodo di incarnazione il decennio tra il millenovecento cinquantacinque e il millenovecento sessantacinque.
Se un margine di errore c’era, era per difetto, cioè la nascita poteva essere successiva, ma non precedente alla seconda metà degli anni cinquanta. All'epoca mi pareva di aver realizzato chissà che traguardo...ma il mio entusiasmo durò circa una settimana, poi mi resi conto che poter limitare la ricerca a tutti i maschi umani nati in un decennio, sarebbe stata un'impresa al di là delle capacità umane o di qualche computer."
Ascoltandola, mi trovai a pensare che la frequentazione con quella gente, così capace di adattarsi senza problemi ad una ragazza dalla storia tanto particolare, avesse dovuto farle più che bene, rassicurandola e dandole speranza, oltre che comprensione.
Più si andava avanti e la sua vita si arricchiva di particolari, più che mai quel pomeriggio: la profezia rivelata ad Iset, i conflitti che il Principino aveva dovuto affrontare per proteggerla e non perderla, la conferma del loro essere così incredibilmente speciali, mostravano un nuovo lato di entrambi, sfaccettature che li rendevano più complessi, più affascinanti e, allo stesso tempo, più teneri.
Eppure, sebbene ancora non lo sapessi, le cose più incredibili dovevano ancora venire.
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“Andavate spesso a Boston?”
“A dire il vero” rispose: “Teoricamente alloggiavamo a New York, ma non ci piaceva. Papà aveva iniziato a lavorare al Metropolitan, grazie all’archeologo, dove si occupava di catalogare e studiare i nuovi reperti provenienti per lo più dall’Asia Orientale e ovviamente aveva la possibilità di mettere le mani in tutto ciò che riguardava l’Egitto senza farsi notare” disse strizzandomi un occhio.
“Non andava d’accordissimo con il personale e i colleghi, o meglio, fingeva di essere in ottimi rapporti, ma arrivava a casa due giorni su tre dicendo di volerli strangolare. Li definiva ortodossamente ciechi, sordi e anche un po’ stupidi.
Dopo un po’ che frequentavamo Maggie e i suoi amici, iniziò a chiamarli “coloni” e fare battute sul volerli buttare a mare.”
“Aveva allargato le sue vedute, no” ridacchiai.
“Insomma, lui trovava qualcosa di importante, sorprendente, che avrebbe potuto aprire nuovi scenari alla conoscenza dei popoli e della storia e, puntualmente, questo spariva o veniva catalogato come qualcos’altro.
Se protestava gli davano del visionario, lo guardavano straniti, lo invitavano cortesemente a rimanere nei binari  della ricerca ufficiale.
Bocciavano un’intuizione non perché ci fossero validi argomenti per farlo, ma semplicemente perché esulava dalle loro idee preconcette, dal pensiero comune e, quindi, non poteva essere.
Ovviamente l’aver stretto amicizia con l’archeologo e la nostra simpatica studiosa Pequot lo aveva peggiorato parecchio, però ora aveva degli alleati.
Così, appena possibile, scappavamo a Boston dove, oltre a facce amiche, avevamo una casetta con giardino, silenzio, un nostro angolo un po’ retrò, l’odore del mare, del vento, dei boschi e potevamo respirare odore di Salvia Bianca e Sweet Grass.”
Marabel si lasciò andare contro lo schienale della sedia: “Fu un gran bel periodo. A volte succedevano delle cose, delle coincidenze, che mi facevano pensare di essere ad un passo dalla soluzione, ma poi non accadeva nulla e io sprofondavo di nuovo nell’incertezza. Stavo cadendo in una specie di depressione quasi sempre in uno stato ansioso, nonostante il loro aiuto.
Un giorno Maggie mi disse che dovevo semplicemente lasciarmi scorrere, essere come l’acqua, ma che io resistevo, diventavo come legno vecchio, come ghiaccio, non scorrevo secondo il mio corso e così allontanavo da me la soluzione. Ero disperata: più provavo, più creavo resistenza, mi angosciavo, mi allontanavo dal risultato, provavo forsennatamente e la resistenza aumentava, e così via.
Un suo amico, ad un certo punto, cercò di imbottirmi di whisky, dicendo che così mi sarei rilassata sicuro, e che qualcosa avrei visto per forza.
Diceva che da sbronzo aveva avuto un sacco di visioni.
Meditavo, Maggie mi portava tonnellate di Sweet Grass, White Sage, Cedro e mi fumigava come un salmone, ma io non riuscivo mai a lasciare tensioni e pensieri.
Arrivavano violenti, nel mezzo del silenzio che lottavo per creare, deridendomi, sbatacchiandomi di qua e di là, e io diventavo come una belva in gabbia.

“Eppure hai una grande esperienza” diceva Maggie: “C’è così tanto potere in te, e lo sprechi con quel terrore che ti porti dentro. Hai un mostro che ti divora giorno dopo giorno e lo rendi forte, invece di fortificare te stessa.”
Eravamo in un bosco non lontano da casa sua, in un cerchio sacro che lei e alcuni amici avevano costruito tempo prima di nascosto e, come mi succedeva in quelle situazioni, avevo la sensazione che la Terra e il Cielo mi stessero ascoltando molto attentamente.
“Ho paura, Maggie! Sempre, anche quando non me ne rendo conto. Ho paura che tutto questo sia solo follia, di essere semplicemente una donnetta disadattata e schizofrenica. Ho paura che continuerò a cercare per il resto dei miei giorni, invano, che non succederà mai niente, che lui non esista, che sia solo frutto della mia fantasia malata! Andiamo, ma chi sono io per avere avuto un ruolo così importante in un altro tempo? Chi sono io per essere stata così importante a fianco di una così Grande Anima? Io non sono niente, sono solo Marabel!”
Lei sedette accanto a me, sventolandosi con un ventaglio di penne d’aquila vecchio di trecento anni, quella criminale: “Vediamo un po’…quanti anni avevi quando iniziò la xenoglossia?”
Sospirai: “Uno e mezzo, poco più, lo so, ma…”    
“E poi la tua reazione alla vista della Maschera…otto anni, no?”
“Si, è vero, ma…”
“E poi una decina di anni che con al vostro amico ipnotista…”
“D’accordo, ma…”
“Pensavo ti fidassi di lui”
“Si, di lui si!” esclamai con forza: “È di me che non mi fido!”
Lei rimase in silenzio.

Qualcosa friniva tra l’erba, un topolino correva sulle pietre lisce che formavano il cerchio con un fiore di trifoglio in bocca, più grosso di lui, e diverse piccole farfalle azzurre si rincorrevano nell’aria.
Guardai verso il bosco, con il cuore in pezzi: se lui fosse arrivato da là, come per caso, attratto dal profumo della Sweet Grass, chiedendo se non disturbava…ecco, allora il mondo sarebbe stato un luogo perfetto, dove poter essere completamente felici.
Ma non arrivava nessuno, eravamo sole.
Non arrivava mai…
“Forse si chiama Godot…” commentai amara.
“Pensi che ripetendoti che non lo troverai mai renderai più facile incontrarlo, Mary?” No, certo che no, ma avevo ormai ventotto anni. E se lui fosse stato fidanzato? Perché mai avrebbe dovuto ricordarsi di me o credere alla mia esistenza? Forse lo avevo già perduto senza averlo mai trovato.
“Marabel, noi siamo vecchi pazzi nostalgici di un passato eroico che non esiste da almeno un paio di secoli. Giochiamo a fare i Medicine People con oggetti che appartenevano agli antenati, così, come fanno i bambini con le cose di mamma e papà, per sentirci grandi.
Molti di noi non ricordano che poche nozioni di ciò che ci apparteneva, siamo indeboliti, le nostre conoscenze mescolate con robaccia di importazione, convinzioni religiose che ci furono inculcate a forza di botte nelle scuole dei bianchi.
Molti di noi hanno trovato il coraggio di essere indiani solo da adulti e non sapevano che pesci prendere, non sapevano nemmeno quale fosse, o fossero, le loro Nazioni di appartenenza, perché  i loro genitori, i loro nonni, avevano voluto cancellarne il ricordo e fingevano di essere dei bianchi un po’ scuri di pelle negando le loro origini, perché erano solo “stupidi indiani”, selvaggi, sporchi e ignoranti, derisi,  umiliati, deprivati della coscienza di sé.
Ho visto tanta brava gente alzarsi in piedi e dire: “Io sono Indiano!” un giorno e poi cercare le proprie origini, rovistando nel passato di famiglia, quando possibile, raccattando un pezzetto alla volta frammenti di sé e ricostruendo se stessi un frammento alla volta, pazientemente, meticolosamente, spesso nemmeno per intero.
Nelle scuole al di fuori dalle Riserve, se un ragazzino manifestava idee legate alle proprie tradizioni, se non diceva le preghiere all’amorevole dio dei bianchi, veniva picchiato.
La salvaguardia dei bambini non valeva per i piccoli selvaggi: dovevano essere sottomessi, umili, obbedienti, cristiani e possibilmente molto praticanti, meglio se dimenticavano totalmente le loro sporche origini, e dimenticare sembrava l’unico modo per sopravvivere. Ma io mi chiedo che sopravvivenza sia, se non hai la più pallida idea di cosa e chi sei.
Se ti uccidono, uccidono il tuo corpo, non la tua cultura, la tua storia, la tua coscienza, se ti tolgono la consapevolezza di ciò che sei, allora hanno vinto: una cultura è davvero morta per sempre, non ne esiste nemmeno più il ricordo su qualche vecchio libro e non hai modo di riscoprire più niente, resta solo un vuoto silenzio; quando una cultura muore, per quanto gli ignoranti ridano, tutto il mondo muore un po’ e quel che è perso è un pezzo del cuore del mondo.
Occhi vuoti, occhi senza coscienza, occhi che si guardano attorno smarriti o non fanno più nemmeno questo, affogati nell’alcool agli angoli delle strade…ricordi, Mary? 

Il viaggio mi stancò. Ma mi ricordo di quando attraversammo Gallup in macchina. Vidi Navajo con le giacche vecchie e stracciate, in piedi fuori dei bar. C’erano anche Zuni e Hopi e anche alcuni Laguna. Piegati in due contro le mura sporche dei bar lungo l’autostrada 66, con gli occhi che fissavano il terreno come se si fossero dimenticati del sole nel cielo; o forse quello era il modo in cui si sognavano il vino, cercandolo in mezzo al fango del marciapiede.
Questi siamo anche noi, pensai tra me. Questa gente accovacciata fuori dai bar, come mosche morte appiccicate al muro.’  ” 

Recitò a memoria, con gli occhi chiusi e la faccia verso il sole che scivolava verso il crepuscolo. “Ricordi questo passo, vero?”
Annuii: avevo letto Cerimonia (“Ceremony” Leslie Marmon Silko) molte volte, da quando vivevo con un piede a New York e uno a Boston, lasciandomi fagocitare da quel pugno di studiosi rossi.
“Vuoi dire che non siete davvero sciamani?” domandai, con il cuore stretto dalla delusione: “No. Non ho detto questo, ma è bene che ti avverta: un tempo avevamo un grande potere. Nascevamo così, poi andavamo a cercare gli strumenti e la conoscenze che ci occorrevano, ma il potere scorreva dentro di noi comunque, come voleva, secondo la propria natura, come un grande fiume possente.
Oggi, quando scorre, è nascosto e sopito, fragile, dalla voce sommessa di un ruscello tra le erbe. Per poter gridare deve essere molto curato, nutrito, protetto, o ti scivola via tra le dita.”
Cominciavo a capire cosa intendesse dire: “Sono frammentata e devo aver cura del mio potere?”
Maggie sorrise: “È un peccato terribile lasciar morire la propria Magia, Mary. Muore in te, muore nella Terra, se ne va via dal mondo.”
Scrollai le spalle, amara: “Ma a cosa mi serve? E se fosse tutto sbagliato? Se stessi inseguendo una specie di chimera perché ho semplicemente qualche problema mentale?”
“Già. È questo che direbbero gli pisclogiogi bianchi, eh? Il tuo potere è la parte più preziosa di te. Non sei nemmeno una donna a metà, se lo perdi.”
Aveva i capelli sciolti con una treccia sulla sinistra. Erano più chiari dei miei. Anche gli occhi lo erano.
Settimane prima una paleontologa Newyorkese, una collega di papà, mi aveva detto, osservandomi con soddisfazione, che sembravo una giovane donna Comanche.
Mi piaceva, anche se non avevo capito bene perché proprio Comanche, a dire il vero, ma poteva essermi utile: potevo mollare tutto e scappare a nascondermi in territorio Comanche, fingendomi una urban indian woman, come ce ne sono a bizzeffe…forse ci sarebbero cascati.
“Non ti piacciono gli psicologi, eh?”
“Nooon quelli bianchi. O neri. O gialli. Nemmeno rossi, se ragionano come i bianchi, ecco! Come diventerebbe la tua vita?”
Scrollai di nuovo le spalle: “Razionale. Normale. Lavoro, una famiglia. Un uomo normale, reale, rassicurante. Potrei sposare un Nativo, che dici?”
Lei fece una smorfia: “Na, quelli non sono razionali, né normali. Ritenta.”
“Uno psicologo rosso razionalizzato e civilizzato.” Buttai là.
Maggie mi guardò come fossi stata un insetto ripugnante: “Non provarci nemmeno! Ti disconosceremmo subito o ti rincorreremmo a calcioni da qui alla costa Ovest, fino a farti rinsavire!” strillò.
Ridacchiai, ma poi tornai alla mia depressione: “Voglio vivere, Maggie. Voglio persone che non scappino da me quando si rendono conto che qualcosa non va, che non mi vedano come una pazza, senza peraltro sapere cosa veramente io nasconda. Non voglio essere eccentrica, o con turbe della personalità…ho avuto amici, a volte, o così ho creduto, per un po’.
Ho avuto un paio di fidanzati e non riuscivo a non sentirmi male perché erano lì per riempire un vuoto, in un posto che non gli apparteneva, perché li guardavo e, per quanto mi sforzassi, non li riconoscevo. Erano lì perché, se non hai un fidanzato, almeno uno ogni tanto, la gente ti guarda con molto sospetto e commiserazione. Erano lì perché stavo provando disperatamente ad avere una vita normale.
Sono uscita, sono andata a feste, a cene, qualche volta perfino in discoteca, rimettendoci le orecchie, ma non funzionava: loro restavano nel loro mondo e io nel mio, un altro mondo, un altro tempo.
Per cosa? Non ho nulla. Non mi sente. Forse non esiste. O se è esistito è morto.”
Mi arrivò un colpo di ventaglio sulla spalla: “Non dire sciocchezze! Potrebbe avere trent’anni o venti. Non può essere morto!”
La guardai, più preoccupata per il reperto usato come arma impropria, che per tutto il resto: “Dì, ce n’è di gente che muore a vent’anni, sai? Incidenti, malattie, aggressioni, overdose…oppure è soltanto tutto nella mia testa.” Insistetti, caparbia.
“Significa che non ti fidi? Di noi, del tuo ipnocoso?”
Era fine estate, nel Nord del Massachusetts, e cominciava a fare freddino al tramonto, forse per quello rabbrividii, tiepida del sole che ancora duellava con la notte imminente, senza più scaldare: “Non so. Forse sono talmente malata da avere ingannato tutti, me compresa.
A volte lo sento. Lo sento così vicino, come se fosse a pochi metri, tanto che mi volto a guardare se per caso sia alle mie spalle. A volte sento toccare i capelli, all’improvviso, sento una mano, la pressione delle dita, il pollice un po’ distaccato, come appoggiasse la mano sulla mia tempia. Sembra una mano grande, ma leggiadra. Altre volte sento le sue mani, le dita sfiorano le mie, le sento chiudersi attorno alle mie, così tangibili e reali, che penso mi appariranno, così, dal nulla. A volte sento qualcosa che tira come una corda dallo sterno, dolorosa, verso un dove che non so quale sia, ma…ma forse soffro solo di aritmie, perché non succede mai niente.”
“Sai che in diversi posti agli Sciamani veniva fatto l’elettroshock? Sai che in Unione Sovietica appartenenti alle popolazioni siberiane che manifestano particolari doti di trans o guarigione, vengono ancora spediti nei manicomi, si?”
Lo sapevo. Come non saperlo, visto il mestiere di mio padre?
Avevamo superato appena la metà degli anni ottanta, la Glasnost era ai suoi inizi e le molte cose che stavano per cambiare, ancora non lo erano.
“E quindi?”
“E quindi, le tue paure non sono così strane. Ai nostri bisnonni non sarebbe successo, ma oggi, avviluppati in questa spirale materialista, soprattutto per voi che ne siete imbevuti da secoli, la pazzia è l’unica risposta a ciò che è al di fuori delle vostre quattro misere esperienze.”
Si piazzò di fronte a me, seduta a gambe incrociate e un po’ protesa in avanti tentando di apparire minacciosa: “Abbiamo deciso di fare una Cerimonia”
Restai a guardarla senza rispondere, perché avevo la testa piuttosto vuota, in quel momento: “Una Cerimonia per strappare da te la tua malattia, perché non c’è dubbio che ci sia una malattia, effettivamente, ma bada! Se il male è il ricordo, se tutto questo è un inganno, allora verrà estirpato per sempre, ma se il tuo male è il tuo tormento contro la tua stessa natura, tutto quello che hai vissuto fino ad oggi, diventerà più forte. Il tuo potere scorrerà in te come un grande fiume. Sei disposta a farlo?”
Non mi pareva di avere scelta.
In ogni caso, mi sarei liberata dai dubbi, almeno per un po’.
“Non mi darete il Peyote, vero? Non posso sopportarlo, quella roba fa veramente schifo!”
Maggie si prese la testa tra le mani, rassegnata: “No, non ti daremo il Peyote. Useremo i tamburi, i canti, delle erbe. Devi entrare in uno stato alterato di coscienza ben più profondo di quello in cui vai in ipnosi, Mary. Molto più profondo. Nemmeno l’Ayahuasca, vuoi?” le feci una linguaccia e ritornammo verso casa.
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Quando Maggie accennò ai miei l’idea della Cerimonia, papà ne fu naturalmente entusiasta, mamma divenne molto triste e preoccupata: aveva imparato da molto tempo ormai a vivere una vita sospesa tra razionale, magico e misterioso, aveva, come due anni prima a Luxor, vissuto esperienze fuori dalla realtà ordinaria senza volerle, ma questo continuo addentrarsi in mondi sempre più lontani, sempre più separati da quello reale e quotidiano in cui teoricamente viviamo, la preoccupava molto.
Mi vedeva sola, temeva cosa sarebbe stato di me quando, un giorno o l’altro, loro non ci fossero più stati a condividere il mio cammino, mi vedeva, mi temeva, solitaria e abbandonata.
Papà riteneva che, qualsiasi cosa fosse successa, avrei sempre trovato un aiuto, un incontro, qualcuno dal cuore magico ad accompagnarmi al posto loro, e l’incontro con quella manciata di Stregoni, secondo lui, era la cosa migliore che mai avrebbe potuto succedermi.”

Il cameriere passò lasciando un piattino di plastica con pezzetti di wurstel, paté di olive, quadratini di formaggio e tocchetti di arrosto: “Non sapevo cosa potesse piacergli, ma ho notato che ha tentato di rubare il panino con il paté di olive a quella studentessa, prima. Ho pensato che avesse ancora fame!”
Lo guardai senza capire: “Chi?”
“Il cane! Mentre voi parlavate ha…abbordato quella ragazza con la treccia per farsi dare il paté di olive!” spiegò imbarazzato, manco fosse stato lui ad importunare la biondina: “Oh! Eravamo così prese che…ma lo sto tenendo al guinzaglio e…” osservando meglio mi resi conto che il guinzaglio, che avrebbe dovuto essere infilato nella gamba della sedia, era appoggiato a terra libero, e che il malnato doveva essersela svignata alla chetichella, aver commesso il delitto, e poi essersi risistemato sotto il tavolino come niente fosse, millantando una ‘prigionia’ del tutto inesistente.
Saltai in piedi e questa volta legai il guinzaglio alla spalliera con due nodi. Diventava corto, così, e il criminale mi guardò con sdegnato disappunto: “Figuracce! Mi fai fare un sacco di figuracce, non ti vergogni? Abbordare le signorine, adesso!!”
La ragazza, poco più in là, vide che lo sgridavo e gli fece ciao con la mano: “È cooosì carino!” mi disse.
Marabel si era appropriata del piattino e lo stava imboccando, imponendogli una coccola ad ogni boccone.
Ma possibile che soltanto io, su tutto il pianeta, fossi preoccupata per l’educazione di quel misterioso oggetto nero che risucchiava inesorabilmente qualsiasi cosa entrasse nel suo raggio gravitazionale?
Dubitavo perfino che la materia catturata riuscisse a produrre una debole emissione di raggi X, prima di scomparire.
La mezz’ora seguente passò tra bocconcini e coccole di praticamente tutti gli avventori del locale e, al momento di pagare, ci omaggiarono la seconda portata per il cane, quella del paté.
Io, poco prima, avevo insistito per pagare un altro panino alla ragazza, che rideva come una matta: sarebbe andata al mare entro due settimane, disse, e sicuramente il cucciolo le aveva evitato un accumulo di ciccia in vista della prova costume.
Andando verso casa mi procurai in gastronomia una scorta di zucchini in carpione e tomini al verde per venti, mentre Marabel correva a caccia di pesche di vigna.
Non so con quale coraggio, ma Grigno mugolò tutto il tragitto, tentando di convincermi a dargli un bocconcino. L’unica cosa che pareva non attirarlo erano le pesche.
Io lo guardavo in cagnesco, lui mugolava, Marabel camminava piegata in due dalle risate.

A casa i gatti, sfiniti sul divano, dichiararono di aver subito in nostra assenza un’invasione aliena, da cui erano usciti vincitori per un soffio e che quelli sparsi per tutta la casa, che sembravano coriandoli di carta da cucina, erano in realtà residui di armi di sterminio di massa.
“Va bene. Immagino lo facciano per il nostro bene: un po’ di moto prima di cena non fa sicuramente male, in fondo abbiamo camminato per appena tre chilometri.” Borbottai mentre iniziavo ad infilare coriandoli in un sacco per la spazzatura.
Terminai il lavoro con l’aspirapolvere (cane e gatti fuggirono in terrazzo, assolutamente contrariati), poi mi lasciai cadere sul divano.
“Penso io alla tavola.” Disse Marabel: “D’altra parte, abbiamo un’ottima cena fredda, niente da preparare. Ho preso della bresaola mentre ti raggiungevo”
Mi voltai verso il cane: “Scordatelo!” lo prevenni.“Allora…questa cerimonia?”

“Avvenne con la Luna Piena, pochi giorni prima dell’Equinozio d’autunno. Su mio desiderio, Maggie chiese a mamma e papà di non assistere, perché era giusto che percorressi quel cammino da sola.
Mamma forse ne fu sollevata, papà deluso: assistere a rituali era uno dei suoi sport preferiti, ma, naturalmente, poteva praticarlo di rado.
Oltre a Maggie c’erano tre suoi amici, due dei quali mi erano ben noti: Robert, un uomo sulla quarantina, Cheyenne con contaminazioni Assiniboine, probabilmente l’uomo più bello che avessi mai incontrato, poi un Mi’kmaq mischiato Tuscarora, un omino molto anziano che pareva uscito da un vecchio film western, simpaticissimo e tenero.
Il terzo, che non avevo mai visto, mi lasciò molto perplessa: portava Rayban a specchio, capelli che a malapena gli sfioravano le spalle, spalmati di gel, masticava gomma e vestiva alla moda. Più che alla moda. Eccessivamente alla moda.
Si guardava intorno e ridacchiava, mimando con testa e braccia movimenti di danza al ritmo di una musica presente solo nella sua testa, che canticchiava sottovoce per i fatti suoi.
Non mi parve molto intelligente, anzi, pensai dovesse avere qualche problema.
Mi lanciò un’occhiata che mi fece sentire molto svestita, facendo scoppiare una bolla di chewing gum. 
Non potevo credere che fosse amico di Maggie e Robert, che diamine!
Cosa ci faceva tra quella gente? Un chiaro, eclatante esempio di urban indian d’assalto, firmato dalla testa ai piedi, belloccio, superficiale, vanesio, insomma, uno di quei ragazzotti da discoteca che si incontrano nelle grandi città, nullafacenti e ciondolanti perennemente a caccia di ragazze, ridanciani, modaioli da branco, con il cervello di una cellula procariota.
Guardai i miei amici disperata: ma che gli era preso? Non lo volevo quel tipo!
Robert gli disse qualcosa che non capii e l’altro si allontanò col suo passo dondolante, non prima di avermi lanciato un’altra occhiata ammiccante e una strizzatina d’occhio.
“Non farti ingannare, Mary. Quel ragazzo è zeppo di Magia dalla nascita, un pezzo da novanta. Ha ventiquattro anni e si è laureato con il massimo dei voti in Biologia all’Università Salish Kootenai, poi ha fatto un master a Yale con borsa di studio. Fisica. Ha sbaragliato tutti, bianchi, neri e così così, facendo incazzare parecchi docenti e un numero ancora maggiore di genitori di studenti. Ora si è iscritto Storia e Cultura Indigena, sempre al SKC, che non c’azzecca niente, ma lui è contento così. Un gran cervello, deve tenerlo allenato, sennò va in crisi.”
Ero totalmente basita: non avrei pensato potesse possedere più di un neurone per emisfero.
“La sua particolarità è la visione oltre i mondi. Viaggia in dimensioni sciamaniche, in altre realtà, un paio di volte è stato visto in un posto mentre si trovava a casa sua a mille chilometri di distanza, con tanto di testimoni sobri da tutte e due le parti. È Salish e Blackfeet…un Nativo puro, non ha una sola goccia di sangue non indigeno.”
Avrei dovuto sospettarlo dal viso quasi imberbe, ma avevo pensato fosse per la giovane età, prima di rendermi conto che se un uomo non ha la barba a ventiquattro anni, difficilmente l’avrà a trenta.
“Ma mi guarda come fossi un bignè!” protestai.
Robert mi rivolse il sorriso più affascinante e sornione del suo repertorio: “È tutta scena: è timidissimo!” spiegò cospiratore.
Lo fissai sgranando gli occhi. “È la verità!” insistette.
Vedendo che non ero convinta, sedette paziente di fronte a me: “È nato nel Montana, nella Riserva Flathead, terzo di quattro figli. Ascendenza sciamanica da un numero imprecisato di generazioni. Sempre vissuto nella Riserva fino…fino a quando la sorella maggiore…beh, ha fatto una brutta fine. Una gran brutta fine.
Ci fu un processo e il Consiglio di Banda raccolse un bel gruzzolo perché potessero permettersi avvocati di grido, in grado di opporsi agli avvocati degli imputati. Era appena passata la bufera di Wounded Knee, c’era un sacco di nervosismo in giro (l’occupazione di Wounded Knee da parte di duecento Nativi armati dell’AIM, che tennero in scacco gli Stati Uniti dal 27 febbraio 1973 all’8 maggio dello stesso anno. n.d.a.).
Vinsero il processo, creando un precedente e parecchio malcontento nella popolazione americana, gli imputati furono condannati a trent’anni di galera ciascuno, ma non ci furono risarcimenti, così la famiglia di Floyd si trovò sul lastrico e il padre accettò un lavoro presso un grande cantiere di Seattle. Sai, la vecchia storia dei selvaggi buoni a salire in cima alle impalcature più alte senza cadere, e se cadono pazienza.”
“Ma…dopo tutte le proteste…non erano cambiate le cose?”
Lui scosse la testa: “La gente aveva paura, Marabel. Per un secolo i selvaggi erano stati zitti e buoni nelle riserve, a morire di alcol e di suicidio, o nei bassifondi a fingere di non esistere. Poi, all’improvviso, erano usciti, e si erano messi a marciare. Era arrivata gente come Russel Means, Dennis Banks, Leonard Peltier, Carter Camp…avevano catalizzato l’attenzione di tutti i telegiornali e il mondo li aveva visti. Tutto il mondo.
C’erano televisioni di tutti i continenti, i giornalisti volevano vedere cosa stesse succedendo, volevano vedere quella gente vestita con abiti da selvaggi e copricapi di penne e faceva quei “versi” spaventosi, non come gli urletti ridicoli degli ispanici con facce sporche e parrucche in testa nei film, quelle erano grida di guerra vere, suoni che gli altri, non nativi, non erano in grado di emettere.
Tutti si chiedevano cosa volessero costoro, molta, moltissima gente, al di fuori delle Americhe, si stupiva del fatto che “gli indiani” esistessero ancora.
Fecero un sacco di rumore, anche quando restavano in silenzio.
Il mondo guardava affascinato duecento selvaggi armati e dalle facce coperte che tenevano testa all’esercito più potente del mondo, ma gli americani erano molto a disagio, erano spaventati. Una brutta gatta da pelare per il Governo.

Al processo, appena un anno dopo, non fu facile, nonostante il bel gruzzolo, trovare avvocati in carriera che avessero voglia di sobbarcarsi una simile responsabilità, ma le prove contro gli imputati erano schiaccianti e i testimoni, nonostante le minacce, non si tirarono indietro. E alla fine si giunse ad una specie di accordo: la galera, ma niente risarcimento.
Sarebbe stato troppo, gli avvocati della difesa patteggiarono, a quelli dell’accusa non parve vero di poter vincere una causa in cui la vittima era una sedicenne Salish e gli imputati un ispanico e due bianchi. Fu necessario accontentarsi, d’altra parte, l’aver mandato in galera quei tre era l’obiettivo della Tribù, di tutte le Nazioni.
Così Floyd si trovò ad andare alle scuole bianche, in città, paradossalmente una città che porta il nome di un Capo Indigeno, e all’inizio fu dura: subiva ogni giorno scherzi crudeli, botte, gli insegnanti non vedevano, anzi, spesso non perdevano occasione per dare contro al ragazzino, ma lui, quatto quatto, prese il diploma  con il massimo dei voti, nonostante lavorasse in cantiere con il padre e il fratello appena poteva. 
Non aveva bisogno di distrazioni, di cinema, di amici: i suoi amici, la sua famiglia, erano nella Riserva, in città ci stava per studiare e lavorare e se non studiava, affinava le sue capacità, poi, quando tornava a casa, spariva sulle Montagne alla ricerca del suo potere.”
Piegò la testa da una parte, osservandomi: “Sai…è cresciuto fingendo di essere un altro per stare tranquillo e non destare sospetti. Ti ricorda mica qualcosa?”
Abbassai lo sguardo. “Lui non è un malato di mente, è sano. Lui è magico!” bofonchiai.
Robert ridacchiò: “Non lo sarebbe, se fosse un bianco. Sarebbe solo un pazzo, un cialtrone, un pericolo per la gente per bene. Magari un indemoniato.”

Sospirai, incapace di distaccarmi dai miei pensieri cupi e quando alzai gli occhi restai a bocca aperta: riconobbi Floyd a fatica, soltanto per i capelli quasi corti.
Aveva dei gambali tradizionali di pelle, una pittura nera su metà della faccia serissima, gli occhi dal taglio elegante ancora più neri che splendevano impressionanti in quella fascia di pittura che dalla fronte arrivava fino a metà del naso, un ampio pettorale di corno e un’acconciatura Salish, con i capelli liberi attorno e presi in un grosso ciuffo al centro, in cui aveva fissato lunghe penne di corvo reale. Sul corpo e sulle braccia aveva segni bianchi trasversali, e orecchini di pelle e perline alle orecchie.
Spogliato dagli abiti firmati, rivelava un corpo slanciato e perfetto, messo in risalto dalla pelle bronzea ed elastica e dall’eleganza innata del suo popolo, un gran ben di Dio, insomma.
Lo stesso valeva per Robert, che era pure un metro e novanta, ma a lui ero bene o male abituata: lo ritenevo un’ottima cura per la vista, una di quelle cose, come i tramonti sulle montagne e le mareggiate sulle scogliere, che ritemprano gli occhi.
Anche Maggie e  l’anziano Mi’kmaq si erano cambiati, ma non avevano un aspetto particolarmente minaccioso e, in ogni caso, Maggie non ci sarebbe riuscita manco volendo.

Si cambiò rapidamente anche Robert, spalmandosi pittura rossa su mezza faccia, con indosso soltanto un perizoma, acconciature di pelle, penne e piccole ossa tra i lunghissimi capelli, righe rosse verticali che scendevano lungo il corpo, fino ai fianchi.
Immagino che così com’era, molto dipinto e quasi niente vestito, dovesse risultare parecchio inquietante, ma io me ne sentivo molto protetta, rassicurata, e tra me ridacchiavo immaginando l’impressione che avrebbe fatto sulle brave ragazze di Londra, New York, o di Boston, ad un quarto d’ora di macchina…era selvaggiamente sexy.
Il vecchio si avvicinò: “Ti sei purificata in questi giorni?”
Lo guardai imbarazzata: “Ho fatto un paio di saune…e bagni al rosmarino. E sale! Ci ho messo anche il sale.”
Maggie alzò gli occhi al cielo, Robert e il Vecchio, risero.
Floyd rimase immobile, gli occhi nerissimi che risplendevano nella sera. Pareva già in un altro mondo.
Sarebbe sembrato una statua se non fosse stato per il lieve movimento del respiro e qualche raro battito di ciglia, a parte che nessuna statua ha mai avuto uno sguardo simile.
“Perché va in giro come uno stupido tutto firmato?” pensai, senza nemmeno guardarlo, eppure gli occhi immobili ebbero un guizzo severo verso di me, come avesse sentito.
Mi ripromisi di pensare più piano, in seguito, fingendomi attenta ai gesti di Maggie, che mi cospargeva di cenere faccia, braccia, gambe.

Indossavo una magliettina bianca, una gonna leggera, ampia e lunga color avorio e così, tutta ricoperta di cenere, dovevo sembrare in lutto stretto. Pregai che non mi tagliassero i capelli, proprio mentre Robert si avvicinava con un coltello e zac! tagliava via una grossa ciocca.
Non reagii: lo avrei ucciso in seguito, con calma.
Maggie mi fumigava con Salvia e Cedro, un mazzetto aperto cimiva sulle braci al centro del cerchio, Robert mi porse un bicchiere di plastica con una poltiglia verde dall’aspetto alieno: “Tranquilla, non è Peyote. Nemmeno Ayahuasca. E nemmeno altra roba interessante.” Sogghignò.
Ne presi un paio di sorsi, sospettosa: faceva schifo quasi quanto il Peyote, comunque.
Lo Cheyenne ridacchiò e restò a controllarmi per qualche istante, prima di tornare accanto a Floyd.
Mi sentivo intorpidita: avrei voluto che quei brutti ceffi non mi obbligassero alle loro bevande da visioni, ma Maggie aveva detto, il giorno precedente, che era colpa mia. Se io non fossi stata così razionale, così distratta, incapace di pensiero mirato e coerente, così bianca, europea e civilizzata, insomma, non ce ne sarebbe stato bisogno, al massimo mi avrebbero dato una camomilla.

Nel torpore cominciai a sentire il suono dei tamburi.
Erano di quelli piccoli, facili da trasportare ed erano soltanto due, ma il suono mi sembrava così profondo, si propagava e moltiplicava tanto da sembrare di essere nel bel mezzo di un pow wow.
Molto meno festoso di un pow wow, anzi.
Maggie aveva un antico sonaglio di una sua tris-tris-trisavola, il vecchio Mi’kmaq batteva tra loro due grosse pietre nere.
Davanti ai miei occhi chiusi danzava uno stupido bicchiere bianco di plastica. Stonava. Perché avevano usato un bicchiere di plastica? Ne avevamo bicchieri a casa, no?
Mi resi conto che i miei pensieri stavano prendendo un ritmo strano.
La faccia dipinta di Floyd si accavallava al bicchiere di plastica, era orribile, vedevo quegli occhi neri e lucenti come Ossidiane attraversarmi severi, quasi feroci, guardandomi attraverso un bicchierino di plastica.
Provavo fastidio, odio, una rabbia incontrollabile verso quell’affare, dovevo distruggerlo!
Ancora non lo sapevo, ma non avrei mai più sopportato nemmeno la vista dei bicchierini di plastica, in seguito.
Cercavo di scacciarlo da davanti agli occhi con le mani, e più lo scacciavo, più diventava grande, tangibile, tanto fisico che pensavo davvero di poterlo afferrare e schiacciare.
Dietro, lo sguardo di Floyd mi arrivava da un tempo infinitamente lontano.
La terra era calda, fiumi di magma scorrevano attorno a me, il calore mi faceva bruciare la faccia, lui era immobile, mi fissava senza vedermi, perso nel suono del tamburo.
Il bicchierino di plastica mi danzava davanti agli occhi, saltellando divertito dalla mia ossessione.
Ossessione.
Perché Robert aveva usato un bicchiere di plastica?
Avevano strumenti magici antichissimi che tenevano ben nascosti, Maggie aveva un ripostiglio sotto il pavimento, non si fidava nemmeno a tenerli in cassaforte. Avevano tutte quelle cose, possedevano dei bicchieri di vetro, se non scodelle vecchie di un secolo, perché il bicchierino di plastica?
Rideva. Il bicchiere rideva. Assurdo.
Volevo vedere il sorriso sdentato del Vecchio.
La faccia perfetta di Robert.
Gli occhi di Floyd. 
Le movenze pazienti di Maggie.
Vedevo solo il bicchierino di plastica, anche se mi fregavo gli occhi.
Bianca, europea, civilizzata.
Razionale. Frammentata.
La civiltà è un bicchiere di plastica.
La terra gridava, la lava scorreva tra le rocce giovani, i continenti si formavano neri come gli occhi di Floyd, fertili, non appena si fossero raffreddati i fiumi di fuoco.
Perché ero lì?
All’alba del Mondo con un bicchierino di plastica.
In ginocchio su quella roccia mezza affogata nel magma, scoppiai a piangere, cercando di ghermire quel coso anacronistico e assurdo.
La malattia.
Mi immobilizzai.
I tamburi erano tanti, duecento, duemila, non due.
Il Vecchio batteva due pietre nere una contro l’altra.
Floyd cantava, un canto che non avevo mai sentito prima, né avrei mai più sentito: sapevo di cosa si trattasse. I canti di potere di famiglia, i canti sacri, i loro tesori più preziosi e segreti, la loro Magia.
Lo cantava per me.
Ventiquattro anni e così tanto potere.
“Hai un così grande potere dentro di te, e lo sprechi con queste sciocchezze!” gridava Maggie in un tramonto primordiale.
Il primo tramonto sulla Terra.
La malattia è un bicchierino di plastica.
Dimenticatene.
Segui il canto.
La voce di Floyd era quasi femminea, a tratti, poi tornava a prendere forza dalle profondità della terra, si univa a quella di Robert, crescevano insieme, si allontanavano, tornavano ad incrociarsi, come volute di fumo d’incenso.
La voce dei Nativi è come il vento sulle pianure. È la Voce dell’Anima.
Lasciati rapire.
Potresti non tornare indietro.
Attenta! Forse dovresti aggrapparti al bicchierino di plastica.
Non c’era più il magma, solo fumo, dalle pietre calde che ancora solidificavano.
Una figura alta e scura veniva verso di me.
Un uomo giovane, capelli neri sulle spalle, una lunga tunica nera di una stoffa simile a seta, ma più spessa.
Aveva un viso che conoscevo, color bronzo vecchio.
No, bianco.
No, un po’ olivastro.
Bruno.
Le labbra piene, gli occhi dorati.
“Ti ricordi?” non sentivo la voce, ma le sue labbra formavano quelle parole.
“Do You remember?”
“Ti ricordi?”
“Toi te rappelle?”
“Ti ricordi, Is?”
Non riuscivo a muovermi. Volevo gridare, afferrarlo: “Mi ricordo! Si, io so chi sei! Dove sei? Dove sei, dimmi dove sei!” gridai.
“Ma di te, ti ricordi?” ma che mi fregava di me!
“Mi stai rifiutando, Is. Perché non mi vuoi?” lo fissai terrorizzata: IO lo stavo rifiutando? Io avevo vissuto tutta la vita cercandolo! Cosa stava dicendo?
“Mi mandi via. Abbracciami, Is. Non tenermi lontano.”
Un bicchierino di plastica danzava davanti alla sua faccia.
Qualcosa mi portò via, un vento caldo, la lava di un vulcano.
Ora la terra era verde. C’erano montagne, laghi, foreste. Il cielo blu era pieno di stormi, lontano, nel mare, un paio di megattere giocavano a spatasciarsi tra i flutti.
Ero molto lontana, ma mi pareva che gli spruzzi arrivassero fino a me.
A noi: lui era accanto a me.
Vedevamo tutto dall’alto, ma non eravamo su un’altura o su un promontorio.
Galleggiavo, o qualcosa del genere, in una bolla trasparente. Forse però non era una bolla.
Lui era alle mie spalle, appoggiato a me, io appoggiata a lui. Sentivo la morbida solidità del suo corpo, ma non restavo solo appoggiata, avevo la sensazione di sprofondare in quella morbidezza come in un qualcosa di non totalmente fisico.
Era bello, una sorta di estasi costante.
Stavo facendo qualcosa, davanti a me c’era un piano, un tavolo, qualcosa di semitrasparente su cui ero affaccendata. Muovevo le mani e lui le sue, senza una parola: era come se le nostre azioni fossero quelle di un solo essere, come un individuo con quattro mani.
Non c’era bisogno di parlare. Non dovevamo spiegarci, darci indicazioni, ci muovevamo in perfetta armonia.
Era così sempre e da sempre.
Dall’inizio del tempo.
Da prima, da dopo.
Non so come lo sapessi, ma lo sapevo, ero abituata, era il nostro stato abituale, quello.
La gente lo sapeva.
Noi non lavoravamo, non facevamo le cose separatamente, la nostra natura era di essere così. Due corpi, una mente. Due corpi che si beavano dell’essere uno contro l’altro, come immersi uno nell’altro, alla faccia della solidità della materia. Due esseri che, vicini o meno, erano Uno.
E basta.
Due per essere Uno.
Ma quale gente sapeva? Che lavoro? Cosa facevamo, così? Non mi importava, qualsiasi cosa non era importante, era bello, era perfetto, era come doveva essere!
“Guarda!” disse lui con la guancia appoggiata alla mia tempia, le labbra che mi sfioravano la pelle, leggere, morbide. Guardai dove indicava e vidi una grande terra verde.
Non aveva senso! Non c’è alcuna terra, là! C’è solo oceano!
Il bicchierino di plastica riapparve, danzava tra me e l’immagine di quella terra, si infilava tra me e lui, non più le sue labbra contro la mia fronte, ma la sensazione sgradevole di quell’affare bianco.
Impossibile.
Invadeva il mio campo visivo nella sua beffarda assurdità.
“Non esiste alcuna terra, là! Soltanto Oceano, fino alle Galapagos e alle Hawaii!”
dissi strizzando gli occhi per osservare meglio, oltre quell’ostacolo fastidioso.
Eppure c’era una terra verde.
C’erano laghi, montagne, pianure percorse da mandrie di qualcosa che, da grande distanza, sembravano cavalli. C’erano costruzioni gigantesche, eleganti, affogate nel verde, gradinate, strade bianche lisce come seta che si snodavano tra le foreste.
Eravamo lontani, molto, ma mi arrivava l’odore delle pinete, del mare, della neve sui rilievi.
“Non è possibile, non c’è niente là! Soltanto acqua!”
“Stai attenta! Non farti prendere da loro”
Da chi? Chi erano loro?
“Non ricordi? Non ricordi davvero, Is?”
Scomparve.
Un minuscolo vermetto danzava a mezz’aria.
Alzai gli occhi: era appeso ad un filo di seta sottilissimo che scendeva dall’albero sopra di noi. Strano, mi pareva che gli alberi fossero a parecchi metri dal Cerchio, si vede che mi ero sbagliata.
Era carino: sottile, lungo si e no come l’unghia del mio mignolo, marroncino, si contorceva appeso a quel filo come un acrobata.
Nella poca luce serale, attorno a lui vedevo nitidamente un alone di luce. “Che grande!” pensai. L’aura di quel vermicello, così minuscolo, brillava di un colore chiaro, aranciato, grande come una moneta da mezzo dollaro. Si stava divertendo un mondo in quelle acrobazie, era felice.
Mostrava a se stesso e all’Universo la sua bravura.
Restai a guardarlo incantata, ammirata dalla sua abilità.
Un rumore mi distrasse, come una musica gracchiante. Ero in centro commerciale affollato, doveva essere sabato pomeriggio.
Lanciai uno sguardo al vermetto per essere certa che non sparisse e mi voltai verso la gente che mi sfilava attorno. Camminavano senza espressione, guardandosi intorno inconsapevoli, scegliendo apparentemente a caso delle cose dagli scaffali.
Mi davano l’impressione di non avere la più pallida idea di cosa ci facessero, lì, o di cosa realmente volessero.
Dagli altoparlanti arrivavano voci maschili e femminili che pubblicizzavano un articolo o un altro e la folla, obbediente, si dirigeva nei reparti indicati, gli occhi fissi nel vuoto.
Se chiedevo permesso non sentivano, o si fermavano a guardarmi interdetti, come non avessero capito. Ripetevo: “Permesso?” e solo dopo un bel po’ si spostavano, incerti. A volte mi stufavo e facevo il giro intorno alle loro facce ebeti.
Vedevo donne davanti agli scaffali guardare indecise la merce che occhieggiava dalle confezioni colorate e accattivanti, voltarsi alla ricerca del marito, dei fidanzato, della sorella, lasciando scorrere gli sguardi vuoti sui presenti, come incapaci di riconoscere la faccia del proprio congiunto.
Uomini dalle stesse espressioni spingevano mollemente un carrello, alcuni con un bambino annoiato in braccio o al fianco. Se piangeva gli mettevano in mano un giocattolo.
Osservai il vermicello.
Continuava a danzare appeso al filo, radiante nella sua stessa luce, felice del suo gioco.
Così piccino, così semplice. Eppure così pieno di consapevolezza.
Tornai a guardare la folla: non c’era nessuna luce attorno alle persone che mi scorrevano accanto, solo una debole fiamma grigio azzurra.
Zombies.
Vagavano, obbedienti, privi di iniziativa, privi di pensiero proprio, persi in pensieri ripetitivi, uguali, gli uni come quelli degli altri. In serie. Era bello, per loro, avere solo due o tre categorie di pensieri con due o tre pensieri per categoria. Si potevano riconoscere gli uni negli altri, così.
Il vermicello rideva, in contorsioni sempre più ardite.
“CERCAMI, IS! Sono qui! Cercami, trovami!”
“Am’n! Dove sei?” ero fuori.
Sembrava New York nell’ora di punta: una folla compatta di esseri grigi aspettava immobile ad un semaforo, scattava il verde, si affrettavano in massa ad attraversare, andando nonimportadove, purché fosse da qualche parte, purché fosse di fretta.
Qualcuno col giornale sotto braccio, chi con una borsa, chi con una ventiquattrore, ragazzi con berrettini rossi portavano in spalla grosse radio da cui uscivano più o meno le stesse musiche. Non erano più consapevoli degli altri, agitavano la testa al ritmo che, uscendo dagli altoparlanti, entrava direttamente nelle loro orecchie.
Non c’era luce. Erano tutti uguali, un immenso esercito di zombies.
Nevrosi.
Quando c’era qualche guizzo di luce erano scatti di nervi o frustrazioni. Meglio che niente.
“Cercami!”
Alzai gli occhi, disperata: lontano, a molte strade di distanza, una luce sfolgorante avanzava tra la folla grigia.
Oro, bianco, viola, rosa, azzurro, arancio.
Corsi verso quella luce, chiamandolo, inciampando nelle ventiquattrore e nelle gambe di quell’esercito di morti viventi, sgomitando controcorrente.
Lui risplendeva, là in mezzo, oro puro, perfetto, un sole in quel grigiore opprimente.
All’improvviso la folla cominciò a fermarsi, a circondarmi: mi guardavano prima sospettosi, poi minacciosi. C’era rabbia sulle loro facce, una rabbia che si trasmettevano l’un l’altro. Si muovevano all’unisono, sempre più vicini, mi circondavano, cominciavano a colpirmi con borse, valigette, calci, ombrelli.
Lo chiamai, disperata.
Ero tra le sue braccia.
Il vermetto pendeva dall’albero giocando con il filo di seta.
“Hai visto, Is? Lo vedi? Non farti catturare da loro”
“Chi loro?”
Eravamo di nuovo tra la folla, un altro giorno, un'altra città, la marea di gente ci scorreva intorno inespressiva e spenta. Non avevano un vero viso: erano maschere fatte con mezzi bicchieri di plastica su cui erano disegnati occhi, naso, bocca con un pennarello nero.
Lui afferrò una donna bionda per la spalla, le diede uno schiaffo.
Lei lo guardò con rabbia un istante, poi tornò al suo nulla. Sciaf! Lei lo guardò un po’ più a lungo.
Afferrò un ragazzo nero con la radio in spalla e il berrettino rosso, Sciaf! Sciaf!
Lo guardavano interdetti: che voleva? Non erano grandi schiaffi, ma davano fastidio. Invadevano la loro vacuità.
Fecero per allontanarsi. Sciaf! Sciaf!
Si fermarono, ora arrabbiati, tutti e due.
Sciaf! Il rumore degli schiaffi rimbombava in quel silenzio irreale. Li guardavo, loro due, il resto della folla.
Ebbero un guizzo, era rabbia, si. Era qualcosa, un colore, una consapevolezza.
Sciaf! “La smetta!” gridò la donna.
Sciaf! “Ehi, pezzo di coglione!” gridò il ragazzo.
Sciaf! Sciaf! Strappò la radio al ragazzo, la gettò a terra, il ragazzo gridò: “Me la ripaghi, stronzo!”
Sciaf! Sciaf! Luce rossa. Lui allungò al ragazzo cento dollari. Questo lo guardò allibito: “Oh, ma sei scemo?”
Stupito. Incredulo. Luce arancio, luce gialla attorno alla testa. Pensieri dalle forme indistinte.
Sciaf!
La donna guardava incapace di trovare una spiegazione ai gesti di quello strano tipo dalla lunga tunica nera. “Da dove vieni?” chiese come scuotendosi da un lungo sonno. Sciaf!
Afferrò delle rose da un posto lì accanto, le mise in mano alla donna. Erano rosa, gialle, rosse. Colori sfavillanti nel grigio.
La donna e il ragazzo si guardarono, guardarono lui, noi.
“Svegliatevi!” sussurrò al loro orecchio.
I due si guardavano perplessi, sembravano comunicare tra loro i propri dubbi, deboli luci di consapevolezza li circondavano: “Svegliatevi! Svegliatevi!”
Si misero a ridere, il ragazzo mostrò la banconota alla donna, le offrì il pranzo, lei gli porse metà delle sue rose. Ridevano, se ne andarono nel grigiore della folla.
Arancio, verde, bolle rosate di pensieri.
Mi prese per mano. Eravamo tra quella folla grigia, ma non eravamo là: “Vedi? Sono in loro potere! Dobbiamo fare presto, presto, prima che sia troppo tardi! Presto diventerà irreversibile, non ci sarà più nulla da fare!”
“Ma in potere di chi? O di cosa?” poi lo fissai, comprendendo: “Egregore? Sono sempre più potenti, è così? Tu non hai potuto fare quello che dovevi e…”
Sorrise dolcemente, amorevole ed amaro. Gli occhi dorati un po’ troppo lucidi.
“Lo vedi? Ci tengono lontani! Non lo permettono, non possono permetterlo!
Ci vogliono spegnere! Dobbiamo farlo prima che sia troppo tardi. Loro” disse indicando la folla di morti viventi: “Loro si accorgono se qualcuno è vivo e lo assalgono. Ne sono terrorizzati, vittime dei loro padroni, devono omologarti, renderti come loro: grigi, morti, normali, ciechi, sordi. Spegnerti, devono spegnerti.
Devono spegnerti.
Devono omologarti.
Soffocarti.
Sono sempre di più, sempre più inconsapevoli, ci sono armi sempre più potenti per controllarli, presto sarà troppo tardi, tutto il processo diventerà irreversibile! Svegliane quanti più puoi!
Svegliali!
Cercami.
Sono qui, non mi vedi? Come puoi non trovarmi?”
Scomparve, sentivo ancora le sue mani chiuse sulle mie.
“Is, cercami! Trovami, Is!! Non puoi non vedermi! Come puoi non vedermi? Non lasciarti prendere!” sentii la disperazione nella sua voce. Mi soffocava, la sua disperazione era mia.
Avevo freddo. Non era ancora il Solstizio d’autunno, non poteva essere così freddo! E poi ero accanto al fuoco, dentro il cerchio.
I tamburi di Floyd e Robert arrivavano a me attraverso la terra sotto il mio corpo, il sonaglio di Maggie passava al di sopra, avanti e indietro.
Le due pietre nere cozzavano l’una contro l’altra, ritmiche, un suono piatto come schiaffi rocciosi, un po’ beffardo.
Il suono del sonaglio sembrava ripetere incessantemente una frase che non capivo, un suono gutturale, sabbioso, che pian piano diventava “Cosa vuoi, cosa vuoi…”
Anche i canti senza parole di Floyd sembravano dire la stessa cosa.
Lo vidi alzarsi, era irreale, lasciava una scia di colore dietro di sé mentre danzava intorno, le braccia aperte, sempre più veloce, emettendo grida acute e secche come acciaio che arrivavano dal profondo.
“Sono kiai” mi dissi, stupendomi di non essermene accorta prima.
La danza era sempre più veloce, ipnotica, era davanti a me, era di fianco, alle mie spalle, era ovunque contemporaneamente. “cosavuoi, cosavuoi, cosavuoi…”
“Cerco lui!” gridai.
La faccia di Floyd mi si parò di fronte, la fascia di pittura nero lucido, gli occhi dalla sclera un po’ sporca, forse arrossata, le iridi più nere, profonde, penetranti che mai: “Anche lui ti sta cercando!” mi gridò in faccia.
Mi afferrò le spalle, ma non sembravano mani, le sue, sembravano artigli che mi conficcava nelle carni, il suo viso assunse l’aspetto di un puma, il muso deformato da un ruggito di rabbia, il muso di un lupo nero che ringhiava scoprendo le zanne, ululando verso il cielo, un ringhio sempre più profondo, mi beccò gli occhi, gridai.

Grida. Qualcuno arrivava di corsa.
“Presto, sono là! Prendeteli!”
“Ehi, voi, che state combinando? Fermi, polizia!”
“Fermi o sparo!”
“Guardate, la ragazza, l’hanno drogata, sicuramente l’hanno violentata!”
“Maledetti stupratori!”
“Prendeteli!”
“Siete in arresto! Fermi con le mani in alto!”
Le pietre continuavano a colpirsi beffarde l’una l’altra, i tamburi battevano sempre più rapidi, il sonaglio sembrava il sibilo di crotali.
“Fermi con le mani in alto!”
“No, aspettate, non sono criminali! Sono un antropologo del Metropolitan, la signora è una collega, mia figlia è una collaboratrice, noi…”
“Stia zitto, anche lei è un sospettato! Si fermi con le mani in alto!”
No, no, no che stava succedendo? Perché c’era la polizia? Volevo alzarmi, gridare di andarsene, ma non riuscivo.
“Tranquilla, Mary, ci pensiamo noi” sussurrò la voce di Maggie vicino al mio orecchio.
“Posso spiegare tutto!” Insisteva papà.
“Maledetti selvaggi!”
“Richiudeteli nelle riserve! Dovevamo sterminarli tutti!”
Cercai di aprire gli occhi, le voci erano sempre più vicine, attraverso le ciglia vidi un paio di grassi poliziotti arrivare ballonzolando in una ridicola parodia di corsa.
Robert si alzò con un solo gesto, si parò davanti al poliziotto più vicino, gli appoggiò la mano di piatto sul grasso sterno.
Sentii un rumore sordo, Robert barcollò, rigirò il poliziotto, lo spinse e gli mollò un calcione nel fondoschiena: “Questa è aggressione a pubblico ufficiale!” strillò quello.
Volevo muovermi, ma qualcosa me lo impediva. Immaginai che fossero le volontà dei miei compagni, più che la bevanda.
Improvvisamente non sentii più i tamburi, né il sonaglio, né le pietre.
Anche la gente accorsa con la polizia restò in zitta, probabilmente interdetta per quell’improvviso silenzio.
Tentai di girarmi, vidi Floyd alzarsi in piedi, avvicinarsi con passo ciondolante, un po’ indolente, ai poliziotti che indietreggiarono nonostante avessero le pistole in mano, puntate verso i due uomini. 
Erano entrambi tozzi e flaccidi. Sarebbero stati ridicoli davanti a quelle due pertiche dipinte e piumate, se non fosse stata una scena orribile.
“Mioddio, spareranno, lo so che spareranno, hanno troppa paura!” pensai, terrorizzata.
Volevo gridare, volevo alzarmi, piume e pitture non potevano proteggerli da proiettili di piombo.
Floyd sospirò, annoiato, alzò una mano davanti a sé, le dita puntate verso i poliziotti.

Sentii un rumore tra l’erba, Robert si chinò fulmineo e prese le pistole da terra. I poliziotti arretravano, pallidi e sudaticci, quasi fluorescenti nella luce del fuoco.
Nascosi la faccia contro la terra, piangendo per il sollievo.
*******************************
Mi sentivo come mi avessero passata alla trebbiatura.
Era tornato il silenzio, i facinorosi se ne erano andati e stranamente anche la polizia, lasciandomi lì.
Mi rendevo conto che c’era qualcuno vicino, ma chi?
Avevo sentito delle auto allontanarsi, una con la sirena. Chi avevano portato via?
Robert aveva tirato un calcione al poliziotto…lo avevano arrestato? E dov’era papà?
Splash!
Mi arrivò uno schizzo, aprii gli occhi e lo vidi, Robert, vestito solo del perizoma e delle lunghe strisce di pittura, che gettava un catino d’acqua sulle braci.
Mi sollevai su un gomito: “Non si dovrebbe fare così!” lo rimproverai.
“Gli Spiriti non se ne avranno a male, dobbiamo sbrigarci, quegli esagitati potrebbero tornare”
Sedetti faticosamente: “Ma che schifezza mi hai dato?” brontolai, tenendomi la testa. Avevo in bocca un saporaccio.
“Camomilla” rispose.
Mi afferrò per le braccia e mi sollevò con cautela, tenendomi mentre cercavo di recuperare l’equilibrio.
“Com’è che non ti hanno arrestato?”
Aveva un lungo taglio sullo zigomo, il cui sangue si mescolava con la pittura rossa. “Non c’era motivo di arrestarmi e comunque Maggie e tuo padre sono al commissariato a spiegare tutto, con il vecchio. Ci auguriamo che l’autorità di un novantaseienne serva”
“Ma gli hai dato un calcio!”
“Non l’ho toccato, è caduto da solo, io ho tentato di sostenerlo, ma lui era grosso ed è caduto. I suoi capi lo metteranno a dieta.” Disse con un sorriso sornione che mi ricordò lo Stregatto.
“Non posso crederci.” Esclamai.
Avevo il forte sospetto che avessero effettuato sugli intrusi qualche tipo di ipnosi di massa, ma ero troppo sbarellata per pensare con chiarezza.
Era successo qualcosa, si, quando Floyd aveva fatto cadere le pistole…e poi se ne erano andati, sia i poliziotti che gli altri, ma potevano tornare, diceva Robert…quindi eravamo nei guai, nonostante tutto, forse, una volta lontani, si sarebbero resi conto di essere stati incantati e…
Mal di testa, nausea, dolori da tutte le parti, stato confusionale. “È questo l’effetto della vostra Cerimonia?”
Lui si strinse nelle spalle: “Dipende.”
Arrivò la vecchia utilitaria verde di Maggie e ne scese Floyd, anche lui poco vestito e molto dipinto. Si tolse una penna di corvo dall’acconciatura e me la diede: “Te la meriti, piccola donna bianca”. Sembrava serio.
“Maggie ci ha lasciato l’auto” disse lanciando le chiavi a Robert, afferrò un involto con i vestiti e lo lanciò nel bagagliaio, mettendosi subito a sistemare tamburi, sonagli e arnesi vari.
Nessuno dei due pensò di vestirsi, avevano fretta di levarsi di lì.
“Ora a casa della Medicine Woman a fare una doccia e aspettare. Tu non puoi andare a casa tua, ci saranno dei curiosi, pare non si spettegoli d’altro. Se torni ti saltano addosso.”
“Ma…”
“Marabel, non puoi tornare a casa e comunque tuo padre è al commissariato e tua madre lo ha raggiunto. Se ti portassimo là, qualche testa di c*** potrebbe pure lanciare sassi nelle finestre, come minimo. Ormai si sono esaltati.
Non lo sai? Essere rossi è peggio che essere neri, ed essere bianchi molto affratellati con i rossi è peggio del peggio, è uno schifoso tradimento!”
Deglutii: mi pareva di avere a che fare con il Klu Klux Klan e, pensandoci bene, doveva essere così.
In pochi minuti tutto fu sistemato, Robert si infilò al posto di guida, Floyd mi lanciò praticamente al posto del passeggero e poi si svaccò dietro, terminando di levarsi le penne dai capelli e stropicciandoli per scioglierli. “Meno male, venti chilometri a piedi di notte assieme ad una ragazza bianca con i postumi di una sbronza non sarebbero stati l’ideale” bofonchiò Robert.
“EHI!!! QUALE SBRONZA??”
Risero, l’auto si mise in moto: “Dev’essere un’esperienza da brivido appoggiare le tue chiappe nude sul sedile di plastica, eh, Bob?” lo derise Floyd da dietro.
Era buio, vedevo solo brillare i suoi occhi e i denti come un balenio bianco nell’oscurità. Teneva la voce bassa, aveva qualcosa di lupino, come un  ringhio divertito.
“Tu mi hai beccata!” lo accusai, ricordando all’improvviso. Scoppiò a ridere: “Ma va’!”
“SI! Si lo hai fatto! Mi hai conficcato gli artigli nelle spalle e poi mi hai ruggito, ringhiato e mi hai beccato gli occhi! Volevi mangiarmi! Poi sono arrivati gli sbirri!”
“Sognavi, ragazza! A parte gli sbirri, il resto è sogno”
Ero voltata verso il sedile posteriore, lui si nascondeva nell’ombra, sembrava molto a suo agio nell’essere pressoché invisibile. I fari di un’auto in senso opposto ci investirono per un momento, illuminando di una luce spettrale la fascia di pittura nera, gli occhi brillanti e i capelli disordinati.
Tornò il buio in un attimo, si sarebbe potuto credere di aver visto un fantasma.
“Non mi sono mosso dal mio posto” ringhiò sottovoce.
“Danzavi, quindi ti sei mosso”
“No. Sognavi.”
Non gli credevo.
Robert era concentrato sulla guida, soprattutto sulla strada: se qualcuno ci avesse fermati per un controllo, spiegare cosa faceva praticamente nudo alla guida dell’auto di una gentile signora assente, in piena notte, con un altro Nativo quasi altrettanto nudo e una ragazza coperta di cenere, non sarebbe stato semplicissimo.
“Quel deficiente che ha chiamato la polizia!” esclamò seguendo il filo dei suoi pensieri, accompagnando le parole con una manata sul volante: “Cosa gli è preso?”
Floyd si strinse nelle spalle: “Da quel che ho capito, tempo fa aveva visto quel sito e ha pensato di tornarci con la ragazza, probabilmente voleva impressionarla con qualche minchiata.” Rise, gettando indietro la testa: “Uuuhhhh, come l’avrà impressionata!”
Robert ringhiò. Era stato in galera, ai tempi di Wounded Knee, l’FBI lo teneva d’occhio da allora. Erano in quel guaio per colpa mia!
Raggiungemmo la periferia di Boston senza incontrare pattuglie, le strade erano sgombre, la notte silenziosa e Robert si infilò nel garage di Maggie: “Doccia, birra…dovrebbe esserci qualche provvista nel frigorifero, ma non accendete la luce.”
Entrammo in casa dalla portina interna al garage, le altre villette erano silenziose, una sola finestra, tre case più in là, era illuminata.
Sembrava tutto così tranquillo, quotidiano, tangibile. Meravigliosamente normale.
Cominciavo a vedermi danzare davanti agli occhi le immagini del mio viaggio sciamanico, come flash back, e mi stava tornando una leggera nausea.
“Mangia un pezzo di pane” la mano bruna di Robert mi porse mezza pagnottella di quelle al burro che faceva Maggie nel forno, tutti i martedì.
I ragazzi, silenziosi come fantasmi e veloci come puma, riposero gli oggetti sacri nel loro nascondiglio, avendo cura di tirare le tende, casomai qualcuno avesse avuto la brillante idea di ficcare il naso.
“C’è qualcuno nell’abbaino della casa di fronte, deve avere un cannocchiale puntato qui. Un guardone, probabilmente, la polizia non può avere avuto il tempo di organizzare una squadra di controllo”
“Dici?” feci masticando.
L’FBI non doveva avere problemi ad infilarsi in una villetta in piena notte con attrezzi da spionaggio, semplicemente suonando e mostrando un tesserino.
“Queste operazioni costano, non sono così importante, baby” rispose Robert, non del tutto convinto. Comunque osservava da dietro la pesante tenda, prudente.
“Tempo fa abbiamo avuto ospite una paleontologa amica della compagna di Russel Means, si sono sentite un paio di volte al telefono e, nei giorni successivi, ci siamo resi conto di avere i telefoni sotto controllo. Se n’è accorta Maggie, veramente.” spiegai.
“Io non sono Russel…” buttò lì Robert distrattamente. Poi si voltò a guardare Floyd: “In che rapporti sei con i Federali?”
L’altro scrollò le spalle: “L’ultima volta che ho subito un controllo sono risultato così stupido e vanesio, che penso non si faranno vedere per i prossimi quarant’anni. Naturalmente, visti i miei precedenti potrebbero avere qualche sospetto.”
Cavoli! Mi diedi una manata sulla fronte. Il processo, la laurea, i guai con la scuola in città…per questo faceva il cretino!
Robert mi guardò di sottecchi, con una sorta di tenerezza: “Piccola donna bianca, ti ci vuole ancora un pezzo per capire gli uomini rossi!”
Mi sentii terribilmente stupida: un anno e mezzo appiccicata a quella gente e mi facevo ancora simili figure da pesce!
Mi lanciai sotto la doccia, i ragazzi avevano lasciato un abito di Maggie che mi stava un po’ largo e un po’ corto, si infilarono a turno nella doccia dopo di me e si rivestirono, lasciandosi cadere mollemente sui divani del salotto con una bottiglia di birra e un certo numero di panini molto imbottiti.
Ci muovevamo silenziosamente, parlavamo sottovoce, le finestre sigillate e le tende tirate. L’unica luce proveniva dalla porta aperta della dispensa e illuminava l’area dove eravamo accampati, senza raggiungere lo specchio delle finestre. Da fuori tutto doveva sembrare buio e immobile.
C’era qualcosa sul pavimento: un documento sfuggito dalla tasca di Floyd. Lo presi, nel porgerglielo lessi qualcosa che mi lasciò interdetta: “Archangel?!?”
Lui mi sfilò il documento dalle dita con un grugnito.
“Ti chiami Archangel?!” insistetti. “Snstlsr”
“Eh?”
“Snstlsr!”
“Cosa?” Robert rideva.
“Sono state le suore!”
Caddi seduta: “L…le…le…su…?”
Infilò il documento in tasca e passò una bottiglia a Robert: “Quando mio padre dovette andare a lavorare a Seattle, non avendo alloggio, dormì in macchina per un mese con mio fratello più grande, direttamente fuori dal cantiere e piazzò me, mia sorella e mia madre in un convento. Le suore ci vedevano come piccoli selvaggi indemoniati e decisero di salvare le nostre anime. Ricattarono nostra madre, dicendo che, se ci fosse successa qualche disgrazia, come era stato per mia sorella, saremmo andati all’inferno.
Lei non ci credeva, ma era spaventata: l’assassinio di mia sorella l’aveva scombussolata parecchio, ma loro le promisero che avrebbero pregato per lei, perché non sarebbe mai andata in Paradiso, non essendo battezzata, ma noi eravamo in tempo e che, se ci avesse fatti battezzare, ci avrebbero dato abiti nuovi e cibo in più.
Cedette, più per vederci nutriti e vestiti che per le nostre anime, ma noi non volevamo. La mia sorellina, che aveva quattro anni, strillava come un’ossessa quando la portavano a pregare e questo…dimostrava chiaramente che eravamo esseri infernali.”
“Non c’erano le missioni nella Riserva? Pensavo foste più o meno tutti cristianizzati, almeno ufficialmente”
“Ufficialmente, si. Molti fingono di seguire la religione cristiana, ma di nascosto continuano con le vecchie pratiche e noi, in particolare, eravamo una famiglia di ribelli. Mio nonno, sua nonna prima di lui, e così via, erano Medicine men e women, da un grande numero di generazioni e non si facevano abbindolare da quella gente: non ci avevano battezzati, né avevamo fatto quelle cose…i sacramenti, o chessoio. Molti di noi sono convertiti, ma hanno addomesticato il cristianesimo, adattandolo bene o male alle nostre tradizioni, noi no, nemmeno quello.
Le monache dicevano che la mia famiglia, in questo modo, si era attirata la punizione divina. E io, a quel punto, decisi che il dio cristiano doveva essere un vero s***! Vendicativo, prepotente, che se la prendeva con una ragazza di sedici anni perché non ci si piegava al suo volere. No, non volevo essere convertito!”
Mentre lui parlava mi rimbombavano nella testa le parole del mio Faraone: zombies, vittime di egregore sempre più potenti e fameliche…deglutii. Cosa c’è di più violento del ricatto della religione?
“Così le suore decisero che, per battezzarmi, mi avrebbero messo il nome di un arcangelo, solo che erano piuttosto oche e non riuscivano a decidere se chiamarmi Gabriel, Raphael, Michael, Uriel…così alla fine, arrivò la loro superiora e decretò che mi sarei chiamato Archangel, senza fare torti a nessuno”
Robert continuava a ridere, spiattellato sul divano.
“E quindi…ti chiami Archangel?”
“Solo sui documenti” storse il naso Floyd: “Dopo il battesimo, ogni giorno, andavo nella chiesa dopo la messa, rubavo una parte delle offerte e le nascondevo. Non tutto, solo un po’. Le suore si lamentavano che c’erano meno offerte, ma non mangiarono la foglia.
Lo feci per una quindicina di giorni, poi smisi, così non si insospettirono, e qualche giorno dopo scappai.
Comprai un biglietto d’autobus per il Montana, poi chiamai qualcuno alla Riserva per farmi venire a prendere a Missoula, e mi feci portare dai nonni, raccontai che mi avevano battezzato con la forza e che mi sentivo male da allora. Mio nonno chiamò tre o quattro capi religiosi e mi, come dire, mi esorcizzarono. Il nome mi toccò tenerlo, ma giusto nei documenti. Al College fa figo.”
Ero basita: un ragazzino di dodici anni che scappa da solo dallo Stato di Washington e corre alla Riserva nel Montana per liberarsi di un’imposizione religiosa. Era notevole, davvero.
“E dopo?”
“Mio nonno telefonò al convento, dicendo che mi sentivo spaesato e volevo tornare a casa dai nonni, ma che non volevo far preoccupare nessuno. Venne a prendermi una delle suore, portando un cambio di abito, certa che fossi lurido e vestito da selvaggio. Si stupì parecchio nello scoprire che possedevamo delle case, vecchie auto e una scuola superiore. Negli anni successivi venne poi creato il College, ma allora non esisteva.”
“Comunque la monaca fu sconvolta dalla visita?”
“Non entrò nella Riserva, rimase ad attendermi all'ingresso con il rosario in mano. Sigillata in auto. Mi portò giù l’auto dello sceriffo, con il nonno.”
Ora Robert si sganasciava letteralmente. Immagino lo facesse anche per stemperare la tensione.
“Allora? Tocca a te. Che è successo?”
Glielo raccontai, così come mi veniva in mente. Arrivata alla faccenda degli zombies mi vergognai parecchio, ma loro non fecero una piega.
Mi ascoltavano apparentemente quasi distratti, tracannando birra e mangiando panini come fossero a digiuno da un mese, anche se ero io quella che aveva dovuto digiunare. Sembravano due quindicenni.
“Non mi pare abbia detto niente di straordinario” commentò Floyd.
“Noi lo diciamo da secoli!” ribadì Robert.
“Ragazzi, non mi state aiutando!”
“Si vede che il tuo ragazzo è rimasto chiuso in un sarcofago per tremila anni, eh? È un po’ indietro di cottura!”
Li avrei picchiati. “A me è sembrato tutto così straordinario! E come ti permetti? E poi non è il mio ragazzo!”
“Non adesso. Ma deve esserlo da un bel po’, visto che ti sei trovata direttamente all’alba del mondo, no?”
Li guardai interdetta: “Io?”
“Beh, noi no. Uff!” sbuffò Robert: “Non eri su rocce ancora bollenti, circondata da fiumi di magma? Dico, non penserai che fosse l’inferno dei preti, no?”
“n...no, ma…”
“Ha ragione, Bob! Lei è carina, ma è sempre bianca! Non puoi pretendere che capisca tutto!”
“Ma che simpatici!”
“Ok, ok, allora…se ti sei trovata in un’epoca così primordiale, una ragione c’è. Dovresti analizzare tutto quello che è successo, un po’ alla volta, meditarci, magari scrivertelo, così da non dimenticare niente. Non è una cosa normale, Marabel: sono molto poche le Anime così antiche. E anche lui era lì, no?”
“C’era anche Maggie”
“Che c’entra, Maggie è una Medicine Woman. E poi doveva tenerti d’occhio, stavi sbarellando di brutto, sai? Sembravi una belva in gabbia.”
“Era colpa tua e del bicchiere di plastica!” lo accusai imbronciata.
Mi aspettavo che si stupisse o si mettesse a ridere come sua abitudine, invece si limitò a sbirciarmi in tralice.
“E quella terra? Che mi dite di quella terra? Non c’è niente nel Pacifico, in quell’area, non c’è mai stato nulla!”
“L’Oceania è da quelle parti, mi pare…”
“D’accordo, ma..”
“Le Hawaii sono venute dopo, da un punto caldo al centro della placca tettonica”
“…E quindi?!?”
Lo Cheyenne si degnò di alzarsi, posare la bottiglia ormai a metà e venirsi a sedere sul tappeto ai miei piedi: “Non c’è nulla là…adesso!” disse piantando gli occhi nei miei.
“M…ma…”
“La terra ha cambiato aspetto molte volte. Si muove, a volte di più, a volte di meno. Un tempo la massa magmatica era più fluida ed elastica e le zolle tettoniche probabilmente si muovevano più rapidamente di ora. Come fai a dire che non c’è mai stato niente? Tu hai visto qualcosa, là, perché evidentemente qualcosa c’era, forse c’è ancora. Magari nel giro di qualche anno faranno delle scoperte, là sotto. Naturalmente faranno in modo che non si venga a sapere.”
“Alcuni geologi ritengono la grande piattaforma del Pacifico potrebbe celare terre anticamente emerse, ma prova ad immaginare la Pangea: i continenti si sono aperti, probabilmente molto più rapidamente di come si muovono oggi, tant’è vero che la Terra, da giovane, viveva eruzioni e terremoti molto più violenti e frequenti di oggi. E là attorno c’è l’Anello di Fuoco, ancora oggi.
Terre sono emerse, altre si sono inabissate o addirittura sono sparite sotto le zolle in movimento. Osservando le piattaforme continentali nei fondali si vedono territori molto estesi al di sopra della base oceanica” intervenne Floyd: “Tipo un’immensa colata a Sud Est del Giappone, per esempio.”
Robert cercò un atlante particolare che aveva Maggie, un atlante nautico e lo aprì su immagini di fondali ad alta definizione. “Guarda: le terre emerse qui, nel Sud dell’Oceano Indiano, sono poche isolette. Port aux Francais e le isole Heard e Mac Donald, ma, sotto il livello del mare, si vede un territorio molto esteso. Anticamente avrebbe potuto essere in un’altra zona, più a Nord Est, per esempio, ed emerso. Le parti emerse sono rilievi montuosi piuttosto bassi, ma, se tutta l’area fosse all’asciutto, sarebbero catene montuose abbastanza interessanti. Ed ecco quella colata lavica, parte dal Giappone e scende fino a Guam e Palau. E in quell’area girano voci.”
“Cioè?”
“Pare ci sia qualcosa, là sotto, qualcosa di strano. Di grosso, in tutti i sensi.”
Era l’ottantasei, ci sarebbero voluti ben altri dieci anni prima della scoperta delle Mura di Yonaguni, ancora oggi oggetto di derisione da parte della scienza ufficiale, che si ostina a sostenere si tratti si formazioni totalmente naturali e casuali, ma all’epoca io non ne sapevo niente e loro parlavano soltanto di “voci”.
“Lemuria? Mu? Altro? È fantascienza, Robert. E poi…quello che ho visto era così progredito, così grande! No, non è possibile. Non voglio negare a priori qualcosa, ma non possiamo darlo per assodato, non ci sono prove e non le troveremo mai, ammesso che qualcosa sia esistito! Se una terra emersa c’era, potrebbe essere finita nelle aree di subduzione, riassorbita nel magma, o sepolta da chilometri di acqua. E poi, che avrebbe a che fare questo con noi?”
“Beh, il pover’uomo non faceva che ripeterti di ricordare! E le cose che hai visto nel Tempio di Karnak, a me paiono molto più fantascientifiche di queste” chiosò Floyd.
“Come fai? Come fai ad accettare certe cose, così alla leggera, sei un fisico!”
“Sono un fisico bestiale!” rispose malizioso.
Ecco! Io parlavo seriamente e lui mi prendeva in giro.
Mi sentivo molto depressa.
“In ogni caso, tecnicamente, non sono un fisico. Sono un biologo, con un master in fisica delle particelle. Cos’è che non ti convince? A noi sembra tutto molto sensato!”
“Non so…a me pare di essere al punto di partenza. E comunque, Robert, tu mi hai tagliato i capelli. Non vivrai a lungo, sappilo!” ridacchiarono entrambi.
“Volevamo estirpare la malattia. Se la malattia fossero stati i tuoi ricordi su quella vita tutto sarebbe scomparso, avresti dormito, avresti forse visto poco o niente, saresti pronta ad imboccare un’altra strada. Invece hai visto un bel po’ di cose, hai visto lui, gli hai parlato. Ti ha dato dei messaggi, ti ha detto di cercarlo, di trovarlo. Ora sai che non è una follia, che è cosciente della tua esistenza, che ti sta cercando, che sei tu a porre degli ostacoli con tutte le tue seghe mentali e che avete cose che vi tengono lontani: volontà opposte, nemici…a me pare un bel po’ di roba!”
“Però era tutto nella mia testa” sospirai.
“Era la tua visione, dove avrebbe dovuto essere?”
Passammo quelle ore a parlare sottovoce, nella semioscurità. Raccontai tutto quello che potevo sulla mia storia, dalla primissima infanzia, alle prime regressioni, fino all’ultima, quasi un anno e mezzo prima.
Man mano che il racconto procedeva e si arricchiva di particolari, intravvedevo nell’ombra l’espressione di Floyd incupirsi, farsi più preoccupata e pensierosa.
Sembrava di malumore.
Aveva in mano la bottiglia vuota della birra e continuava ossessivamente a grattare con l’unghia l’etichetta, strappandola un pezzetto alla volta. Pensai che fosse stanco, lo ero anche io, doveva esserlo anche Robert, che aveva tutti i sensi all’erta, attento al minimo rumore o a qualsiasi cosa potesse sembrare sospetta.
La strada era silenziosa, in quel quartiere residenziale, ma avevo telefonato due volte a casa e non rispondeva nessuno. Di Maggie non c’era traccia e io cominciavo ad essere preoccupata.
Era ormai l’alba quando un’autopattuglia si fermò silenziosamente davanti al cancello. Floyd aveva spento anche la luce in dispensa, rapido come un gatto, non appena l’auto era entrata nella via, facendoci piombare nell’oscurità, Robert osservava nascosto dietro la tenda.
Restammo immobili, trattenendo il fiato pronti a nasconderci se per caso fossero entrati per un’ispezione.
Robert indicò con la testa a Floyd la cucina, dove c’era la porta di servizio, mi fece cenno di andare nella stanza di Maggie e fingere di dormire: a me non avrebbero fatto niente, a parte qualche domanda cui avrei trovato risposte adeguate. Ci eravamo accordati in quelle ore su cosa fare o dire, se necessario.
Loro avrebbero dovuto sparire, invece: le visite di Robert alle patrie galere durante l’ultimo decennio non erano un buon biglietto da visita, Floyd aveva comunque al suo attivo parecchi disordini, per quel che avevo capito e suggeriva quella lunga doppia cicatrice sul braccio sinistro e supponevo non fosse l’unica.
Dall’auto scese Maggie, reggendo la borsa con entrambe le mani, un poliziotto l’accompagnò fino alla porta, attese che aprisse, noi eravamo immobili, non respiravamo nemmeno, nascosti tra le ombre dietro il divano e sotto la scrivania. L’uomo sgusciò nell’ingresso, di sotto, salì senza accendere luci, infilò la testa nella stanza, ridiscese, salutò toccandosi il cappello, disse qualcosa nella radio, tornò all’auto.
Non respirammo finché l’autopattuglia non sparì in fondo alla strada.
Maggie era rimasta al piano di sotto, sicuramente troppo prudente per guardare dalla finestra, ma con le orecchie tese.
Finalmente entrò di corsa e ci gettammo addosso a lei tutti e tre: “È tutto a posto, bambina!” furono le sue prime parole, io crollai sulla poltrona.
“Ragazzi, avete mangiato qualcosa?” Osservò le briciole dei panini: “Qualcosa di serio, intendo”
“Propongo di metterci a tavola tutti e quattro, i tuoi hanno trovato una pizzeria italiana ventiquattrore su ventiquattro e ora saranno a casa a mangiare, ah!”
Prese il telefono, chiamò: “Tutto a posto? Qui tutto tranquillo, nessun problema, un agente gentilissimo mi ha accompagnata fino in casa, buon appetito e buon riposo! Oh, si, davvero, davvero un bruttissimo equivoco, ma si sistemerà tutto!” riattaccò.
Non mi aveva permesso nemmeno un ciao ai miei. I telefoni erano già sotto controllo.
Sentivo Maggie e Robert discutere, in cucina, tra rumore di piatti e padelle, lei insisteva dicendo che non era il momento e avremmo parlato più tardi, con la pancia piena. Diceva che io ero debilitata, che dovevo mangiare, ma era l’ultima cosa che avrei voluto, in quel momento.
Sentii qualcosa avvolgermi e mi resi conto che Floyd si era inginocchiato di fianco alla poltrona, i gomiti sul bracciolo, per abbracciarmi e restai lì, la testa sulla sua spalla, avvolta in quelle ali protettive.
Aveva le braccia forti, i muscoli torniti di chi è cresciuto lavorando, correndo a cavallo, arrampicandosi dappertutto, non andando in palestra. Armoniosi, la pelle vellutata.
Avevo avuto paura, quella notte: una paura quasi atavica che non avevo mai provato prima.
Non ero abituata a sentirmi minacciata dalla folla o dalla polizia, mentre ora, a causa del mio rapporto con loro e soprattutto di un gruppo di ragazzotti di provincia molto idioti e non per finta, mi trovavo nei guai fino alle orecchie. E loro lo erano più di me.
Per ora Maggie e papà erano riusciti a convincere la polizia che si trattava di un brutto equivoco, ma c’erano, secondo loro, troppi punti oscuri e faccende da chiarire. Non era finita. Soprattutto non lo era per quegli esagitati che avevano cercato di assalirci.
“Essere rossi è peggio che essere neri, essere bianchi affratellati con i rossi, è peggio del peggio”.
Forse avrei davvero dovuto sparire e non soltanto per qualche giorno.
Mi sentivo umiliata, mi vergognavo di appartenere a quell’altra razza.
Sporchi, puzzolenti, parassiti, stupratori. Così quegli altri li avevano apostrofati, senza conoscerli, senza averli nemmeno visti da vicino, soltanto perché suonavano i tamburi e cantavano, per il loro (poco) abbigliamento e perché erano dipinti. Tutte cose che per quegli altri erano troppo forti, troppo potenti,  che ancoravano con forza alla Terra, al Fuoco, agli Elementi.
Erano vivi, se anche lo fossero stati per quelle sole due ore, sarebbe stato molto di più di quanto quei bigotti slavati, come Robert li aveva definiti, avrebbero mai potuto essere in tutta una vita.
“Dovrai allontanarti per un po’, non è prudente tornare in quel quartiere” sussurrò Floyd.
Mi aveva ruggito, mi aveva beccato gli occhi, pensai. Forse avrei dovuto essere spaventata, non era un tipo affidabile, dopotutto.
Profumava di bagnoschiuma, di Sweet Grass, di vento sulle praterie.
Li chiamano “sporchi”, li definiscono puzzolenti.
Non è vero. I Nativi non puzzano mai, nemmeno in pieno agosto, dopo una giornata di lavoro in un caldo infernale. Rimangono così, come se la fatica, l’umidità, la polvere o che altro, non li toccassero, scivolassero via.
Sanno di erba tagliata, di vento, di sole, a volte di neve, qualche volta di cuoio o di foglie di tabacco. Sanno di buono.
Quelli che puzzano sono altri, quelli buttati come stracci negli angoli più bui, affogati nel  vomito, così umiliati da non ricordare neppure il proprio nome, da non sapere più parlare, perché non hanno più voce da chissà quanto tempo, che non sanno nemmeno più di esistere.
Non sono loro a puzzare, è l’umiliazione, il dolore acido e amaro cui non si può dare più nemmeno un nome.
Li avevo intravisti, qualche volta, durante viaggi verso i territori Atikamekw, Innu, Algonquini, o verso l’interno. C’erano posti dove si raggruppavano, buttati come stracci sporchi tra i bidoni della spazzatura.
Non li avevo mai visti, perché distoglievo lo sguardo nel timore che, per qualche ragione, alzassero il loro verso di me.
Puzzavano, è vero, come mucchi di spazzatura stantia, e qualche volta ho raccolto una bottiglia vuota, rotolata in mezzo alla strada e l’ho gettata nei cassonetti, inghiottendo qualcosa di duro e feroce che non erano lacrime e non era rabbia, o non solo.

Detesto vederli bere, anche se sono plurilaureati, benestanti, proprietari di terreni, politici, docenti universitari, scrittori, pazzi intellettuali come quelli cui ero così ben abituata.
Ogni volta che li vedo con una bottiglia in mano, anche se è solo una birra, anche se parlano lucidamente, se il passo resta sciolto e sicuro, mi si stringe lo stomaco.
Non ho mai detto nulla per non urtarli, perché, qualsiasi cosa succeda, qualunque sia il rapporto tra noi e loro, resto sempre una bianca, europea, civilizzata e loro restano sempre loro e, in qualche modo, uno strisciante, sordo risentimento, può venire a galla in qualsiasi momento e mi fa paura.
È un equilibrio delicato, quello che si crea, qualcosa che, se si spezza, si spezza per sempre e io non volevo perderli.
Non avevo fiatato nemmeno quella notte, mentre tracannavano birra ed erano normalmente suonati come al solito, un po’ sornioni nel nascondere la preoccupazione per la piega inattesa di quegli eventi. 
La bottiglia vuota di Floyd era rotolata sul tappeto, con l’etichetta minuziosamente strappata un pezzetto alla volta e i frammenti erano altrettanto minuziosamente distribuiti sul tappeto di Maggie. “Hai fatto un casino con quell’etichetta” brontolai con la faccia sulla sua spalla.
“Ripulirò con la lingua, promesso” ridacchiò lui.
Poi Maggie si affacciò per dirci di andare a tavola.

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La notizia del raid della polizia in un’area di terreno boschivo, dove degli indiani erano stati arrestati nel mezzo di una specie di orgia con massiccio uso di allucinogeni e alcolici, assieme alla figlia di un professore bianco, in stato confusionale e nell’atto di prostituirsi con i presenti, si era sparsa immediatamente nella zona, tanto che mamma e papà furono costretti a trasferirsi in una pensione alla periferia opposta della città mentre cercavano un’altra villetta in un altro quartiere.
I ragazzi erano ricercati, e io con loro. Le accuse a mio carico erano consumo e spaccio di droghe pesanti, disturbo alla quiete pubblica, schiamazzi, vandalismo, atti osceni in luogo pubblico e prostituzione.
Non male per una Cerimonia.
C’erano molti dubbi su come si fossero effettivamente svolti i fatti: da una parte papà e Maggie avevano spiegato che si trattava di una Cerimonia di interesse culturale e antropologico, una cosa tradizionale cui la signorina Marabel aveva gentilmente accettato di partecipare, dall’altra testimonianze deliranti dei residenti e la rissa che si era sfiorata, senza contare che due partecipanti a detta cerimonia avevano un abbigliamento moralmente discutibile.
Robert continuava a tenere d’occhio la soffitta della villetta di fronte, Maggie si comportava nel modo più normale del mondo: i nomi degli indiani incriminati non erano stati resi noti e lei era una signora molto per bene, con un nome scozzese, non destava sospetti.
Non aveva grandi rapporti con il vicinato, ma era gentile con tutti, ogni martedì faceva nel forno deliziose pagnottelle che in parte regalava alla chiesa, che però non frequentava, e biscotti alla cannella che distribuiva alle famiglie dei dintorni: nessuno avrebbe puntato il dito contro di lei, semplicemente perché a nessuno veniva in mente che lei potesse entrarci qualcosa, con quei criminali.
Noi, però, dovevamo allontanarci.
Restammo nascosti per due giorni, quasi sempre in cantina, ma ci stava molto stretta e Floyd, più di tutti, iniziava a soffrire la clausura.
Impazziva a stare rinchiuso, sembrava una belva in gabbia: continuava a correre su e giù, dalla cantina al piano superiore della casa, tornare sotto, tornare su, faceva addominali e flessioni fino a sfiancarsi, allora si buttava sotto la doccia. Poi acchiappava una birra gelata, la scolava in meno di un minuto e si addormentava, al che Robert sospirava alzando gli occhi al cielo e ringraziava gli Spiriti per averlo finalmente reso inoffensivo.
Se potevamo rimanevamo in casa, ovviamente, ma, appena si avvicinava qualcuno, ci rifugiavamo in cantina.
Di uscire in giardino, naturalmente, non se ne parlava e Floyd stava dando di matto.
Il problema era svignarsela senza dare nell’occhio: io potevo travestirmi da Maggie, la sera o la mattina presto, avendo cura di camminare rapidamente e a testa bassa, magari con un foulard o un cappello, uscire e sparire tranquillamente e lei sarebbe poi tornata a casa con lo stesso abito e pettinatura, ma due maschietti prossimi al metro e novanta, decisamente prestanti ed atletici non erano facilmente mimetizzabili.

La terza sera Maggie uscì a cena, in auto.
Si avviò tranquilla verso il centro, lasciò la macchina nel parcheggio privato di un ristorante greco (andava matta per il Tzatziki), e raggiunse alcuni amici all’interno del locale.
Pochi minuti dopo, un furgone molto anonimo e un po’ ammaccato parcheggiò proprio dietro l’utilitaria verde, ne scesero due uomini, aprirono il portellone, scaricarono alcune casse di bottiglie.
Uno rimase appoggiato alla fiancata, a guardia del mezzo, l’altro entrò nelle cucine e mollò la prima cassa, tornò con uno dei camerieri e portarono dentro le altre.
Due minuti circa. Saluti, risalirono sul furgone, che ripartì in tutta tranquillità e scomparve nel traffico.
Poco dopo lo stesso furgone entrava in un quartiere popolare, si infilava in un vicolo piuttosto buio, facendo scappare un paio di gatti randagi,  si fermava un minuto, non di più, usciva lentamente dall’altro capo del vicolo.
Se qualcuno avesse osservato con una certa attenzione, avrebbe notato che la targa era piuttosto sporca di fango secco, ma, a parte questo, non c’era nulla di sospetto.
Un po’ più strano, invece, fu, un paio di minuti dopo, veder uscire dallo stesso vicolo un Cherokee Chief nero, piuttosto infangato anche lui, soprattutto la targa e questa era la cosa che più stonava, perché quell’auto di lusso, non solo era molto fuori posto in quel quartiere, ma, sotto gli schizzi di fanghiglia che sembravano quasi distribuiti ad arte su fiancata e parafanghi (e targa), aveva una verniciatura lucidissima, senza un graffio, pneumatici nuovi di zecca, parafanghi cromati, vetri oscurati che sembravano appena usciti da un’officina.
A parte quello, era soltanto una grossa auto nera che usciva da un vicolo buio, come ce ne sono tanti in ogni parte del mondo.
Il Cherokee si diresse  verso la periferia e poi puntò a Nord, verso l’autostrada.
All’interno si intravedeva una coppia: un uomo alto e massiccio, tra i trenta e i quarant’anni, un bel viso dalla pelle piuttosto segnata da vecchie cicatrici, forse risalenti all’adolescenza, occhi scuri e penetranti dal taglio allungato, pelle piuttosto scura.
Aveva in tutto e per tutto l’aspetto dello stereotipo del Mohawk, a parte che, anziché la cresta, aveva una lunga treccia nera che gli scendeva fino alla cintura di cuoio, mirabilmente incisa a fuoco la cui fibbia d’argento rappresentava una tartaruga stilizzata. Portava un cappello nero a falda larga, camicia antracite su cui spiccava una cravatta bolo con un fermaglio di Turchese, un orologio d’oro.
Era decisamente molto Mohawk.
La donna accanto a lui sembrava più minuta di quanto in realtà non fosse, forse perché se ne stava raggomitolata contro il sedile, aveva capelli biondo scuro con una permanente quasi passata e indossava un vestito di due taglie troppo grande, tanto che sembrava avesse il vestito della nonna.
“Posso uscire?” chiese il sedile posteriore con una voce sofferente: “Grunf!” rispose il Mohawk.
“Credo voglia dire no” tradusse la donna.
“Pietà, ho male a parti di me che non avrei immaginato di possedere!” implorò il sedile.
“Ufgrnbll”
“Dice dopo” ritradusse la donna.
Intanto, in città, Maggie salutava gli amici al ristorante, si avviava alla macchina e, chissà perché, raggiungeva il posto di guida passando dietro l’auto e dando con noncuranza un colpetto secco alla portiera del bagagliaio.
Era notte ormai quando il Cherokee lasciò il Massachusetts per entrare nel New Hampshire e si fermò a far benzina. Il Mohawk ne approfittò per pulire la targa e dare una lustratina alla macchina: “Non dovrebbero averci visti, ma nel caso manteniamo l’anonimato…” bofonchiò.
La portiera posteriore si aprì lentamente e ne scivolò fuori, a quattro zampe, un ragazzo molto stropicciato, in jeans e camicia, capelli nero lucido quasi corti, in quel momento per lo più appiccicati alla faccia sudata.
“Stavo per morire!” gemette sedendo a terra, distendendo le lunghe gambe e gemendo penosamente.
La donna corse verso il bar sempre aperto e tornò con aranciata e un sacchetto da cui estrasse un grosso panino che non fece in tempo a mettergli in mano, che era già a metà. “Ma ti ingozzi!” protestò.
Lui emise dei rantoli, appoggiato alla carrozzeria con gli occhi chiusi: “Fatto non fui per viver come bruto o topo di fogna!” declamò.
Il Mohawk scosse la testa: “Ehi, poeta, sgranchisciti che poi ripartiamo!”
“Ho male ovunque!”
Non avevo dubbi: era rimasto accartocciato una buona mezz’ora nel bagagliaio di un’utilitaria dove sarebbe stato scomodo un bambino di dieci anni, poi un altro po’ sotto i pianali di un furgone e ora schiacciato sotto i sedili posteriori di un gippone per un’altra ora buona. “Quanto sei alto?” domandai seduta per terra lì vicino: “Non so, prima uno e ottantacinque, ora penso un metro e trenta” sospirò.
“Howard, non deve stare sotto il sedile per tutto il viaggio, no? Ora può uscire?”
“Uhmmmm”
“Ma abbiamo passato il confine!” l’altro si calcò di più il cappello sulla testa e annuì con una scrollatina di spalle.
Floyd mi prese le mani e le baciò: “Donna, mi stai salvando la vita! Sarò tuo schiavo per sempre!”
L’auto procedeva a velocità sostenuta, ma regolare, rispettando rigorosamente i limiti di velocità, così da evitare qualsiasi controllo e presto entrammo nel Maine.
“Come facciamo a passare il confine?” chiese la voce da oltretomba di Floyd da un punto nel buio alle nostre spalle: “Io con i miei documenti”
“Ok, e noi?”
“Voi non passate il confine” rispose il gigante Irochese.
Lo guardai stupitissima: “No? Non ci porti a Khanawake?” lui scrollò nuovamente le spalle: “Ho l’ordine di mollarvi in un cottage a una trentina di chilometri dal confine, un po’ nell’interno. Un posto sicuro, di proprietà del vecchio Jack. Ci va a pescare branzini, ma lui è convinto siano salmoni.
Maggie vi raggiungerà domani o dopo”
“Robert?” chiese Floyd: “Dovrebbe essere in viaggio per il territorio Assiniboine o dintorni…non lontano, comunque.” Lanciò un’occhiata nello specchietto: “Pensa che viaggiava arrotolato in un tappeto e non lamentarti! Ed è pure allergico agli acari, ora che ci penso” rifletté.

Ero felice di lasciarmi quella brutta storia alle spalle: dopo giorni mi sentivo quasi rilassata, leggermente euforica. Estrassi un panino dal sacchetto della stazione di servizio, ne offrii metà a Floyd che aveva ancora fame, naturalmente. “Ragazzi, se mi riempite la macchina di briciole vi riduco in puzzle dai pezzi ancora più minuscoli delle briciole!”
“Ma abbiamo fame!” esclamammo in coro. “Lì nel cruscotto ci sono tovagliette, o qualcosa…” aprii il cruscotto e, sopra alcune tovagliette ben piegate, vidi un lungo coltello da caccia dal manico di corno meravigliosamente intagliato, la lama di almeno venti centimetri infilata in una guaina di cuoio altrettanto decorata a fuoco e una pistola molto meno elegante e molto più prosaicamente minacciosa.
“Che fai se ti fermano?” domandai.
“Non mi fermano” tagliò corto.
Parlammo poco, durante il viaggio.
Ogni tanto sentivo Floyd stiracchiarsi alle mie spalle, infilare le gambe fin sotto il mio sedile e dare dei calcetti infastiditi. Howard accese l’autoradio su una stazione che in quel momento trasmetteva musica di Buffy st Marie e poco dopo cantavamo a squarciagola tutti e tre Starwalker e Qu'appelle Valley Saskatchewan, cui Floyd  aggiungeva come arrangiamento grida di guerra da spaccare i timpani.
In mattinata infilammo una strada sterrata e, dopo qualche chilometro, apparve il cottage del vecchio Mi’kmaq.
Era immerso in una pineta, un torrente scorreva una ventina di metri più in là, attraversato da un ponticello di legno e costeggiato da un sentiero che spariva nel folto del bosco.
Floyd e io eravamo estasiati: era il miglior nascondiglio che si sarebbe mai potuto immaginare, soprattutto dopo tre giorni tra la villetta di Maggie e la cantina della medesima.
Floyd espresse la sua felicità schizzando fuori dal Cherokee con un urlo selvaggio e inscenando una folle danza sciamanica, sempre più rapida e ossessiva.
Howard dissimulava un sorrisetto compiaciuto, il vecchio Jack contemplava la scena sulla porta del cottage, appoggiato ad un bastone che, più che lo strumento di un vecchio, mi ricordava quello di Mago Merlino.
Scaricate le nostre poche cose, Jack ci mostrò le nostre stanze. Lui dormiva al piano di sotto, dove c’era un’ampia stanza di soggiorno, la cucina, un bagno e una dispensa, noi sopra, in due stanze piccole quasi dirimpetto e dove, di fianco, tra la mia camera e quella di Maggie, c’era un altro bagno.
“Questo è il bagno delle ragazze, tu userai quello di sotto” intimò severamente il vecchio a Floyd. “A meno di qualche urgenza in contemporanea” disse come ripensandoci.
Ci sistemammo e scendemmo in cucina, dove il vecchio aveva preparato uova e bacon degne di un perfetto maggiordomo inglese e Howard era già a tavola che spalmava burro salato su pane fritto.
Più tardi ci salutò e il Cherokee si allontanò agilmente sullo sterrato, felice di poter correre su strade per cui era stato costruito, invece che sull’autostrada.
Mi sentivo colpevolmente felice: ero lì a causa di un disastro, mi nascondevo in parte dalla polizia di due stati più a Sud, in gran parte da un branco di folli esagitati decisi ad un nuovo olocausto di Nativi e di chi fosse loro legato.
Papà, che avevo visto la sera prima, dopo aver lasciato la casa di Maggie travestita, mi aveva detto che casa nostra era piantonata da membri di un gruppo razzista specializzato in raid contro le popolazioni Indigene, che avevano gettato secchiate di vernice rossa contro la casa, scritto parolacce verso di me, e la versione ufficiale era che mi ero sbattuta praticamente tutta la popolazione di indiani della costa Est.
Lasciata la casa avrebbero dovuto pagare una penale al proprietario per non aver rispettato il contratto d’affitto e per i danni, naturalmente.
Per ora, nella pensioncina dove alloggiavano, stavano bene.
Una parte di me era sconvolta da tutta quella situazione, ma lì, ora, non riuscivo a non essere felice.
Forse per il conflitto, forse per la stanchezza di quegli ultimi giorni, mi scoppiò un mal di testa improvviso e terrificante, ma in casa non c’era nulla che potesse servirmi per il dolore.
Jack mi fece sdraiare, accese del cedro, sedette al centro della camera e prese a cantilenare un canto sommesso, accompagnandosi con un sonaglio.
Mi lasciai cullare finché mi addormentai.

Sognai incendi, polizia, gente incappucciata che ci inseguiva, spari, Nativi che danzavano in abiti tradizionali e venivano improvvisamente circondati da quei folli. Avevano fucili, torce, gettavano verso di loro benzina in cui lanciavano le torce, cercavano di prenderli al lazo mentre bruciavano, ridendo e incitandosi gli uni con gli altri.
Gridavo, cercavo di gettarmi addosso a loro per fermarli, di disarmarli, la polizia sembrava indifferente, sparavano a casaccio, più verso di noi che verso gli assassini.
Alzai gli occhi. In mezzo a tutto quell’orrore, un uomo vestito di una lunga tunica nera, dalla foggia sconosciuta mi fissava immobile, il viso elegante rigato di lacrime. Tutto si muoveva al rallentatore intorno a noi, come distante, come fossimo lì, ma non fossimo lì. Il viso non era proprio un viso, ma una maschera d’oro dallo sguardo immoto, su cui scorrevano fiumi di lacrime.

Mi svegliai di soprassalto, mi guardai attorno. Appoggiato allo stipite, Floyd mi osservava in silenzio.
“Da quanto sei lì?” chiesi ancora scossa: “Un pochino” rispose.
Si avvicinò e sedette sul bordo del letto: “Ha chiamato tuo padre. Forse hanno trovato casa, se va tutto liscio, in un quartiere fuori Boston, zona Nord, non lontano da Maggie. Però hanno incendiato l’auto di tua mamma. La polizia sembra stia accettando la versione dei tuoi sull’accaduto, ma siamo spariti e per questo siamo ricercati. Tuo padre ha spiegato che ci siamo allontanati per sicurezza e, visti gli sviluppi, gli sbirri non hanno avuto difficoltà a crederci.”
“Ah.”
Sorrise: “Che reazione sconvolgente!” commentò.
“Non doveva andare così!” dissi con la voce incrinata: “Era soltanto una Cerimonia, noi cinque, non davamo fastidio a nessuno!”
“Già” commentò lui: “Sai, il terreno su cui è stato creato il cerchio è proprietà di un conoscente di Maggie. Teoricamente quei balordi stavano commettendo un reato, non noi. Figo, vero? Ora la faccenda è venuta fuori, il proprietario del terreno ha sporto denuncia sia contro quelli che sono entrati nella proprietà, sia contro la polizia, ma a loro non faranno niente, né multe, né condanne di alcun genere.” Sospirò: “L’ho già visto questo film…”
Ero puntellata su un gomito, mi lasciai cadere sul cuscino: il mal di testa era aumentato.
Floyd mi passò lentamente la mano davanti agli occhi, due, tre volte, poi le posò entrambe sulle mie tempie. Erano grandi, ma snelle ed eleganti, nonostante avesse sempre lavorato, leggere come ali di farfalla.
Con gli occhi chiusi gli sentii fare dei movimenti, sfiorandomi appena, per un po’, poi infilò indice e medio dietro la nuca puntandoli ai due lati del cervelletto.
Sentii una scarica di qualcosa di fluido, poi un formicolio che saliva su, attraversava la testa e andava a finire sulle sopracciglia. Piacevole, una specie di solletico tiepido e liquido, che sembrava sciogliere duri nodi di dolore e trasformarli in fumo che evaporava senza lasciare traccia.
Mi lasciavo cullare da quelle sensazioni. Con la mano libera mi sfiorava la fronte e i capelli, era così piacevole…ed ebbi un flash: io facevo esattamente la stessa cosa, tanto, tanto tempo prima.
Compivo quegli stessi gesti, accompagnandoli con preghiere diverse, muovendo le stesse energie.
Dovetti sobbalzare per lo stupore, la mano di Floyd si posò piatta sulla mia fronte: “Sssssttt…non pensare, per un po’, se ti riesce.” sussurrò chinandosi al mio orecchio. C’era un tono divertito, come avesse sentito chiaramente i miei pensieri. In quella vicinanza, nel sussurro così vicino alla mia faccia, sentii odore di  bucato, di shampoo, di resina: doveva essere uscito mentre dormivo e non aveva resistito alla tentazione di arrampicarsi su qualche albero.
E mi accorsi, come mi avesse colpita un fulmine, che mi piaceva, mi piaceva da impazzire, come non mi era mai capitato prima!
I pochi ragazzi con cui avevo imbastito delle storie, in passato, mi ero imposta di farmeli piacere, perché piacevo loro, perché volevo che fosse così, perché volevo la normalità. Sapevo che non erano chi cercavo, sapevo di non avere niente a che fare con loro, ma volevo che mi piacessero e volevo piacere.
Avevo finito per provare dei sentimenti più forti di quanto avrei voluto, quasi costringendoli a crescere e manifestarsi, trovandomi sempre, puntualmente, mollata, cornificata, rifiutata, mentre ero io, alla fine, a rincorrere loro, chiedendomi perché di quel voltafaccia, che cosa avessi di sbagliato, perché non potessi avere delle storie normali, con persone normali.
C’erano oceani di spiegazioni, a dire il vero, per questo.
Potevo fingere finché volevo, potevo convincermi che andava tutto bene, che ero finalmente pronta per una vita normale, ma sapevamo tutti, la vita, io, qualche forza onnisciente al di là di me, che non li amavo, che non li avrei mai, per davvero, amati, che per stare con loro, in quella gabbia di normalità, avrei ucciso me stessa.
Ora era diverso: provavo una spinta genuina, incantata, incredula e potente verso quel ragazzo magico.
Anche quella volta percepì i miei pensieri o le mie emozioni, perché lo sentii irrigidirsi leggermente. Deglutì, sembrava turbato, poi lasciò scivolare via le mani e mi toccò leggermente le spalle: “Resta qui ancora un po’, ti chiamo io”
Uscì tanto silenzioso, che mi venne da chiedermi se non avessi sognato.
Tornò forse mezz’ora dopo, ma finsi di dormire. Lo sentii trattenere un attimo il fiato, imbarazzato, poi si accovacciò di fianco al letto e mi chiamò sottovoce, sfiorandomi la guancia con un dito.
“Vuoi mangiare qualcosa? C’è pane e formaggio, non abbiamo preparato un pranzo, vista l’ora in cui abbiamo fatto colazione. E ci sono mele cotte, se vuoi, con la cannella e il cioccolato.
Sedetti e gettai le gambe oltre il letto: questo era assolutamente terapeutico.
Più tardi lui spaccò la legna, ormai eravamo prossimi all’autunno e l’aria del Canada portava odore di pioggia e foglie bagnate. Io la accatastai per benino, riuscendo perfino a creare dei disegni alternando ceppi di colore diverso nella catasta, poi si mise a rovistare finché trovò una grande fetta di un vecchio ceppo, ci disegnò un cerchio rosso, uno bianco, un altro rosso, e lo inchiodò alla porta di quello che avrebbe dovuto essere il fienile. Aveva recuperato un vecchio arco ancora in buono stato e si mise a tirare frecce sghembe che spesso non avevano abbastanza punta per conficcarsi nel bersaglio.
Il vecchio e io lo osservavamo divertiti.
“Donna, renditi utile!” mi intimò, stufo di quegli arnesi, prese dei legnetti, un coltello a serramanico e mi mostrò come affilarle e come intagliare la cocca e  l’intaglio per l’impennaggio.
Abituata ad aver a che fare con reperti e popoli antichi, non mi pareva vero di passare da osservatrice e sperimentatrice, così mi impegnai cercando ricordi di tutte le frecce che avevo visto, osservato o tenuto tra le mani, dal neolitico ad ventesimo secolo.
Scoltellavo quei legnetti con tale impegno, con la punta della lingua tra le labbra nella concentrazione, da far ridere i miei compagni, tanto che, dopo un po’, riuscii a produrre frecce che mi parvero piccole opere d’arte. Non lo erano, naturalmente, ma ne ero assolutamente orgogliosa.
Floyd infilò l’impennaggio (fatto con pezzetti di corteccia di betulla) e dopo un po’ riuscì a dar loro una direzione dignitosa. Era bravo.
Era ormai quasi il tramonto quando decise che ero pronta per il passo successivo. Mi sollevò per la vita, mi fece ruotare a mezz’aria e mi sistemò davanti a sé, infilandomi l’arco in mano e guidando i miei movimenti.
Dopo alcuni tentativi in cui le frecce cadevano miseramente ad un metro da me, riuscii a tirarne alcune, che però non colpirono il bersaglio nemmeno di striscio.
“Non preoccuparti, non hanno una buona stabilità, sono troppo leggere e anche la corda dell’arco è troppo rigida. Non potresti fare di meglio”
Lui, però, faceva molto meglio. D’altra parte, aveva iniziato a tirare con l’arco prima che a camminare.

L’indomani andammo in esplorazione: il sentiero che fiancheggiava il torrente si biforcava portando da una parte ad uno dei tanti laghi della regione, dall’altra nel folto della pineta, fino ad un altro fiumiciattolo che creava, tra gli alberi e le rocce, salti, anse, piccole rapide e un paio di vasche naturali di acqua più profonda e limpida.
Il ragazzo del Montana si levò scarponcini, jeans e camicia e si tuffò.
Emerse ridendo con un ululato: “Vieni, non è fredda!”
Gli risposi qualcosa come fossi scema, e mi guardai bene dall’imitarlo.
A dire il vero, c’era una radura attorno all’acqua, dove il sole batteva per molte ore scaldando la polla, ma non avevo intenzione di buttar mici ugualmente.
Lui nuotò un po’, mi schizzò tentando di convincermi, poi uscì rassegnato buttandosi sulle rocce ancora al sole, in mutande.
Non provava imbarazzo, viveva la sua naturalità con l’innocenza di un bambino, mentre io continuavo a distogliere gli occhi da quel corpo splendido.
Forse se ne accorse, perché, appena si sentì asciutto, acchiappò i jeans, sfilò l’intimo ancora bagnato, e rapidissimo se li infilò.
“Domani ti butto dentro!” mi minacciò.
L’indomani non tornammo, però, perché dopo mezzogiorno arrivò Maggie con abiti, provviste, notizie, documenti e perfino un piccolo televisore portatile, poiché quello vecchio del cottage, in bianco e nero, era definitivamente passato a miglior vita.
Robert era al sicuro, mamma e papà avevano lasciato la vecchia casa e ora stavano trattando per la nuova.
Ora che Maggie era partita, avevano lasciato la pensione e si erano trasferiti a casa sua, assieme ai gatti che non sopportavano di restare chiusi in un’unica stanza.
Io, per il vecchio quartiere e limitrofi, risultavo la più grande delle mignotte, ora c’erano ragazzi che giuravano che li avessi importunati e molestati in ogni modo e ragazze che mi avevano praticamente strappata da dosso a fratelli e fidanzati, mentre il commento più frequente era che la mia era sicuramente una malattia.
Da una parte l’assurdità della faccenda era quasi divertente, dall’altra mi feriva profondamente.
“Non te la prendere, lo sai come sono!” esclamò Floyd.
Tutta quella storia diventava sempre più mostruosamente grottesca.
La sera, dopo cena, in televisione davano il cartone di Robin Hood e Floyd, che aveva mostrato a Maggie i miei progressi di arciera, mi piazzò davanti allo schermo costringendomi a guardarlo. Non gli dissi che era il mio preferito, fingendo di guardarlo sotto costrizione.
Solo il giorno dopo tornammo alle polle.
C’era il sole, ancora stranamente caldo, e l’acqua, effettivamente, non era fredda. Floyd si tuffò, io esitavo: non mi andava di tuffarmi con la biancheria intima, mi vergognavo e poi non sarebbe mai asciugata!
Alla fine la voglia di nuotare là dentro ebbe la meglio e mi tuffai con canottiera e mutandine.
Non avevo considerato che, una volta bagnata, sarebbe stato come non averla, ma Floyd non diede alcun segno di essersene accorto: come gli era naturale buttarsi senza pensare alla presenza o assenza di vestiti su di sé, lo stesso valeva per gli altri e io riuscii a dimenticare la mia educazione e a non sentirmi in imbarazzo.
Giocammo ad immergerci e a spruzzarci finché non iniziai a sentire freddo, così uscimmo entrambi e ci sdraiammo su una roccia calda, sotto il sole quasi a picco. Era pomeriggio, il calore avrebbe cominciato a scemare di lì a forse un’ora e mezza, ma avevamo il tempo di asciugare e prendere calore dalla pietra sotto di noi.
Il corpo slanciato, atletico, del tutto privo di qualsiasi difetto del mio compagno di nuotata, emanava un tepore pericolosamente gradevole, accompagnato da un magnetismo, da sensualità inconsapevole ed innocente che toglieva il fiato.
Dopo un po’ mi spostai sull’erba sostenendo che la roccia era dura, lui si rivoltò a pancia in giù e rimase là a fare la lucertola.
La mia biancheria era ancora parecchio umida, non sarebbe sicuramente asciugata prima che il sole se ne andasse: avrei dovuto togliermela e vestirmi della roba asciutta, ma non osavo e ancor meno avrei avuto il coraggio di nascondermi per cambiarmi.
Riflettevo sul mio imbarazzo, quando lo sentii lasciarsi cadere di fianco a me: “Hai ragione, la pietra è dura” bofonchiò.
Osservai i capelli che gli sfioravano gli zigomi, ancora umidi e arricciati sulle punte: “Perché li hai tagliati?”
Fece mezza spalluccia: “Yale. Storcono meno il naso, già non erano contentissimi che fossi lì e per di più con una borsa di studio. Mi erano ricresciuti un bel po’ dopo il liceo. Mio nonno dice che mi disereda se lo faccio di nuovo”
“Li avevi tagliati anche prima?” annuì guardando in basso, come si vergognasse.
“Se te lo dico mi prendi in giro”
“Non lo farò, promesso!”
Mi guardò dubbioso: “Quella è bagnata, non puoi tenerla! Toglila, dai, la stendiamo al sole”
“Non posso!” esclamai scandalizzata: “Perché no? Non fa così caldo e quella roba umidiccia…” sorrise, sornione: “Dì, non crederai che se te la togli si vedrà qualcosa più di adesso, eh?”
Abbassai gli occhi: la maglietta era praticamente trasparente. Sospirai e la sfilai via con un gesto, nascondendomi con le braccia e raggomitolandomi contro le ginocchia.
Lui la appese ad un ramo, avendo cura che ci battesse il sole.
“Ora sputa il rospo” intimai dalla mia posizione a uovo.
Gli scappava da ridere: ero stata in acqua con lui per un’ora, mi ero sdraiata al sole senza rendermi conto che la maglia era del tutto inutile e ora mi raggomitolavo per nascondermi.
“Beh, ecco…” iniziò: “Io…facevo…mi era stato proposto di” deglutì, avvampando: “fare sfilate. Di moda.”
Lo guardai interrogativa: “…e?”
“E le ho fatte, ecco!”
“Non è illegale” risposi. Non so se fossi più scema io a vergognarmi di stare senza maglia o lui di fare l’indossatore.
“Dopo il processo mio padre voleva restituire tutti i soldi. Il Consiglio Tribale disse che eravamo una famiglia e quelli che li avevano raccolti non li rivolevano indietro, ma non era giusto e così ogni mese mandava una parte del guadagno alla Riserva, se poteva con un minimo di interesse. Lavoravamo tutti, perfino Bianca aiutava facendo lavoretti per i vicini, ma non avevamo mai molto.
Mio fratello voleva tornare alla Riserva a sposarsi, volevano che io continuassi a studiare e andassi al college, e così si era sempre alle strette, perché venivamo pagati meno degli altri di altre razze.
Così, quando me lo proposero e mi dissero quanto avrei potuto guadagnare non mi parve vero, però dovevo tagliare i capelli corti, stile marine, a spazzola. Dovevano notarsi le mie origini, ma solo fino ad un certo punto, l’indiano nell’esercito, nei marines, fa un effetto migliore del selvaggio. Avevo una treccia più lunga di quella di Howard”
“E TU TI SEI TAGLIATO UN METRO DI CAPELLI PER QUEGLI SNOB????” strillai.
“Te l’ho detto che non ti sarebbe piaciuto…” bofonchiò. “Comunque, si. Mio padre ci rimase malissimo, mia sorella non mi rivolse la parola per tre giorni, mamma ci pianse. Io mi sentivo un idiota, mi vergognavo ad uscire di casa. Però la gente mi guardava di meno, con più indifferenza, non si scostavano quando passavo.
Ero sempre lo stesso, eppure per loro ero diverso, molto diverso.
Poi ci fu la prima sfilata, terribile! Mi dissero che dovevo fare trenta passi e poi tornare indietro, sennò sarei finito di sotto. A me pareva una stupidaggine, in fondo basta guardare dove si mettono i piedi, ma lì era un’altra cosa: è buio tutto intorno, e tu hai un sacco di luci puntate addosso, ogni volta che esci in passerella torni mezzo accecato e non vedi niente al di là di quel nastro grigio su cui cammini! 
Contavo cercando di camminare dritto e disinvolto, ma ero terrorizzato. Il tipo che ci faceva cambiare continuava a strillarmi che sembravo un pinguino inamidato, ma quella sera, dopo due ore di quella tortura, tornai a casa con cinquecento dollari e degli abiti di campionario, roba che costava una fortuna.
Ci presi gusto: non mi piaceva, ma in poco tempo riuscii a saldare tutti i debiti residui e poi…la gente mi guardava in modo del tutto diverso! Non ero più Floyd l’indiano pezzente, ma Archangel, il modello e, improvvisamente, ero sommerso di ragazze che sospiravano e si gettavano letteralmente ai miei piedi.
Era come vivere in un altro mondo, non riuscivo nemmeno a rendermi conto di quello che mi succedeva, sballottato tra fotografi, stilisti, ragazze che mi si appiccicavano come calamite e litigavano per avermi, per poter uscire con me, per…per mettermi le mani addosso!
I miei non erano contenti: di colpo avevamo abbondanza, ma io ero cambiato, non c’ero quasi mai e trascuravo gli studi, la gente telefonava chiedendo di Archangel, e se i miei mi chiamavano Floyd li trattavano da poveracci.
Durò qualche mese, così.
Ero molto stanco, disorientato, ma galleggiavo tra luci e facce sorridenti, stordito dal lusso e dal denaro. Mi sentivo vincente, mi sembrava che quel successo riscattasse in qualche modo tutta la mia gente.
Poi, un giorno uscii dall’aula per prendere qualcosa nel mio armadietto e così ascoltai una conversazione tra alcune ragazze. C’erano i bagni, lì vicino, e loro avevano lasciato la porta semiaperta, chiacchieravano appoggiate ai lavandini. Sentii fare il mio nome e mi fermai ad ascoltare. Una diceva che l’avevo invitata per il ballo di fine anno, al quale mancavano ancora tre mesi, e un’amica le chiese se pensasse di accettare.
Io drizzai le orecchie e quella fece: “Ma sei scema? Se mi presento con quel selvaggio, mio padre mi butta fuori di casa, non ci penso neppure! E poi, dai, che figura ci farei? Io con quell’indiano zoticone?” ero raggelato, non riuscivo nemmeno a respirare. E l’amica: “Beh, perché ci esci?” c’era un’altra, con loro, la conoscevo bene, una che mi era saltata addosso tempo prima: “Perché è un gran pezzo di manzo!” fece ridendo.
Ridacchiarono tutte insieme. “È instancabile, puoi montarlo quanto vuoi e resiste sempre!” disse la prima: “Appunto, una bestia da monta e basta, non certo uno da portarti in giro!” ridevano.
Ero la loro puttana!
Non tornai in classe, corsi a casa e mi chiusi nella mia camera, non volevo vedere nessuno. Mio padre telefonò a scuola dicendo che mi ero sentito poco bene, che ero allergico ad un farmaco che avevo preso, o qualcosa del genere”

Lo ascoltavo immobile, mi sentivo come se mi avessero colato del ghiaccio dalla testa in giù. “E che hai fatto?”
“Niente. Sono rinsavito. Pensavo di piacere alle ragazze, alla gente, di essermi levato di dosso i panni dello sporco selvaggio ignorante, pensavo di essere una persona di successo. Pensavo un sacco di sciocchezze.
Continuai a fare l’Arcangelo delle passerelle, ma mi gettai a capofitto nello studio: avevo un po’ di cose da recuperare. Lavoro e studio, niente altro. Ero diventato anche più selettivo, non accettavo più di due sfilate alla settimana e solo in città. Mi diplomai quell’anno, con il massimo dei voti.
Il giorno dei diplomi c’erano quelle ragazze, un paio di loro si diplomarono con me, ma con voti molto più bassi dei miei, tutti i diplomandi avevano voti più bassi dei miei, avevo avuto anche una menzione di merito e loro mi guardavano stupite, incredule: non si erano mai accorte che io avessi anche un cervello! Avevano diversi corsi con me, e non si erano mai accorte dei miei voti, erano…erano convinte che non fossi in grado di mettere insieme due concetti, capisci? Eppure io ero lì, davanti a loro, tutti i giorni, da anni!
Quel giorno si che i miei, là seduti in mezzo alle famiglie, facevano un figurone con abiti tradizionali, i loro capelli e le loro acconciature! Bianca aveva l’abito che portava nei pow wow, durante l’estate, solo privo di tutti i sonagli e con le lunghe trecce adorne di nastri e perle di Turchese.
C’era mio fratello, la sua fidanzata, un paio di zii. Erano bellissimi, là in mezzo a quella folla di gente tirata a lucido, che li guardava con sorpresa e disprezzo e io ero così fiero di loro, di tutti loro, di appartenere alla Prima Nazione.
Ho fatto sfilate ancora un po’, poi ho iniziato il College, a casa, e ho lasciato perdere: ormai non avevamo più debiti, eravamo tornati alla Riserva, mio fratello ha potuto sposarsi, era tutto a posto e io avevo bisogno della mia terra e della mia gente.
Andai da mio nonno e gli dissi che volevo imparare a leggere negli altri, cosa che non avevo mai voluto fare: non volevo più scoprire che, dietro un bel sorriso, facce affabili che ti si mostravano amiche, c’era solo interesse, menzogna, ipocrisia, disprezzo. Non volevo più essere il manzo di nessuno.
Così lui mi aiutò ad imparare quello che, secondo lui, sapevo fare da sempre, ma avevo dimenticato.
Poi, ho questa personalità da cittadino modaiolo, la indosso quando serve: scimmiotto quelli che mi disprezzano, senza che nemmeno se ne accorgano, prendo i loro gesti, le loro ossessioni, le loro manie e li trasformo in un mio gioco. E loro non vedono, non se ne accorgono. Io sopravvivo nell’imitarli nel loro mondo vuoto e non permetto loro di raggiungermi nel mio in alcun modo.”

Ero sempre raggomitolata tra gambe e braccia, ma non ricordavo più esattamente perché: “Sei davvero uno stregone, Floyd Archangel!” dissi: “E sei anche molto, molto perfidamente bugiardo…”
Lui mi guardò stupito: “No, io? Che ho fatto?”
“Si…tu…mi hai…mentito!” era molto confuso, non capiva di che parlassi: “Ma no, quando? Perché?”
“Tu mi hai detto di non esserti mai mosso dal tuo posto durante la Cerimonia, e di non aver mai danzato, ma mentivi! Ammettilo, hai danzato e volevi mangiarmi!”
Scoppiò a ridere: “Ma dai, non è vero! Perché non ci credi?”
“Perché ti ho visto quando sei sceso dal Cherokee, l’altro giorno! Ti sei messo a danzare come un pazzo scatenato esattamente come la sera della Cerimonia! A parte le penne e le pitture, danzavi uguuaaale, uguaale! Ti ho scoperto, confessa, marrano!”
Lui rideva in quel suo modo caratteristico, strizzando gli occhi e gettando indietro la testa. “Ti farò confessare!” dissi e gli diedi una ditata nel fianco…scoprendo che soffriva il solletico.
Lo guardai trionfante, un ghigno satanico mi si disegnava sulla faccia e lui deglutì, indietreggiando, con le mani avanti: “No, no, no, no! Non puoi, non farlo…no, non è valido…” mi gettai su di lui, completamente dimentica del mio problemino di vestiti e iniziai a fargli il solletico da tutte le parti.
Lui rideva come un disperato, le lacrime che gli rigavano le guance, cercava di nascondersi, ma non confessava: “Parla, o ti torturerò fino alla morte! Ti farò morire dalle risate!” lo minacciavo. “Pietà! No! Non ho fatto niente, giuro!”
“Dillo che hai tentato di mangiarmi!”
“NO!” cominciava a mostrare segni di convulsioni, forse ebbi un attimo di pietà e mi ritrassi un poco, quel tanto che gli bastò per liberarsi, voltarsi e acchiapparmi i polsi, bloccandoli dietro la schiena.
“MOSTRO!” strillai, offesissima.
Lui prese fiato, ora rideva di me, non più per il solletico. Mi rovesciò e sentii il suo ventre piatto e caldo contro di me. Cavoli, ero svestita!
Sentivo il suo respiro un po’ affannoso per il gioco, aveva ancora le lacrime che brillavano sulle ciglia, il cuore batteva forte contro di me. Però era strano…anche se aveva riso quasi a soffocare fino ad un minuto prima, non avrebbe dovuto battere così forte, no?
Forse lo guardai un po’ sorpresa, perché se ne accorse, come al solito.
Forse sentì il mio pensiero, come al solito.
Mi mollò un polso per asciugarsi gli occhi, tenne fermo l’altro. Avrei potuto liberarmi e svignarmela, volendo.
Volendo.
Un momento dopo, sentii le sue labbra, quasi timide, aprire la mia bocca.
Mi lasciò il polso, non perché fuggissi, ma perché potessi abbracciarlo.
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Più tardi scivolò su un fianco, tenendomi abbracciata e accarezzandomi con il viso e con le labbra.
Mi teneva tra le braccia come in una culla, un po’ distante da sé per potermi guardare negli occhi.
Scorreva con l’indice i tratti del mio viso, i capelli, cercando di studiarmi, di impararmi a memoria e poi chiudeva gli occhi, come per imprimersi meglio quello che imparava.
Sapevo che poteva essere pericoloso: se mi avesse amata, non sarebbe stato certo un amore di persona normale e ordinaria.
Mi venne da sorridere: come avrei, io, potuto avere a che fare con qualcuno ordinario?
Era forte, sano, sprizzava salute da tutti i pori. Non potevo, almeno inconsciamente, non confrontarlo con un altro giovane più che straordinario, ma fragile e malato.
Il campo energetico di Floyd era ampio, forte, radiante, emanava una Magia antica, primordiale, istintiva, eppure profonda.
L’aura di quell’altro ragazzo di tremila anni prima, era una stella, accecava per quanto risplendeva, eppure si piegava su se stessa in quel corpo troppo fragile e troppo stanco. Era più antica del mondo, traboccava di saggezza e compassione, ma lo distruggeva e ne era distrutta.
Era strano il sovrapporsi di quei pensieri: analizzavo senza volerlo e senza nemmeno rendermene conto, mi lasciavo assorbire dal presente per la prima volta nella mia vita e, per la prima volta, volevo essere lì, vivere quell’attimo e viverlo con Floyd.
Aveva quella lunga cicatrice obliqua, che avevo già notato, sull’avambraccio sinistro, sembrava il lungo taglio di un vetro, una piccola sotto il mento, una larga un dito sopra il ginocchio destro, lunga circa quattro dita e sulla quale si vedevano i segni dei punti di sutura.
Aveva sul torace, a destra, un’altra cicatrice orizzontale, lunga una decina di centimetri, sottile e netta, chiaramente di un’arma da taglio, e una dall’aspetto molto profondo sul fianco destro.
Mi si affacciò per un attimo l’immagine del coltello da caccia di Howard, nel cruscotto accanto alla pistola.
Non gli chiesi come se le fosse fatte, nessuna di quelle. Quella sulla gamba, mi pareva di aver capito fosse dovuta ad un incidente con un cavallo, quella sotto il mento poteva essere dovuta ad una caduta, come succede a tanti ragazzi vivaci, ma le altre non erano incidenti.
Pur senza chiedere, pur non volendo guardarle, non potevo non vederle. Posai le dita su quel taglio bianco orizzontale, senza parlare, mi avvicinai e lo baciai piano, sfiorandolo appena, ma lasciandovi le labbra a lungo. Lui rabbrividì e mi abbracciò più stretta, il cuore che di nuovo batteva troppo forte.
Restammo così, senza una parola, finché il sole non se ne andò e cominciò a fare più freddo.
Non parlammo fino al cottage.
C’era branzino per cena, ma ufficialmente era salmone.
Maggie ci osservò tutta la sera, pensierosa, il vecchio Jack ci sbirciava di sottecchi di quando in quando e ridacchiava soddisfatto.
Noi facevano finta di niente, ma sprizzavamo scintille ogni volta che ci avvicinavamo, anche senza toccarci.
Ero confusa, ma felice: forse ero guarita!
Forse era questa la guarigione, l’effetto della Cerimonia.
Mi stavo lasciando alle spalle un sogno, una cosa irreale ed assurda ed ecco che la vita mi faceva un regalo meraviglioso, che non avrei mai immaginato.
“Come puoi non vedermi, Is? Cercami!” scacciai l’immagine, era soltanto illusione, era finita.
Quando eravamo ormai tutti a dormire, sentii la porta aprirsi pian piano e sorrisi tra me. Scivolò con quel suo fare silenzioso, da gatto, verso di me, si infilò sotto le coperte e mi abbracciò felice.
Mi diede un paio di baci a fior di pelle e si addormentò, tranquillo come un bimbo.
Restai interdetta, poi sorrisi tra me: non voleva nulla, voleva soltanto starmi vicino. Era lì solo per me.
La luna filtrava dall’anta accostata e gli illuminava il viso addormentato e restai a guardarlo, finché il sonno non mi sopraffece.
Mi svegliai che ero da sola. Ho il sonno leggero, ma lui era così silenzioso, tanto più leggero del mio sonno, che non mi ero nemmeno accorta che se ne fosse andato, come se a scivolare via dal mio abbraccio fosse stato un fantasma.
La mattina era grigia, una pioggerellina fredda e dispettosa scendeva sottile ed insistente, picchiettando sulla tettoia della legnaia e della ex stalla una canzoncina molto autunnale.
Floyd fece colazione sulla porta, la schiena appoggiata ad uno stipite, i piedi all’altro, gli occhi fissi nelle nubi basse e sugli alberi, un panino in una mano, la tazza del caffè nell’altra.
Meno di un’ora dopo mi trascinò fuori di peso, sotto la pioggia, e volle andare al lago.
C’erano delle canoe, alcune abbandonate da tempo, altre lucide e colorate, con i nomi dipinti belli sgargianti sulle chiglie. Su una era scritto il nome del cottage.
Ci saltammo dentro e lui si mise a remare entusiasta del nuovo gioco.
Aveva smesso di piovere, ma sul lago aleggiava un basso velo di nebbia, simile all’ala bianca di qualche uccello acquatico, e si accumulava in grossi fiocchi cotonosi presso le coste. Sembrava di navigare in un mondo incantato, in un tempo di sogno.
Attraccammo su un isolotto, uno di quelli piccoli, erbosi, ricoperti di conifere, come si fossero appena staccati di propria volontà dalla pineta della costa e fossero rotolati lì, ragazzini ribelli in cerca di avventura.
Sembrava di galleggiare nel nulla e gli alberi avevano dimora nelle nuvole che ne avvolgevano i piedi, in quel luogo che pareva a cavallo dei mondi, almeno finché il sole non avesse sciolto l’incantesimo.
Ci accampammo su una spiaggia minuscola, tanto quanto poteva esserlo solo su un’isola di pochi metri di diametro; c’era un asciugamano nella canoa, con sopra disegnati dei salmoni.
Floyd lo prese ridendo e lo allargò sulla sabbia bagnata. Sapevo che lo faceva per me, a lui non importava che la sabbia fosse umida o meno.
C’era un profondo silenzio, solo il sommesso sciacquio di minuscole onde sulla riva, un chiacchiericcio tra l’acqua, la terra, gli alberi, il tonfo di qualche uccello acquatico a pesca nonostante la foschia, rari cinguettii in alto, tra i rami.
Lui se ne stava lì, seduto a gambe distese e appoggiato all’indietro sui palmi, guardandosi attorno come un bambino stupito che non abbia mai visto il mondo oltre il suo quartiere, lui, che invece era cresciuto incollato alla Terra…cercavo di specchiarmi nel suo stupore per vedere il mondo con altri occhi, occhi nuovi, pieni di costante meraviglia.

Si sfilò la camicia, che portava su niente, ne fece una palla che mi mise alle spalle per cuscino, si tolse i jeans, li lanciò via con i piedi e restò lì, così come mamma lo aveva fatto, nonostante la nebbia e la pioggerellina, incurante, i capelli bagnati di goccioline, piccole perle infilate sulle punte, là dove si arricciavano, tanto da formare una corona intorno al viso.
Mi lasciai cadere sull’asciugamano, la testa sulla camicia arrotolata, morbida, che sapeva di lui tanto da stordire, lui che ora si era sdraiato accanto a me, stiracchiandosi. Mi avvolse la vita e decise, con una smorfia, che la stoffa era ruvida. “Hai freddo?” feci segno di no e lui mi sfilò la felpa con un solo gesto: “Allora questo non serve” commentò: “Tanto se hai freddo ti scaldo io”.
Avevo una gonna country, quel giorno, durò pochi secondi e finì a far compagnia ai suoi jeans. Qualcosa mi era rimasto, ma, a ben pensarci, stonava.
Rideva felice, spensierato, mi abbracciò e restò così, stringendomi forte, come avesse avuto paura che qualcosa potesse strapparmi via da lui.
Solo parecchio dopo si sciolse da quell’abbraccio quel tanto che bastava da passare ai baci e poi andare ancora oltre, lentamente, un po’ alla volta, soppesando ogni gesto, quasi in conflitto tra timidezza e ardimento.
Una gemma preziosa, la più preziosa delle gemme.
In quei giorni avevo capito come lui fosse, per la sua gente, un tesoro.
Non so se e quanto lui ne fosse consapevole e questo lo rendeva ancora più prezioso. Credo che, senza volerlo, quelle suore un po’ oche e piene di pregiudizi, gli avessero appioppato un nome che non avrebbe potuto essere più azzeccato.
Quando tornai al mondo, le nebbie si erano alzate, un timido sole filtrava tra i rami, appena tiepido. Non avevamo bisogno del suo calore, veramente, ero in un nido caldo, vivo, amorevole, che ora mi guardava con occhi neri e pensosi. Sembravano tristi.
Restammo abbracciati a raccontarci e lui, un po’ alla volta scivolò nel sonno mentre io di nuovo restavo incantata a guardarlo dormire, incredula che tanta fortuna stesse toccando a me: era iniziata così male, quella storia!
La cicatrice bianca e dritta sul petto spiccava sulla pelle brunita. Qualcosa in quella linea mi inquietava, più di quella sul braccio, richiamava alla mente un’intenzione più cattiva, crudele di un taglio su un braccio, un’intenzione assassina.
Anche quella sul fianco mi spaventava, tanto che non osavo guardarla, a volte l’avevo sfiorata con le mani, sentendone il diverso spessore della pelle, l’irregolarità nei bordi, e avevo sentito lui fremere istintivamente, involontariamente, ritraendosi senza volere.
Posai la mano su quella linea dritta; lui nel sonno intrecciò le dita con le mie. Mi appoggiai con la faccia alla sua spalla, ascoltando il lento muoversi del respiro e il battito del cuore.
Si svegliò un po’ stupito di trovare la mia mano là, intrecciata alla sua.
“Farai la Sundance?” lui sorrise: “Si, certo, l’estate prossima, o quella dopo. Ma penso la prossima.” Si sollevò per guardarmi negli occhi: “Non ti piace?”
“No, no! Devi farla, se lo desideri. Avete lottato per riaverla! Va bene, anche se…”
Si puntellò sul gomito per osservarmi: “Se?”
“Non hai paura?” rise: “No, non ora! Forse il giorno prima…ma no, non credo ne avrò. Mi preoccupa più il digiuno. Non sono bravissimo, in questo, soffro se ho fame! Ma non si può avere paura di quel dolore, non è corretto. È un dono, o lo fai certo di te stesso, oppure lasci perdere. Sarò felice. Tu ci sarai?” disse con una faccetta maliziosa.
“Se tu vuoi…ma mi sarà permesso?”
“Se sarai con me, certo che sarai ammessa e potrai curarmi, una volta terminato il rito. Avrai il coraggio?”
Lo guardai malissimo: “Pensi io sia una femminetta paurosa?”
Rise: “No, soltanto…bianca!” lo picchiai, ma aveva ragione: mi mancava il respiro all’idea di vederlo appeso a degli uncini, danzando verso il sole finché le sue carni non si fossero strappate. Mi spaventava vederlo soffrire in quello stato di trans in cui si sarebbe trovato, che mi riusciva così difficile da comprendere. Avrei seguito il rito coprendomi gli occhi e le orecchie tutto il tempo, ma sarei morta piuttosto che ammetterlo!
“Comunque scordati che io mi attacchi alle tue spalle per farti rilasciare gli uncini!” lo minacciai.
“Vuoi dire che mi lascerai soffrire? Così, impunemente? Oh! Che donna crudele!”
Forse fu per dimenticare la sofferenza per il mio futuro tradimento che, con uno scatto felino, si lanciò nella canoa e afferrò lo zainetto con le provviste.
Estrasse un panino, lo soppesò pensieroso, ne staccò un morso restando a riflettere, come chiedendosi se fosse o meno effettivamente commestibile e poi, deciso che poteva andare, mi fece dare il secondo morso.

Mangiammo così, non un panino a te e uno a me, ma un morso a testa.
Gli ridevano gli occhi, si divertiva in quel gioco semplice che non era veramente un gioco, ma un rituale di unione solo per noi, decisamente meno cruento della Sundance.
Stavo rapidamente imparando che ogni suo gesto, dal gioco più istintivo e innocente, al rituale di guarigione o di qualsiasi altro tipo, era un atto magico e, per la prima volta in tutta la vita, non mi sentivo sola.
Eppure spesso, contro la mia volontà, nel guardarlo, nell’ascoltarlo, nella mia mente si sovrapponevano immagini, ricordi, sensazioni.
Sapevo che lui non era LUI, ma non volevo pensarci.
C’era stata una Cerimonia, la malattia se ne era andata, il passato era scivolato via e la vita mi aveva premiata con quel gioiello che rideva davanti a me con le briciole sulle labbra.
Mi balzarono alla mente le parole del Principino su Ekhnaton: “Lui non è mio padre, è solo il mezzo attraverso cui sono venuto al mondo. Lui non è come me.”
Floyd, chiunque e qualunque cose fosse, in qualche modo era come me e il resto volevo scoprirlo attraversando con lui la vita. Volevo far crescere quell’intimità che si stava creando, essendo felice con lui e, soprattutto, rendendo lui felice.
Il resto volevo dimenticarlo. Avevo vissuto troppo tempo in una ricerca inutile ed infruttuosa, in qualcosa che, evidentemente, non esisteva se non nei miei sogni.

“Sai cosa mi piacerebbe un sacco?” mi chiese una sera mentre ce ne stavamo a contemplare il tramonto, su una grossa roccia: “Diventare ricco, molto. E comprare la terra attorno alla Riserva. Non un paio di ettari, o dieci, o cento…poterne comprare tanta, centinaia di ettari e poi fare una donazione alla Riserva e farli diventare territori federali.
Vorrei comprare tutti i terreni tra Flathead e Blackfeet, farle diventare un solo grande territorio.”
“Pensi che ve lo permetterebbero? Una volta capito il gioco, il Governo interverrebbe per impedirvi di ricomprare tutti quei terreni”
“Non so. Vai e paghi, magari cash. A privati, a contee, allo stato…a seconda.
Io credo che, vedendosi sventolare i loro preziosi biglietti verdi sotto il naso, venderebbero e poi, sai, la gente è miope, pensa: ‘oh, che vuoi, sono solo dieci, venti, cento ettari, che vuoi che sia!’ e tu, invece, stai rosicchiando un po’ per volta il formaggio, prima che se ne accorgano. In fondo è molto meglio di quello che hanno fatto loro, no?”
Sospirai: “Non pensi che al tuo popolo servano altre cose, invece dei territori? Non siete in sovrappopolazione, invece c’è bisogno di lavoro, cure, scuole…e tanto altro.”
“No, non siamo in sovrannumero, hai ragione, non potremmo esserlo. Dopo averci sterminati con le malattie, l’alcol, le uccisioni di prigionieri catturati con l’inganno, ci hanno sterilizzati in massa per decenni, per essere sicuri che non ci riproducessimo. E poi il resto…la disperazione, i suicidi…forse dovremmo essere estinti da un pezzo. Ma non è così, ci siamo, siamo ancora qui, nonostante tutto! Mary, la terra per noi è un’altra cosa, non è come per gli altri! È lo stomaco, il cuore, capisci? Se hai la terra, hai tutto! Ne avremmo ancora cura, come una volta, più di una volta…prenderemmo forza, potremmo crescere.” Si voltò a guardarmi.
“Ti sembra folle, vero?”
“Non sono proprio la persona più adatta a dare del folle a qualcuno, sai?”
Lui mi studiò per un po’, gli occhi socchiusi, poi mi attirò contro di sé e mi tenne stretta a lungo, senza una parola.

Al cottage Maggie stava preparando la cena, brontolò che eravamo stati via tutto il giorno ed eravamo due scapestrati e ci intimò di sbrigarci a fare una doccia, che era quasi ora di mettersi a tavola.
Ci lanciammo su per le scale, ma un urlo molto Pequot ci bloccò dopo tre gradini: “Che state facendo, voi due?”
“Andiamo a fare la doccia” rispose Floyd per entrambi, stupito. Io annuii.
“E perché diavolo tu staresti salendo con lei, ragazzo? Il tuo bagno è qui dietro!” Floyd la guardò perplesso, un po’ accigliato, come tentando di capire il problema: “Ma noi pensavamo di farla insieme…”
“Beh, pensavate male, che diamine!” anche io trovavo la questione piuttosto strana: Maggie non era mai stata una puritana bacchettona, anche se era del New England.
“Ma così risparmiamo tempo e acqua calda!” esclamò Floyd, molto convincente. Io annuii nuovamente.
“Nooossignori, sono responsabile per voi, ragazzi, ci mancherebbe anche! Poche storie, lei di sopra e tu di sotto!”
Gli occhi di Floyd ebbero un guizzo malizioso, ci studiò su un istante, spalancò gli occhioni in un’espressione ingenuamente stupita: “Oh! Beh…se lo dici tu, ecco…io direi, si, perché no…si, si può fare…” stavo per scoppiare a ridere, Maggie capì il doppio senso e strillò: “Screanzato!! Vergognati!” e prese a rincorrerlo dandogli ramazzate sul fondoschiena, strillando a me di filare e spingendo lui verso il bagno di sotto.
Ridevo da sola mentre facevo la doccia. Uscendo dal bagno lo sentii che ancora cercava di convincerla che il nostro era un responsabile tentativo di consumare meno acqua e meno elettricità e che presto l’ecologia sarebbe diventata di primaria importanza, rimbrottato dalla donna che insisteva nel dirgliene di tutti i colori.
Ero abbastanza sicura che Maggie non facesse sul serio.
Eravamo tutti e due maggiorenni da un pezzo, che diamine! E in ogni caso, dubitavo molto che i miei avrebbero disapprovato la relazione con quel ragazzo, soprattutto papà, quindi doveva esserci soltanto un’esigenza, giusta o sbagliata che fosse, di mantenere uno stato di correttezza, o qualcosa del genere.Forse riteneva fosse troppo presto, ci conoscevamo da una settimana, in fondo.
Mi lasciai cadere sul letto a riflettere: non potevo fare a meno di avere davanti agli occhi l’immagine di lui che ascoltava, non visto, la conversazione delle compagne di scuola. Era l’anno del diploma, doveva avere diciannove anni, perché aveva perso un anno durante il processo e poi il trasferimento a Seattle.
Immaginavo che lui, all’epoca, un po’ perché tanto giovane, un po’ perché stordito da tante attenzioni, si concedesse con più leggerezza di quanto sarebbe stato saggio, ma i ragazzi sono giusti e fighi, soprattutto in certi ambienti, proprio in base al numero delle ragazze conquistate.
Immaginai che gli altri maschi della scuola lo guardassero con invidia, a quel punto.
Oppure no? Forse lo deridevano perché si faceva sbattere da ragazze che poi uscivano con loro, non considerandolo alla stregua di un essere umano?
Mentre raccontava quell’episodio mi ero trovata, senza volere, ad immaginarlo con quelle ragazze. Non volevo farlo, ma le immagini si formavano nella mia mente mentre lui parlava e mi sembrava di sporcarlo con pensieri che non erano miei.
Non sapevo come si fosse comportato con loro, all’epoca, ma sapevo come era ora.
Si concedeva con il contagocce, lentamente,  profondamente immerso in ogni gesto nello stesso modo in cui compiva una Cerimonia o una qualche preghiera.
Sembrava percepire ogni cosa all’interno e all’esterno di se stesso con tutto il suo essere, cinestesicamente, empaticamente, con ogni senso, come in una forma di atto sacro di un’intensità indescrivibile.
Non che non ci fosse passione, al contrario, ma, proprio perché il suo sentire era così profondo, era una passione magica, una dolcezza intensa e mistica, al di là dell’umano.
Di certo era prezioso, di certo non si gettava in quel modo sulla prima venuta, nonostante l’occhiata da marpione che mi aveva lanciato la sera della Cerimonia.
È tutta scena, aveva detto Robert.
Sicuramente era timido, ma dubitavo molto che la sua fosse timidezza: avevo sentito nel tono della sua voce, nel raccontare, quanto ancora fosse ferito.
Floyd non era capace di lasciarsi le cose alle spalle: era intenso, profondo, passionale, a modo suo innocente, anche se riteneva che l’innocenza con cui guardava il mondo si fosse sgretolata in un obitorio e in un'aula di tribunale, e un'altra volta tra un armadietto e il bagno delle ragazze di una scuola.
Limpido e allo stesso tempo misterioso, a volte cupo, inquietante, nel perdersi nella sua Magia.
Istintivo. E poi ironico, divertente, buffo, ragazzaccio impenitente, conscio della sua avvenenza e del suo cervello, che prendeva con leggerezza, giocandoci. Era tutto questo e ancora altro, ma non era capace, nonostante tutto, di lasciar cadere le cose dolorose, i torti subiti, e andarsene per la sua strada. Come i fendenti di coltello, i tagli di vetri di bottiglia, le ferite non ben identificate, così le esperienze lasciavano su di lui segni indelebili che lo accompagnavano lungo il cammino.
Magicamente affascinante, era sicuramente una persona non facile con cui dividere la propria vita, come tutto ciò che è prezioso: lo perdevi di vista un istante e non c’era più, era da qualche parte, arrampicato sull’albero più alto a guardare l’orizzonte, magari anche un po’ più in là, e non importava quanto potesse piovere o nevicare o tirare vento, lui non poteva stare chiuso tra quattro mura più di qualche ora. Scappava.
E, per quanto non lo abbia fatto in quei giorni al cottage, sapevo che scappava e semplicemente si dimenticava di tornare, la sera, magari perché era troppo lontano da casa, o perché si accorgeva che le stelle erano meglio di un tetto, per dormire.
Per vivere con lui, avrei dovuto scappare con lui. Ogni giorno.
Ribelle, diffidente, irriverente, matto come può esserlo qualcuno che vive in una dimensione magica nella quale non valgono le logiche ordinarie e nemmeno le leggi della fisica Newtoniana.

La sera Maggie ci intimò di stare ognuno in camera sua. Salì per ultima, la sentii aprire piano piano la porta di Floyd, poi la mia. Finsi di dormire.
La sentii entrare in bagno, scorrere l’acqua calda, poi la fredda, pausa, di nuovo calda.
Uscì, tornò, pasticciò ancora, andò nell’altro vano. Sciacquone. Spense la luce, chiuse la porta della sua stanza, ci ripensò, tornò a controllare se Floyd fosse in camera sua, finalmente richiuse la porta della camera alle proprie spalle.
Contai  fino a sessanta. Poi settanta. Arrivai a settantacinque e sentii un leggero fruscio nel buio. Nessuna luce, a parte quella che filtrava dalla finestra, ma mi parve che la porta si fosse aperta per un attimo.
Qualcosa toccò le coperte e vi scivolò sotto, scoppiando a ridere con la faccia nel cuscino. “Sssstt! Ha le orecchie lunghe!” sussurrai. “Ma c’è di mezzo il bagno!” rispose, tirandosi le coperte sulla testa per soffocare il rumore.
Restò così qualche secondo, poi decise che faceva caldo e le lanciò via. Non è che facesse caldo, in Canada era già sceso un po’ di nevischio il giorno prima, ma lui era così, pure le coperte lo facevano sentire prigioniero.
Eppure mi abbracciava e mi teneva stretta.
Si addormentava controllando che io fossi ben comoda nel suo abbraccio e se, nel sonno, in qualche modo ci si allontanava, si svegliava in allarme e mi riacchiappava, posando la testa su di me e sfregandomi addosso la faccia come un cucciolo.
Non sopportava catene, ma mi si incatenava.
Non mi toglieva spazio, ma mi teneva stretta, se non con il corpo, con lo sguardo, con il pensiero.
Se spariva su qualche albero, sentivo la sua attenzione che mi seguiva, presente, costante.
Mi lasciava interdetta, tutto questo.
Mi rendevo conto che, per qualsiasi ragione ci fossimo incontrati, lui era speciale, qualcosa che non volevo assolutamente perdere.
Eppure, nello stesso pensarlo, lo perdevo.
Mi prese una mano, baciò appena i polpastrelli, in quel modo profondamente assorto, che provocava scariche elettriche fino ai piedi, scese con le labbra lungo le dita, fino al palmo, sfiorò l’interno del polso con l’indice, lo risalì lentamente con la punta della lingua, poi, tenendo la mia mano nella sua, se la posò sulla tempia, perché gli accarezzassi i capelli e mi baciò a lungo.
“Corriamo il rischio?” chiese malizioso più tardi: “E se se ne accorge e ci picchia?” scrollò le spalle: “Corriamo il rischio.”

Mi svegliai perché non sentivo il calore radiante dei suoi fianchi. Era l’alba e c’era una fitta nebbia.
Lui era appoggiato alla finestra, così, senza niente addosso, fissava la nebbia incantato.
Aprì la finestra e iniziò a giocare con la nebbia, passandoci le dita e vedendo cose che io non ero in grado di vedere: “Sai che sei completamente nudo davanti ad una finestra aperta?”
Spallucce: “Non c’è nessuno e…” rise: “Se anche ci fosse qualcuno, lo sfiderei a vedermi…a meno che fosse mio nonno. Mio nonno vede tutto.” Disse con una smorfia.
“Ma prendi freddo, dai!” insistetti: era lì, bello caldo e da fuori si intrufolavano sottili dita bianche di umido gelo.
“Ma dai, non è freddo!” mi canzonò ridendo.
Ci raggiunse un urlo: “EHI! Che state facendo voi due, eh?”
“Niente, Mag, solo un paio di piccoli stregoni!” gridò lui di rimando.
“SCREANZATO!!!!”
Accostò la finestra e si infilò sotto la coperta: “I tuoi stanno traslocando” disse pensieroso: “Presto potrai tornare a Boston. Sembra tutto piuttosto tranquillo, ora, ma dovrai presentarti in Commissariato e dare la tua versione. Maggie e Jack hanno già fornito la loro testimonianza, ma penso dovranno tornare.”
“E tu?” Mi guardò un po’ vergognoso: “Io non posso tornare a Boston. Non…” prese fiato: “Non me lo posso permettere…finirei in un gran casino” non capivo.
Era molto imbarazzato:“Perché? Non sei tu ad essere stato processato, non sei finito dentro, in quel periodo!”
Rise: “Ci sono finito dopo”
Non mi importava che mi desse spiegazioni, ma si lasciò ricadere sul cuscino e prese a raccontare: “All’inizio ero stupido, ed ero ragazzino. C’erano dei balordi che avevano il vizio di prendermi a calci, semplicemente perché passavo, ma io ero veloce e abituato sia a lavorare, che ai cavalli, così mi voltavo e afferravo loro la gamba e la torcevo. Ho slogato parecchie caviglie, così, e finivo nei guai. Ad un certo punto, colpevole o meno, rischiavo l’espulsione.
Imparai a non avvicinarmi e ad ignorare le provocazioni, diventando sordo e cieco, inghiottendo la rabbia.
Ma poi, un giorno, ecco…ne ho mandati tre all’ospedale, uno c’è rimasto un mese. Due se la sono cavata perché sono scappati”
“Da solo ne hai stesi tre?”
“Beh…solo perché gli altri sono scappati, però.”
Avevo la netta sensazione che la faccenda avesse a che fare con quelle cicatrici. Sbuffò: “È che…oh!”
“Non sei obbligato a spiegarmi, se non vuoi” gli dissi.
E lui si fece forza: “Non mi importava, o facevo finta che non mi importasse, se insultavano me, perfino mio padre o la mia gente. Soffrivo, stringevo i denti, andavo avanti, mi stava venendo l’ulcera, ma mi controllavo. Poi un giorno quelli se la presero con Bianca. Lei aveva undici anni, a quel tempo, ma era già molto graziosa.
La vedevano quando la accompagnavo a scuola e a volte, al ritorno, lei passava ad aspettarmi e tornavamo a casa assieme, così mamma era più tranquilla. Loro erano dei balordi molto palestrati, avevano successo con le ragazze della loro specie, mentre gli studenti in generale li sopportavano per non mettersi nei guai e perché uno era figlio di un giudice, un tipo sospetto che si vociferava avesse legami con la criminalità organizzata. E poi, un paio di anni prima, sul pargolo c’era stata un’accusa di violenza sessuale, che paparino aveva prontamente insabbiato.
Non bisognerebbe mettersi contro gente così, vero? Bisognerebbe essere saggi e pazienti, ma io non ero l’uno e avevo quasi esaurito l’altra perché, quando vedevano Bianca, fischiavano e facevano commenti.
Ero preoccupato, terrorizzato che potessero metterle le mani addosso, avevo i nervi a fior di pelle e di sicuro la nostra storia di famiglia non aiutava.
Quel giorno mi aspettavano, lungo un vialetto che portava a scuola, in cinque o sei, e iniziarono a fare battute, dicendo che la puttanella indiana era quasi pronta per l’uso. Inghiottii la rabbia, strinsi i pugni e continuai per la mia strada, anche se mi si torceva lo stomaco.
Il figlio del giudice, però, sapeva del processo e disse che avrebbero potuto farle fare la fine dell’altra troia più grande, che a furia di farsi sbattere nei vicoli ci aveva letteralmente lasciato lo scalpo.
Io non ci vidi più.
Sentivo una cosa, dentro, non so se fosse rabbia, dolore, paura, era semplicemente qualcosa di troppo, troppo grande per poterti stare dentro, perché tu sei tutto lì e una cosa così grande non può starci tutta dentro di te, è semplicemente troppo e credo che sarei morto se non avessi gridato.
Gridai, e quella cosa uscì.
Non ci vedevo più, non ricordo niente, se non che li colpivo e più li colpivo, più lo avrei fatto, perché non mi placavo, anzi, quella cosa sembrava uscire fuori, in piena, senza controllo. Non sentivo nulla, non sentivo dolore, ma loro mi si avventavano addosso e io colpivo, cadevano e io continuavo a colpire.
Poi qualcuno mi fermò.
Ero stordito, coperto di sangue che non sapevo se fosse mio o di altri. C’era un ragazzo della squadra di football e il professore di Inglese, un pastore battista di quasi due metri.
Non era arrabbiato, mi teneva abbracciato e continuava a ripetermi: “Floyd, figliolo, ma cosa mi combini?” e questo mi calmò.
Lo guardai, lo riconobbi. Due di quelli erano scappati, uno era piuttosto pesto, ma abbastanza lontano e continuava a gridare che ero un pazzo assassino, quello che era con lui penso non avesse un graffio, ma gli altri tre erano a terra, lì davanti a me, intorno decine di occhi ci guardavano sconvolti.
E io ero maggiorenne da due giorni.
Passata quella furia crollai tra le braccia del professore e dell’altro ragazzo, mi portarono all’ospedale piantonato da due poliziotti grandi e grossi.
Il professore venne in ospedale con me, cercò di farmi parlare, ma io non dicevo una parola.
I medici riscontrarono su di me ferite profonde di varia natura che, per come erano state inflitte, mostravano il chiaro intento di uccidermi e il fatto che fossero in cinque contro uno deponeva a mio favore. Ovviamente solo per modo di dire.
Il mio testimone era uno stimato professore, ma disgraziatamente anche lui del colore sbagliato, il ragazzo della squadra era arrivato nel momento in cui ormai gli altri erano stesi e non poteva dire granché in mia difesa, solo che di solito ero un tipo tranquillo che non cercava grane, mentre gli altri erano dei balordi di professione.
Due giorni dopo il ricovero, mentre ero con il professore, dissi soltanto: “Mia sorella non era una troia e non si è mai sbattuta niente e nessuno!” lui capì.
Andò a trovare le due vittime sfuggite miracolosamente alla mia furia e, con molto garbo, disse che avrebbero fatto una fine peggiore dei loro amici, se non avessero sputato tutta la verità. I due erano ancora sotto shock e vuotarono il sacco.
Sai, in quell’area la popolazione Nativa è numerosa, io avevo alcuni amici nelle Riserve Snoqualmie, Suquamish e parecchi di loro avevano una moderata confidenza con le patrie galere, perciò erano al corrente di tante voci che giravano sul giudice, sull’adorato figlioletto e sulla storia della violenza insabbiata.
Nel giro di un paio di giorni cominciarono ad arrivare telefonate anonime a polizia e giornali che spifferavano sia quella faccenda che la connivenza tra il giudice e la criminalità. Non so bene come andò, ma improvvisamente mi raddoppiarono la guardia e, scoprii poi, fecero sparire dalla circolazione il figlio del giudice.
Io ero stato aggredito da ben cinque ragazzi armati di coltelli e bottiglie rotte, mentre ero del tutto disarmato. Se fossi stato del colore giusto ne sarei uscito con onore, invece mi diedero sei mesi di carcere e un anno di lavori socialmente utili.”
“TU sei rimasto sei mesi dentro? E sei vivo?” gli scappò da ridere: “Ti pare? No, restai dentro, in isolamento, per sei settimane e mi meraviglio di non esserne uscito in una bara. Forse stavo solo troppo male per reagire. Ero ancora debilitato dalle ferite e dormivo molto, ma impazzivo là dentro: passavo quasi tutto il tempo a guardare fuori dalla feritoia, ma non vedevo che il cortile del carcere. Poi la pena venne commutata in solo lavoro coatto e una cauzione da capogiro. L’avvocato aveva chiesto la legittima difesa, ma non era stata accettata, perché ero stato io ad attaccare per primo.
Ero ancora ai lavori forzati, l’anno dopo, quando iniziai con le sfilate e le nostre finanze si risollevarono, ma…ma io non posso finire di nuovo nei guai.
La sera della Cerimonia il mio nome non è venuto fuori, al mio posto come “quarto indiano” dovrebbe presentarsi un ragazzo Mohawk incensurato, i testimoni non sarebbero mai in grado di notare la differenza vestito e senza pitture in faccia, basta uno di noi alto e abbastanza in forma. Ciononostante…” scrollò le spalle.
“…È meglio che non ti faccia vedere in giro…d’accordo. Che farai?”
Restò un po’ a fissare la nebbia, pensieroso: “Beh, tornerò a casa…nel Montana.”
“Oh.”
“Ci sei mai stata?” scossi la testa, avevo la gola chiusa: “Potresti venire a svernarci. Sarebbe originale, no? Svernare al freddo…al caldo sono capaci tutti.”
“Svernare nel Montana?” era un’idea folle: “Si, potrei aspettarti qui e partire prima che ci sia troppa neve. Sai, c’è il Lago di Flatehad. È grande, per metà è territorio nostro ed è bellissimo. Ti piacerà. E poi ti porto alla Riserva Blackfeet, dall’altra nonna, ma ti avverto: ti accoglierà con il fucile spianato, ti farà il terzo grado e poi pretenderà di insegnarti a sparare.”
Cominciai a sognare, mentre mi abbracciava e mi raccontava della Riserva, della sua famiglia, degli amici, dei cavalli, di Montagne e fiumi, e nel raccontare gli brillavano gli occhi.
“E i miei nipotini, sono così belli, sai? Uno ha appena iniziato a camminare, chissà ora…avrà fatto progressi, loro fanno progressi ogni due minuti!” era così felice.
Non parlò di povertà, di alcol, di suicidi, di rapimenti. Era felice. E basta.
Mi raccontò di un capanno che aveva lungo il Flathead River, piccolo, una stanza e un piccolo sottotetto, un vano bagno in cui per fare la doccia bisognava buttarsi addosso l’acqua da un secchio.
E c’erano i cervi, là intorno, che si spingevano fino al capanno, scoiattoli, linci, un sacco di altri animali. Anche orsi, effettivamente, ma non erano pericolosi, bastava saperli prendere e non avevo dubbi che lui ne fosse capace.
Nessuno, diceva, sarebbe arrivato a disturbarci. Immaginavo un inverno là, tra metri di neve, in un capanno con lui, persi tra il fiume e i boschi e mi chiedevo se avrei dovuto andarlo a recuperare in cima agli alberi all’ora di cena o se mi avrebbe obbligata a buttarmi nel fiume gelato.
Non ero sicura di meritare quel sogno.
Sentivo un profondo legame con lui, ma allo stesso tempo lottavo con le immagini, le sensazioni che arrivavano improvvise, appartenenti a qualcos’altro.
Le allontanavo: Floyd era lì, era splendido, perfetto, era la persona migliore che mai avrei potuto incontrare.
Era forte e fragile, appassionato e dolce, aveva alle spalle grandi sofferenze, ingiustizie, soprusi personali e verso il suo popolo, eppure rideva e mi faceva ridere- Nessun altro, nella storia, ha patito quanto loro, eppure hanno sempre voglia di scherzare. Io lo rendevo felice, facevo brillare i suoi occhi, splendere il suo sorriso, battere forte il suo cuore. Volevo tutto questo. Volevo vederlo sorridere ogni giorno della sua vita, volevo condividere la sua Magia.
Volevo tutto e lo volevo con prepotenza. 
(...continua Pagina 2)

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