Il racconto
di Marabel fu improvvisamente e poco graziosamente interrotto da una mia
rumorosa soffiata di naso: “Sgusabi, io…gredo di sovvrire di gualghe
allergia…vorse g’è iggiro gualghe sdubido…” mi giustificai.
Lei sollevò
un sopracciglio: “Oh! Santo cielo, potresti essere allergica a me!”
Appallottolai
il fazzolettino di carta le restai a guardarla costernata.
Lei
ridacchiò: “Oh, sono le cinque!” esclamò fregandosi le mani: “Sarebbe l’ora del
tè…che ne dici di un tè ghiacciatissimo?”
Qualcosa di
non ben identificato ronzava tra le aiuole e coppie di pensionati si facevano
aria sulle panchine all’ombra: “A volte mi chiedo perché nascere in Egitto”
ragionò Marabel mentre richiamavamo Grigno: “Dal momento che il mio clima
ideale è più o meno quello della Siberia Orientale d’inverno…”
“Immagino
che, all’epoca, l’Egitto dovesse essere più interessante della Siberia
Orientale, no?” chiosai, alla ricerca di un cestino in cui buttare il
fazzoletto: “Chissà…la Siberia doveva essere piena di simpatici orsi, lupi,
renne…E ricordati che è la terra degli Sciamani…oh, dubito che non fosse
interessante, ma siamo nati là, che farci? Era là che lui doveva essere, là
doveva portare avanti il suo compito e sappiamo come non fosse nemmeno la prima
volta.”
Camminava
fissando il terreno ai suoi piedi, diede un calcetto distratto ad un sassolino
che rotolò nel prato: “Comunque, dopo la costruzione della diga di Assuan, il
clima è cambiato. Oggi l’Egitto è molto più povero, anche se campa per lo più
di turismo” Fece una smorfia: “Ci rimasi malissimo la prima volta che vidi le
piene” rifletté: “Mi aspettavo qualcosa di grandioso, di…si, di faraonico, toh,
invece tutto fu così, così limitato, modesto, controllato.
Certo, è
tutto verde, coltivato, il fiume è pieno di barche da trasporto e pesca, non
c’è che dire, ma allora, oh, allora si che era meraviglioso e grande, non una
misera strisciolina di terra attorno all’acqua! Le inondazioni erano come una
splendida, lenta, inesorabile marea che divorava il deserto e poi…e poi tutto germogliava.
È incredibile
come tremila anni dopo quei tempi, sia stata fatta una cosa così imponente e
così stupida, dagli ingegneri moderni! Furono addirittura spostati dei templi
dal loro sito originario, pietra per pietra, come Abu Simbel per esempio, e
ricostruiti più in alto, dove l’acqua non li avrebbe sommersi. Che idiozia! Se
gli antichi li avevano costruiti in un posto, là dovevano stare e non
traslocati e pasticciati come casette di lego!” brontolò.
“A scuola ci
avevano detto che nessuno si aspettava i disastri ambientali che seguirono il
completamento della seconda diga, ma che ne svuotarono una parte, o forse
ridussero la chiusa per permettere le inondazioni…è vero?”
Marabel fece
una linguaccia al nulla: “Diciamo che le chiuse vengono aperte parzialmente per
permettere l’irrigazione più volte all’anno, ma quella robaccia è stato un vero
disastro!
Gente
sfollata, distruzione di un ecosistema che si reggeva in perfetto equilibrio da
migliaia di anni, scomparsa di specie ittiche e aviarie, aumento di malattie,
comparsa di nuove, riduzione drastica della pescosità fino al mare e nel
mare, figurati!
L’Egitto,
nonostante le proteste e le denunce di ricercatori ed ecologisti, continua a
sbandierare quel mostro come una delle meraviglie della civiltà…sai dove gliela
metterei, io, la loro meraviglia?”
Mi fece
ridere: Marabel era sempre così corretta, educata, raffinata, da lei non ci si
aspettava un’uscita simile. Pensai che dovesse esserci qualche guizzo di Luna
Nascente che improvvisamente saltava fuori di quando in quando.
Entrammo
nella caffetteria e ordinai una cisterna di tè alla pesca ghiacciato, mentre
Marabel faceva scegliere a Grigno il posto migliore.
Sospirai
rassegnata: se prima quel cane era viziato, ora stava superando qualsiasi
limite della decenza, ma il mio incubo peggiore era la consapevolezza che
Franco, al suo ritorno, non avrebbe tentato di ricondurlo a più miti consigli,
anzi, esisteva la non remota possibilità che peggiorasse la situazione per
farsi perdonare la lunga assenza.
Sedetti di
fronte a lei, poi ci ripensai, mi rialzai e tornai al bancone ordinando
qualcosa a loro discrezione per quella fogna a quattro zampe cui ci
accompagnavamo.
“Bene”
esclamai sedendomi: “È incredibile come ti abbia protetta, fin dall’inizio!
Così piccolo e già così saggio!”
Marabel aveva
lo sguardo distante: “Si, certo, è proprio così. Anche se si irritava a sentire
il suo nome reale, Toro Possente dalla Nascita Perfetta, in un certo senso non
era così sbagliato: la sua nascita era stata veramente perfetta, al di là della
fragilità e delle malattie. Quello era il corpo, ma lui, LUI era
perfetto.
E io non so,
non lo sapevo allora e ancora meno lo capisco ora, come potesse considerarmi
sua pari. Io volevo credere di essere l’altra parte di lui, una cosa con lui e,
d’altronde, come avrei potuto negarlo, se eravamo stati così sempre, fin dal
primo giorno, dal primo minuto del nostro incontro?
Eppure…io ero
così…così umana, così imperfetta. Ero così piena di limiti, gliene combinavo
una tutti i momenti, a volte sono stata gelosa, incapace di vedere le ragioni
delle sue azioni! Non ero lontanamente paragonabile a lui!”
“Ma non è
vero! E poi eri divertente, no? Io adoooro la passionalità e l’irruenza di Luna
Nascente, la sua irrequietezza, l’orgoglio. Quello che ha detto lui, com’era?
Che la gente ti adorava perché trattavi i più umili come re e i nobili come
pezze da piedi?”
Scoppiò a
ridere: “No, dai, esagerata! I più altolocati come umili, questo diceva!”
“Beh, ma
perché lui era fine, però il senso è quello, dai! Il punto è che tutto questo
era favoloso! Magico, si, ma per davvero! Quella cosa della luna e poi il
sacerdote che parte per un lungo viaggio per interrogare l’oracolo! Voi dovete
stare assieme, lo vedi? E
comunque, dal tuo carattere, sono sicura che avessi sangue nobile! Non hai mai
saputo chi fossero i tuoi genitori?”
Scosse la
testa: “No, e non è importante. In fondo non erano i miei genitori: erano
soltanto il mezzo attraverso cui ero venuta al mondo”
“Si, ma se
fossero stati nobili? Almeno uno dei due? Allora avresti avuto diritto di
sposarlo, non avrebbero potuto ostacolarvi!”
“Eva, se mia
madre mi abbandonò, è perché qualcosa non andava. Forse era adultera e il mio
aspetto denunciava una diversa paternità, rispetto al marito, oppure mio padre
era qualcuno che non poteva avere un figlio da quella donna, forse una
meretrice.
Io ero troppo
sana per essere nobile, sai? Se mio padre lo era, doveva esserci in ogni caso
qualcosa che non mi avrebbe resa apprezzabile dalle classi elevate. No, non credo
sarebbe cambiato qualcosa, forse sarebbe perfino stato peggio! In ogni caso non
lo scoprii mai e non me ne importava. E ormai non ha davvero più alcuna
importanza”
Aveva
ragione, ma io avrei voluto darle ciò che, ne ero certa, le spettava. Una non
nasce come forma di Iside, così, a caso, che diamine!
Era potente,
divina, quella profezia. Immaginare queste due anime così unite, così tese
l’una verso l’altra…ma erano davvero due anime? Perché la profezia non diceva
esattamente così.
“Lui ti
aspettava, fu la prima cosa che ti disse, al tuo arrivo, lui era la tua anima
gemella e lo sapeva. È così, vero?”
Marabel mi
guardò severa: “Non sono sicura che il termine anima gemella sia
corretto…era qualcosa, io credo, di ancora diverso, o forse hai ragione tu, ma
questo termine è così usato a casaccio da aver perso il suo significato…la
gente legge, vede e sogna. Stupidaggini, di solito. Sognano un’ipotetica anima
gemella senza avere la più pallida idea di cosa questo significhi e c’è
pure chi ci scrive montagne di saggi, dicendoti di avere capito tutto. E spara
idiozie.
L’anima
gemella, per il novant…diciamo novantotto per cento della gente, è un uomo o
donna del tutto irreale, che nelle aspettative risponde ad esigenze proiettive
o complessi edipici o di Elettra.
Si sognano
storie romantiche con partner bellissimi ed eroici, tutte mazzi di rose rosse,
cenette, sguardi ammiccanti e notti di sesso. Irreali, vacue, inconsistenti e
poi ci si imbatte in persone normali, con pregi e difetti, diverse da come ci si aspettava ed ecco che zac! il
romanticismo finisce, perché l’altra persona si permette di essere normale,
imperfetta, di avere problemi al lavoro, o con la famiglia propria o del
partner.
Magari porta
le scarpe basse o i calzini bianchi, che cosa orripilante!
Come puoi
svalutare una persona per scarpe o calze, o perché non segue abbastanza la
moda, o chissà quale altra idiozia!
Ho sentito
ragazze plurilaureate deridere un collega perché portava i calzini invece delle
calze o perché si era fatto “beccare” con le maniche della giacca rivoltate.
Collega che, peraltro, aveva un cervello da Nobel, per intenderci, ma…questo
non contava! Le maniche rivoltate, contavano, una cosa vergognosa!
Eppure è
così. “L’uomo della mia vita non si comporterà così e se lo facesse, o lo mollo
subito, o lo faccio cambiare! È il mio uomo ideale, ma lo cambierò!” È assurdo,
vero? Altro che ossimoro!
E quante
volte senti frasi del tipo: che quello, quella, non può piacere, perché si
vuole uno/a con i capelli biondi o con gli occhi verdi, o di una certa statura,
oppure con un seno diverso, di più o di meno, o gli si fanno tagliare i baffi e
così via. Angosciante.
Quasi mai il
soggetto si chiede se per caso egli, ella, risponda all’ideale dell’altro o
meno, però si sente ingannato in quanto il partner non è come lo si era
sognato.
Si è
insoddisfatti perché si attribuiscono all’altro le proprie insoddisfazioni,
perché non ci si ascolta, perché ognuno è bloccato in un mondo a sé e la
comunicazione è difficile, perché non
ci si vede realmente.
Ognuna delle
due parti vede nel compagno o compagna quello che vuole vedere e in cui,
magari, l’altro non si riconosce e questo stato di autoipnosi continua per
anni, finché uno si sveglia e dice: “Ehi! Che fregatura! Non è come credevo!”
Si litiga, ci
si fa i dispetti, ci si tradisce e si va sempre più a picco.
Alle volte,
alla fine, si trova un equilibrio e si finisce per essere amici o sopportarsi,
giustificando piccinerie e tradimenti, e allora ecco che i litigi diventano il
sale di un rapporto, la gelosia, una delle emozioni più infantili e stupide del
mondo, un motivo di orgoglio per il partner, che si sente considerato e
bramato.
A volte c’è
competizione tra i due, e allora, si, allora tutto finisce e di solito malino,
ed ecco che nasce il concetto di “coniuge più debole”, tanto caro agli avvocati
divorzisti.
È un termine
terribile, perché relega qualcuno ad un ruolo subordinato, di necessità,
perfino di ricatto morale per quello che meno guadagna o ha meno proprietà. E
sono liti legali, frustrazioni, infinite catene di ripicche e minacce, in cui
il cosiddetto amore è sostituito da denaro, case, auto, figli, a volte perfino
il cane e il gatto.
Altre volte,
per fortuna, c’è affetto, tenerezza, amicizia e allora la storia va avanti,
magari traballando, magari “impegnandosi
molto” o “avendo molta pazienza”.
Senti persone
chiedere ad anziani coniugi “Come si fa a far durare tanti anni un matrimonio?”
e questi a rispondere con sorrisi di sussiegosa saggezza, cose terribili,
quali: pazienza, sopportazione, impegno. Sopportazione?
Un semplice:
“Amandosi e rispettandosi ogni minuto della propria vita” non lo senti mai. E
non lo senti perché, per loro, non esiste. Se provassi a suggerirlo, ti
riderebbero in faccia, dandoti della romantica ed ingenua.
E poi ci si
mette a leggere libri del cavolo o guardare film altrettanto del cavolo per
sognare ancora l’irrealtà, un amore scritto che ha i tuoi stessi limiti, le tue
stesse piccinerie.
Altre volte
si sogna un amore davvero più grande, cui non si può accedere semplicemente
perché non si è pronti, non si è in grado nemmeno di comprenderlo, figuriamoci
di viverlo! È come voler dipingere la Cappella Sistina e non saper nemmeno
tenere in mano un pennello!
Molta gente,
sentendo la nostra storia, penserebbe a qualcosa di estremamente romantico, ma
non lo era: era dura, invece.
Era dura per
la sua salute, per i pericoli da cui eravamo circondati, per le nostre nascite.
Era dura essere separati, seppure così vicini, era una ferita costantemente
aperta, e dovevamo sorridere sempre.
La nostra
vita era splendida, lussuosa, elegante, colta. Di fuori. Ma dentro non smettevi
mai di sanguinare.
Siamo stati
in simbiosi per sedici anni e abbiamo avuto una decina di rapporti fisici.
D’accordo, per almeno nove di quei sedici anni lui era piccino, io un po’ meno,
ma la nostra storia, da bambini e dopo, non è certo qualcosa che abbia un
minimo a che vedere con le storielle che mandano in brodo di giuggiole le
moderne signore imbottite di sfumature, angeli caduti, vampiri luccicanti o
altre variazioni sul tema, che troverebbero sicuramente noiosa e priva di sale
tutta questa faccenda.
Noi non
eravamo arrapati o arrapanti. Eravamo ragazzini soli, perduti in un mondo
opulento e ostile, pieno di meraviglie e di veleni.
Ci vedevamo
spesso, a volte passavamo la notte insieme, è vero, perché era il momento del
silenzio, dell’intimità, in cui sapevamo di non essere disturbati, il momento
delle confidenze.
Abbiamo
passato notti intere a guardare le stelle, a parlare, o semplicemente ascoltare
l’uno il respiro dell’altra, oppure ancora a decidere, discutere, passarci
informazioni come non sarebbe stato possibile durante il giorno in quella corte
affollata, ma spessissimo senza andare oltre.
C’erano baci,
ci accarezzavamo non solo con le mani, ma con la faccia, con le braccia e le
gambe, con tutto il corpo per sentirci uno. Essere uno e due.
A volte, nel
sonno, lui usciva dal suo corpo e mi tirava fuori dal mio e lì, così, privi di
un corpo materiale che per la sua stessa natura ci teneva separati, avveniva il
nostro miracolo, il nostro fare l’amore così fuori dall’ordinario, che partiva
dal centro di noi, dallo sterno e dalla gola, estendendosi ovunque.
Ci
abbracciavamo e fondevamo in un’unica cosa, una specie di sfera luminosa in cui
ogni particella di uno permeava quella dell’altra, pur mantenendo perfettamente
la coscienza di sé.
Non accadeva
spesso, ma sapevamo farlo e io credo che la sua guarigione potesse passare
attraverso questo metodo. Io so che quell’energia che si sprigionava in un
altro livello di esistenza, aveva in sé il seme della guarigione.
Ma tutto
questo…tutto questo non è comune. E non è romantico. Non è sentimentalismo, non
è erotismo, per quanto nel nostro stesso pensarci ci fosse una immensa forza
attrattiva. È un’altra cosa.”
Mentre
parlava pensavo alla prima volta in cui mi aveva descritto il loro incontro in
quella specie di sogno, o al disegno, ora infilato in un cassetto, che, contro
ogni senso logico o razionale, la guardava con quello sguardo di amore assoluto
e totale che non riuscivo a negare manco volendo.
Ne intuivo la
grandezza, ma non riuscivo ad andare oltre e il senso di tensione erotica,
sovrumana, c’era, c’era altroché, ma era diverso da come lo si può immaginare:
non era desiderio, non era ormoni, non era passione, era un’altra cosa, come
diceva Marabel, cui io non ero in grado di dare un nome o un colore, ma di cui
intuivo la Divinità. Era qualcosa di eterno. Non so come lo sapessi, ma ne ho
la certezza: si percepiva, entrava attraverso la percezione come il frangersi
di un’onda con il mare grosso, quando la affronti in piedi, sfidandola a
buttarti giù o a spezzarne tu il frangente.
“Il fatto è”
riprese Marabel: “Che la gente pensa che l’amore sia una cosa che parte dal
corpo e poi, forse, procede in un’altra direzione. Pensa che almeno all’inizio
ci sia niente altro che un’attrazione per l’aspetto dell’altro o per qualche
reazione chimica ad un richiamo sessuale. Questo è biologia, istinto
riproduttivo, non altro.
Quante volte
senti dire che “l’amore finisce” e allora la storia si chiude? Oh, era bello,
ma poi l’amore è finito. Ma che vuol dire? L’amore è forse un chilo di zucchero
o di caffè, che si rimane senza? Che apri un’antina e dici: “Ops! È finito!”
No, dai, questo è quell’altra cosa, quella che viene semplicemente rivestita di
fronzoli, di lenti rosa e cuoricini, ma non è l’Amore, è raccontarsela.
L’Amore non è
una cosa che nasce, cresce e muore.
È qualcosa di
perfetto e completo in se stesso, al centro di ogni cosa e che tu devi
raggiungere. Non devi costruirlo, è là da prima del tempo, quello che devi
costruire sei tu, te stesso medesimo, così da riuscire ad arrivare a toccarlo e
poi ad immergertici.
Non parte dal
corpo per arrivare al cuore e poi all’anima, è il contrario, per quanto sia difficile
da capire e, più che mai, da spiegare. Io non so farlo, Eva.
Io posso
soltanto raccontarti di noi, della nostra vita, niente altro.
Se nelle
parole il pensiero è ucciso, pensa come può esserlo qualcosa che al pensiero va
tanto oltre! Se le parole sono una gabbia in cui il pensiero potrà dispiegare
le ali, ma non volare, questa cosa non può nemmeno dispiegarne un pezzettino,
sacrificata in una minuscola gabbia e schiacciata da tutte le parti.
Se qualcuno è
capace di parole in grado di spiegare tutto questo, beh, non sono io. Io non
posso che impantanarmi come nelle sabbie mobili.”
Non sapeva
quanto stesse sbagliando: non erano le parole, ma le immagini che esse
evocavano, la forza che ci metteva, il tono della sua voce, il potere che
riusciva a trasmettere e che io, la stupida umana, non sarei mai stata in grado
di rendere nei miei appunti, nemmeno in un milione di anni.
Eppure ero
sconvolta dal racconto di Sua Maestà: avevano provocato a sua madre un aborto
violento, uccidendolo già prima che nascesse, minando la salute sicuramente non
eccezionale di quella giovane donna così inaspettatamente forte e coraggiosa.
Anche lei,
per tanto tempo, era stata totalmente cancellata dalla storia.
Indagando più
a fondo, in quelle settimane, avevo scoperto che ancora al momento dei nostri
giorni di confidenze, nulla era certo: si diceva che la tomba di Kiya fosse
stata scoperta nel 2006, ma altre fonti dicevano che il primo esame della
mummia risalisse al 2003.
Altri che la
tomba di Kiya non conteneva la mummia, altri che era stata scoperta, forse,
l’anno precedente. Che il DNA la dava come madre del Fanciullino e sorella o
sorellastra di Ekhnaton, ma non si sapeva di che mummia parlassero
esattamente…forse di quella che non si trovava.
Ogni giorno
un nuovo annuncio, un categorico dare per sicura una mummia, una tomba, un DNA,
ma, come per il resto, la verità era soltanto confusione, un arrampicarsi su
specchi saponati per rifilare spiegazioni accettabili e redditizie.
Io sapevo che
Kiya era stata uccisa con violenza e lo sapevo da Marabel, quindi tenevo per
buona la mummia assassinata e, ancora una volta, mi chiedevo se un giorno o
l’altro si sarebbe trovata qualche traccia di Luna Nascente e se, in questo
caso, sarebbe stata o meno resa nota e come.
Era storicamente
e deontologicamente accettabile l’esistenza di una donna così importante per
lui, tanto lontana dal parentame del Fanciullo?
Ora, dopo
quasi un secolo di speculazioni, teorie, lotte per un frammento di potere
accademico, si può rivoltare tutta la storia a causa di una…ancella?
Avrebbero
forse fatto sparire definitivamente qualsiasi possibile traccia, così da non
dover alterare una storia già tanto traballante?
“Avevo te,
avevo tutto” diceva Sua Maestà, e il mondo rattoppato, costruito nel corso di novant’anni
crollava come un castello di carte.
“Chi erano i
Figli di Seth?”
Marabel si
strinse nelle spalle: “Mah? Gente infiltrata al potere, io direi della classe
sacerdotale. Loro avevano un enorme potere anche politico, gli stessi visir
erano quasi sempre sacerdoti e se non lo erano, lo diventavano al momento
opportuno.
Sicuramente
erano gente con grosse conoscenze esoteriche, lo abbiamo già detto e non ci
sono dubbi. Se così non fosse, non ci sarebbe stato un caso come il
nostro.”
“Cioè, questa
cosa di…di imprigionarlo? Per sempre? Ma è possibile?”
“Evidentemente”
Ripose laconica.
Più i giorni
passavano, più ci avvicinavamo alla fine, più Marabel diventava inquieta e
malinconica.
Sorseggiai il
mio tè soppesando le ultime informazioni: “Quindi?”
“Beh, in quei
giorni a Londra mio padre, l’ipnotista e l’americano, si resero conto che stavo
diventando sempre più dipendente da quelle sedute.
Vivevo per
quelle regressioni, vivevo per tornare da lui.
Sembravo
avere sempre meno relazione con la mia vita attuale, non cercavo un rapporto
con gli amici, che pian piano si allontanavano da me. Vivevo come in una sorta
di clausura volontaria, totalmente impegnata nella ricerca di ricordi e nel
cercare lui.
Dopo la
seduta in cui il mio Bambino mi svelò la verità sulla profezia, decisero che
non era il caso di fare altre sessioni e mi rispedirono in Italia.
Non la presi
benissimo. Accettai la loro decisione perché non potevo fare altro, ma decisi
in cuor mio che sarei andata avanti per mio conto”
“E come?”
domandai: “Lavoravo sui viaggi astrali e sui sogni lucidi, avevo sempre gli
schemi radionici da usare per aiutarmi. Ritenevo che, se fossi riuscita ad
uscire volontariamente, sarei riuscita a trovarlo e a comunicare con lui in
modo più preciso che non in sogni che non ero in grado di governare”
“E ci
riuscisti?” scosse la testa: “Ero sempre troppo tesa, troppo ossessionata
dall’ottenere un risultato, così creavo quel famoso blocco. Lui era più bravo
di me, evidentemente, perché a volte riusciva a raggiungermi.
A parte quel
tardo pomeriggio a Londra, in cui mi trovai probabilmente proiettata nella sua
stanza, io non riuscii mai più ad andare da lui, mentre lui, qualche volta,
riusciva a venire da me. Mi studiava, mi osservava.
A volte mi
abbracciava, mi stampava un bacio sulla guancia, a volte mi baciava per davvero
e io sentivo queste cose come fisiche, come si sentono nella realtà quotidiana.
A volte
si…nascondeva, prendeva l’apparenza di altri, o forse era il mio inconscio a
cercare di dargli un viso riconoscibile. Una volta mi apparve perfino come
Richard Gere!” disse ridendo.
"Perché?"
"Mah,
immagino fosse uno scherzo della mia mente, un tentare di dare un aspetto noto
a qualcosa di ignoto...oppure c’era qualche messaggio nella logica della realtà
onirica, con regole e logiche del tutto diverse dall’ordinario, che non riuscii
a capire. Non sempre un buon allenamento al...a realtà parallele, o alternative
è sufficiente. Io, poi, soffrivo di ereditarietà al razionale ordinario per
parte materna."
"E
allora?"
Marabel
sbuffò: “L’archeologo aveva un’amica a Boston, una sensitiva per quasi metà
scozzese, per il resto Narragansett e
Pequot. Era una donna coltissima, con credo tre lauree, che noi ritenevamo più
mischiata di quanto volesse far credere, dal momento che era bionda e aveva gli
occhi verde nocciola, ma lei si sentiva Nativa praticamente per intero e
sosteneva che il suo aspetto fosse dovuto agli antenati Vichinghi, non al
padre.”
“Oh, Vichinghi? Lo dava per certo, quindi?”
esclamai entusiasta.
“Altro che!
Guarda, non è strano. Non tanto nell’Est degli States, quanto in Canada, non
solo tutti i Nativi sono assolutamente certi della presenza dei Vichinghi nel
Nord America in epoca precedente a Colombo, ma Maggie ci portò anche a vedere
delle tombe nei territori Innu. Ci sono parecchi reperti vichinghi nei musei
presso alcune riserve canadesi e per loro questo è assolutamente normale. Se
dici che Colombo scoprì l’America, ridacchiano.”
“Ma…in che
periodo arrivarono i Vichinghi? Nuuk risale al settecento, non potrebbero…”
“No, i
reperti sono effettivamente molto più antichi e loro raccontano che le
popolazioni vichinghe ebbero rapporti commerciali con l’Est del Canada e parte
degli odierni Stati Uniti per secoli, molto prima dell’arrivo di Colombo, ma ad
un certo punto i viaggi si interruppero quasi improvvisamente.
Una leggenda
dice che ci fu un litigio tra un capo Vichingo e uno Nativo Americano per una
ragazza, se non ricordo male la figlia di uno fuggì con il figlio dell’altro e
i padri finirono per litigare, ma penso…anche loro lo pensano, che sia solo una
storiella.
Secondo le
loro datazioni, infatti, i rapporti tra le due popolazioni si interruppero in
coincidenza con le guerre vichinghe in Europa e allo stesso tempo con
cambiamenti climatici e di correnti marine, che creavano maggiori difficoltà
nelle traversate.
Probabilmente
i norvegesi vennero semplicemente distratti dai loro problemi nel vecchio
continente e si dimenticarono degli amici al di là dell’oceano, trovando più
redditizio e comodo viaggiare in questa parte di mondo.
In ogni caso,
seppure molto raro, il gene biondo è presente nelle Popolazioni Indigene
Nordamericane, come lo è quello degli occhi grigi e non a causa di
contaminazioni.
Loro
raccontano che Tashunka Witko, erroneamente tradotto come Cavallo Pazzo (in realtà “Il Suo Cavallo Scalcia”), fosse
piuttosto chiaro di capelli e dagli occhi grigi e sappiamo per certo che non
aveva alcuna ascendenza europea, almeno dopo l’arrivo di Colombo.
Se poi avesse
queste caratteristiche per antenati vichinghi, o se si trattasse di geni
endemicamente presenti in quelle Genti, non ci è dato saperlo, ma in ogni caso
apre ad interessanti possibilità, non trovi?
Comunque sia,
l’aspetto di Maggie, più prossimo a quello di una donna di origine europea, le
permetteva di mimetizzarsi nella società colta e snob del New England degli
anni cinquanta, quando studiava all’Università, senza subire grosse
discriminazioni, anche grazie al cognome scozzese, così poté tranquillamente
studiare e farsi una buona posizione.
Come gran
parte dei Nativi Americani, si laureò in antropologia e, uff, non ti dico! Lei
e mio padre sembravano gemelli separati alla nascita! Si buttavano in
discussioni sulle popolazioni e le usanze che iniziavano a cena e non
smettevano fino all’alba, quando mia madre e io dormivamo sul nostro divano o
su quello della donna. Se poi c’era anche l’archeologo, ah, era la fine!”
Io ero
affascinata: “Ma dai! Doveva essere fantastico, no?”
“Come no!
Trovavano qualche tradizione in un popolo magari dell’Africa Centrale, che
ricordava stranamente qualcosa di…boh, Navajo, per esempio e si mettevano a
mimare una danza, un rituale o che altro, immedesimandosi totalmente e
confrontandosi, entusiasti. Sembravano bambini, sembravano!” disse fissando il
vuoto con gli occhi sbarrati: “Il buono, in tutto ciò, è che li trovavo
rassicuranti: erano molto più matti di me, in fondo. Mi dava un senso di
sicurezza, si.”
Scoppiai a
ridere, immaginando una gentile signora della colta società bostoniana e due
rispettabilissimi scienziati, che si mettevano a mimare danze sciamaniche e
canti nel salotto buono.
“E quindi?
Questo che ha a che fare con il Faraone?” incalzai: “Semplice. No, non è
semplice per niente, ma, insomma, lei e alcuni colleghi, assieme al nostro
archeologo preferito, si misero d’impegno a studiare, vaticinare, a fare, non
per finta, rituali appartenenti ai loro antenati, arrivando alla conclusione
che l’Anima del Fanciullo, dopo l’apertura della tomba, avesse dovuto essere
parecchio disturbata da rilievi, esami e via dicendo, essendo stata liberata
dopo tremila anni di prigionia, e avrebbe avuto bisogno di preghiere, di pace,
non di sballottamenti delle sue parti fisiche, cui era, purtroppo, ancora in
legata a causa di quei malefici. Per quanto folle possa sembrare, pasticciare
quei poveri resti, trasportarli, esaminarli, aprire e pasticciare i vasi
Canopi, creava sofferenza all’essenza del Faraone, dopo così tanto tempo.”
Sospirò e
riprese: “Per i Nativi un concetto come quello, che per noi europei è a dir
poco folle, è invece del tutto comprensibile, a livello sciamanico: mostruoso,
ma comprensibile. C’era un uomo Ojibway, per esempio, che parlava di uno
sciamano che era stato imprigionato in un blocco di Ossidiana da stregoni suoi
nemici per due o trecento anni. A noi pare follia, no? Per loro era una brutta
cosa molto normale. Dicevano che, una volta liberato, aveva sofferto molto,
perché tutta la sua famiglia era morta da molto tempo e il suo spirito non
sapeva dove andare. Sembra inquietante, c’è qualcosa di spaventoso
nell’immaginare una simile realtà, ma per loro è normale, perfino per quelli
ormai troppo cristianizzati e occidentalizzati.
Comunque,
dissero che Sua Maestà era fuggito verso il Cielo appena possibile, lasciandosi
alle spalle quei pazzi scatenati che si accanivano sui suoi resti, per andare a
cercare pace, silenzio, un momento di stallo in qualche dimensione di luce,
prima di tornare a nascere e, alla fine, decretarono come probabile periodo di
incarnazione il decennio tra il millenovecento cinquantacinque e il
millenovecento sessantacinque.
Se un margine
di errore c’era, era per difetto, cioè la nascita poteva essere successiva, ma
non precedente alla seconda metà degli anni cinquanta. All'epoca mi pareva di
aver realizzato chissà che traguardo...ma il mio entusiasmo durò circa una
settimana, poi mi resi conto che poter limitare la ricerca a tutti i maschi
umani nati in un decennio, sarebbe stata un'impresa al di là delle capacità
umane o di qualche computer."
Ascoltandola,
mi trovai a pensare che la frequentazione con quella gente, così
capace di adattarsi senza problemi ad una ragazza dalla storia tanto
particolare, avesse dovuto farle più che bene, rassicurandola e dandole
speranza, oltre che comprensione.
Più si andava
avanti e la sua vita si arricchiva di particolari, più che mai quel pomeriggio:
la profezia rivelata ad Iset, i conflitti che il Principino aveva dovuto
affrontare per proteggerla e non perderla, la conferma del loro essere così
incredibilmente speciali, mostravano un nuovo lato di entrambi, sfaccettature
che li rendevano più complessi, più affascinanti e, allo stesso tempo, più
teneri.
Eppure,
sebbene ancora non lo sapessi, le cose più incredibili dovevano ancora venire.
*************************
“Andavate
spesso a Boston?”
“A dire il
vero” rispose: “Teoricamente alloggiavamo a New York, ma non ci piaceva. Papà
aveva iniziato a lavorare al Metropolitan, grazie all’archeologo, dove si
occupava di catalogare e studiare i nuovi reperti provenienti per lo più
dall’Asia Orientale e ovviamente aveva la possibilità di mettere le mani in
tutto ciò che riguardava l’Egitto senza farsi notare” disse strizzandomi un
occhio.
“Non
andava d’accordissimo con il personale e i colleghi, o meglio, fingeva di
essere in ottimi rapporti, ma arrivava a casa due giorni su tre dicendo di
volerli strangolare. Li definiva ortodossamente ciechi, sordi e anche un po’
stupidi.
Dopo
un po’ che frequentavamo Maggie e i suoi amici, iniziò a chiamarli “coloni” e
fare battute sul volerli buttare a mare.”
“Aveva
allargato le sue vedute, no” ridacchiai.
“Insomma, lui
trovava qualcosa di importante, sorprendente, che avrebbe potuto aprire nuovi
scenari alla conoscenza dei popoli e della storia e, puntualmente, questo
spariva o veniva catalogato come qualcos’altro.
Se protestava
gli davano del visionario, lo guardavano straniti, lo invitavano cortesemente a
rimanere nei binari della ricerca ufficiale.
Bocciavano
un’intuizione non perché ci fossero validi argomenti per farlo, ma
semplicemente perché esulava dalle loro idee preconcette, dal pensiero comune
e, quindi, non poteva essere.
Ovviamente
l’aver stretto amicizia con l’archeologo e la nostra simpatica studiosa Pequot
lo aveva peggiorato parecchio, però ora aveva degli alleati.
Così, appena
possibile, scappavamo a Boston dove, oltre a facce amiche, avevamo una casetta
con giardino, silenzio, un nostro angolo un po’ retrò, l’odore del mare, del
vento, dei boschi e potevamo respirare odore di Salvia Bianca e Sweet Grass.”
Marabel si
lasciò andare contro lo schienale della sedia: “Fu un gran bel periodo. A volte
succedevano delle cose, delle coincidenze, che mi facevano pensare di essere ad
un passo dalla soluzione, ma poi non accadeva nulla e io sprofondavo di nuovo
nell’incertezza. Stavo cadendo in una specie di depressione quasi sempre in uno
stato ansioso, nonostante il loro aiuto.
Un giorno
Maggie mi disse che dovevo semplicemente lasciarmi scorrere, essere come
l’acqua, ma che io resistevo, diventavo come legno vecchio, come ghiaccio, non
scorrevo secondo il mio corso e così allontanavo da me la soluzione. Ero
disperata: più provavo, più creavo resistenza, mi angosciavo, mi allontanavo
dal risultato, provavo forsennatamente e la resistenza aumentava, e così via.
Un suo amico,
ad un certo punto, cercò di imbottirmi di whisky, dicendo che così mi sarei
rilassata sicuro, e che qualcosa avrei visto per forza.
Diceva che da
sbronzo aveva avuto un sacco di visioni.
Meditavo,
Maggie mi portava tonnellate di Sweet Grass, White Sage, Cedro e mi fumigava
come un salmone, ma io non riuscivo mai a lasciare tensioni e pensieri.
Arrivavano
violenti, nel mezzo del silenzio che lottavo per creare, deridendomi,
sbatacchiandomi di qua e di là, e io diventavo come una belva in gabbia.
“Eppure hai
una grande esperienza” diceva Maggie: “C’è così tanto potere in te, e lo
sprechi con quel terrore che ti porti dentro. Hai un mostro che ti divora
giorno dopo giorno e lo rendi forte, invece di fortificare te stessa.”
Eravamo in un
bosco non lontano da casa sua, in un cerchio sacro che lei e alcuni amici
avevano costruito tempo prima di nascosto e, come mi succedeva in quelle
situazioni, avevo la sensazione che la Terra e il Cielo mi stessero ascoltando
molto attentamente.
“Ho paura,
Maggie! Sempre, anche quando non me ne rendo conto. Ho paura che tutto questo
sia solo follia, di essere semplicemente una donnetta disadattata e
schizofrenica. Ho paura che continuerò a cercare per il resto dei miei giorni,
invano, che non succederà mai niente, che lui non esista, che sia solo frutto
della mia fantasia malata! Andiamo, ma chi sono io per avere avuto un ruolo
così importante in un altro tempo? Chi sono io per essere stata così importante
a fianco di una così Grande Anima? Io non sono niente, sono solo Marabel!”
Lei sedette
accanto a me, sventolandosi con un ventaglio di penne d’aquila vecchio di
trecento anni, quella criminale: “Vediamo un po’…quanti anni avevi quando
iniziò la xenoglossia?”
Sospirai:
“Uno e mezzo, poco più, lo so, ma…”
“E poi la tua
reazione alla vista della Maschera…otto anni, no?”
“Si, è vero,
ma…”
“E poi una
decina di anni che con al vostro amico ipnotista…”
“D’accordo,
ma…”
“Pensavo ti
fidassi di lui”
“Si, di lui
si!” esclamai con forza: “È di me che non mi fido!”
Lei rimase in
silenzio.
Qualcosa
friniva tra l’erba, un topolino correva sulle pietre lisce che formavano il
cerchio con un fiore di trifoglio in bocca, più grosso di lui, e diverse
piccole farfalle azzurre si rincorrevano nell’aria.
Guardai verso
il bosco, con il cuore in pezzi: se lui fosse arrivato da là, come per caso,
attratto dal profumo della Sweet Grass, chiedendo se non disturbava…ecco,
allora il mondo sarebbe stato un luogo perfetto, dove poter essere
completamente felici.
Ma non
arrivava nessuno, eravamo sole.
Non arrivava
mai…
“Forse si
chiama Godot…” commentai amara.
“Pensi che
ripetendoti che non lo troverai mai renderai più facile incontrarlo, Mary?” No,
certo che no, ma avevo ormai ventotto anni. E se lui fosse stato fidanzato?
Perché mai avrebbe dovuto ricordarsi di me o credere alla mia esistenza? Forse
lo avevo già perduto senza averlo mai trovato.
“Marabel, noi
siamo vecchi pazzi nostalgici di un passato eroico che non esiste da almeno un
paio di secoli. Giochiamo a fare i Medicine People con oggetti che
appartenevano agli antenati, così, come fanno i bambini con le cose di mamma e
papà, per sentirci grandi.
Molti di noi
non ricordano che poche nozioni di ciò che ci apparteneva, siamo indeboliti, le
nostre conoscenze mescolate con robaccia di importazione, convinzioni religiose
che ci furono inculcate a forza di botte nelle scuole dei bianchi.
Molti di noi
hanno trovato il coraggio di essere indiani solo da adulti e non sapevano che
pesci prendere, non sapevano nemmeno quale fosse, o fossero, le loro Nazioni di
appartenenza, perché i loro genitori, i loro nonni, avevano voluto
cancellarne il ricordo e fingevano di essere dei bianchi un po’ scuri di pelle
negando le loro origini, perché erano solo “stupidi indiani”, selvaggi, sporchi
e ignoranti, derisi, umiliati, deprivati della coscienza di sé.
Ho visto
tanta brava gente alzarsi in piedi e dire: “Io sono Indiano!” un giorno e poi
cercare le proprie origini, rovistando nel passato di famiglia, quando
possibile, raccattando un pezzetto alla volta frammenti di sé e ricostruendo se
stessi un frammento alla volta, pazientemente, meticolosamente, spesso nemmeno
per intero.
Nelle scuole
al di fuori dalle Riserve, se un ragazzino manifestava idee legate alle proprie
tradizioni, se non diceva le preghiere all’amorevole dio dei bianchi, veniva
picchiato.
La
salvaguardia dei bambini non valeva per i piccoli selvaggi: dovevano essere
sottomessi, umili, obbedienti, cristiani e possibilmente molto praticanti,
meglio se dimenticavano totalmente le loro sporche origini, e dimenticare
sembrava l’unico modo per sopravvivere. Ma io mi chiedo che sopravvivenza sia,
se non hai la più pallida idea di cosa e chi sei.
Se ti
uccidono, uccidono il tuo corpo, non la tua cultura, la tua storia, la tua
coscienza, se ti tolgono la consapevolezza di ciò che sei, allora hanno vinto:
una cultura è davvero morta per sempre, non ne esiste nemmeno più il ricordo su
qualche vecchio libro e non hai modo di riscoprire più niente, resta solo un
vuoto silenzio; quando una cultura muore, per quanto gli ignoranti ridano,
tutto il mondo muore un po’ e quel che è perso è un pezzo del cuore del mondo.
Occhi vuoti,
occhi senza coscienza, occhi che si guardano attorno smarriti o non fanno più
nemmeno questo, affogati nell’alcool agli angoli delle strade…ricordi,
Mary?
‘Il
viaggio mi stancò. Ma mi ricordo di quando attraversammo Gallup in macchina.
Vidi Navajo con le giacche vecchie e stracciate, in piedi fuori dei bar.
C’erano anche Zuni e Hopi e anche alcuni Laguna. Piegati in due contro le mura
sporche dei bar lungo l’autostrada 66, con gli occhi che fissavano il terreno
come se si fossero dimenticati del sole nel cielo; o forse quello era il modo
in cui si sognavano il vino, cercandolo in mezzo al fango del marciapiede.
Questi
siamo anche noi, pensai tra me. Questa gente accovacciata fuori dai bar, come
mosche morte appiccicate al muro.’
”
Recitò a
memoria, con gli occhi chiusi e la faccia verso il sole che scivolava verso il
crepuscolo. “Ricordi questo passo, vero?”
Annuii:
avevo letto Cerimonia (“Ceremony” Leslie Marmon Silko)
molte volte, da quando vivevo con un piede a New York e uno a Boston,
lasciandomi fagocitare da quel pugno di studiosi rossi.
“Vuoi dire
che non siete davvero sciamani?” domandai, con il cuore stretto dalla
delusione: “No. Non ho detto questo, ma è bene che ti avverta: un tempo avevamo
un grande potere. Nascevamo così, poi andavamo a cercare gli strumenti e la
conoscenze che ci occorrevano, ma il potere scorreva dentro di noi comunque,
come voleva, secondo la propria natura, come un grande fiume possente.
Oggi, quando
scorre, è nascosto e sopito, fragile, dalla voce sommessa di un ruscello tra le
erbe. Per poter gridare deve essere molto curato, nutrito, protetto, o ti
scivola via tra le dita.”
Cominciavo a
capire cosa intendesse dire: “Sono frammentata e devo aver cura del mio
potere?”
Maggie
sorrise: “È un peccato terribile lasciar morire la propria Magia, Mary. Muore
in te, muore nella Terra, se ne va via dal mondo.”
Scrollai le
spalle, amara: “Ma a cosa mi serve? E se fosse tutto sbagliato? Se stessi
inseguendo una specie di chimera perché ho semplicemente qualche problema
mentale?”
“Già. È
questo che direbbero gli pisclogiogi bianchi, eh? Il tuo potere è la parte più
preziosa di te. Non sei nemmeno una donna a metà, se lo perdi.”
Aveva i
capelli sciolti con una treccia sulla sinistra. Erano più chiari dei miei.
Anche gli occhi lo erano.
Settimane
prima una paleontologa Newyorkese, una collega di papà, mi aveva detto,
osservandomi con soddisfazione, che sembravo una giovane donna Comanche.
Mi piaceva,
anche se non avevo capito bene perché proprio Comanche, a dire il vero, ma
poteva essermi utile: potevo mollare tutto e scappare a nascondermi in
territorio Comanche, fingendomi una urban indian woman, come ce ne sono
a bizzeffe…forse ci sarebbero cascati.
“Non ti piacciono
gli psicologi, eh?”
“Nooon quelli
bianchi. O neri. O gialli. Nemmeno rossi, se ragionano come i bianchi, ecco!
Come diventerebbe la tua vita?”
Scrollai di
nuovo le spalle: “Razionale. Normale. Lavoro, una famiglia. Un uomo normale,
reale, rassicurante. Potrei sposare un Nativo, che dici?”
Lei fece una
smorfia: “Na, quelli non sono razionali, né normali. Ritenta.”
“Uno
psicologo rosso razionalizzato e civilizzato.” Buttai là.
Maggie mi
guardò come fossi stata un insetto ripugnante: “Non provarci nemmeno! Ti
disconosceremmo subito o ti rincorreremmo a calcioni da qui alla costa Ovest,
fino a farti rinsavire!” strillò.
Ridacchiai,
ma poi tornai alla mia depressione: “Voglio vivere, Maggie. Voglio persone che
non scappino da me quando si rendono conto che qualcosa non va, che non mi
vedano come una pazza, senza peraltro sapere cosa veramente io nasconda. Non
voglio essere eccentrica, o con turbe della personalità…ho avuto amici, a
volte, o così ho creduto, per un po’.
Ho avuto un
paio di fidanzati e non riuscivo a non sentirmi male perché erano lì per
riempire un vuoto, in un posto che non gli apparteneva, perché li guardavo e,
per quanto mi sforzassi, non li riconoscevo. Erano lì perché, se non hai un
fidanzato, almeno uno ogni tanto, la gente ti guarda con molto sospetto e
commiserazione. Erano lì perché stavo provando disperatamente ad avere una vita
normale.
Sono uscita,
sono andata a feste, a cene, qualche volta perfino in discoteca, rimettendoci
le orecchie, ma non funzionava: loro restavano nel loro mondo e io nel mio, un
altro mondo, un altro tempo.
Per cosa? Non
ho nulla. Non mi sente. Forse non esiste. O se è esistito è morto.”
Mi arrivò un
colpo di ventaglio sulla spalla: “Non dire sciocchezze! Potrebbe avere
trent’anni o venti. Non può essere morto!”
La guardai,
più preoccupata per il reperto usato come arma impropria, che per tutto il
resto: “Dì, ce n’è di gente che muore a vent’anni, sai? Incidenti, malattie,
aggressioni, overdose…oppure è soltanto tutto nella mia testa.” Insistetti,
caparbia.
“Significa
che non ti fidi? Di noi, del tuo ipnocoso?”
Era fine
estate, nel Nord del Massachusetts, e cominciava a fare freddino al tramonto,
forse per quello rabbrividii, tiepida del sole che ancora duellava con la notte
imminente, senza più scaldare: “Non so. Forse sono talmente malata da avere
ingannato tutti, me compresa.
A volte lo
sento. Lo sento così vicino, come se fosse a pochi metri, tanto che mi volto a
guardare se per caso sia alle mie spalle. A volte sento toccare i capelli,
all’improvviso, sento una mano, la pressione delle dita, il pollice un po’
distaccato, come appoggiasse la mano sulla mia tempia. Sembra una mano grande,
ma leggiadra. Altre volte sento le sue mani, le dita sfiorano le mie, le sento
chiudersi attorno alle mie, così tangibili e reali, che penso mi appariranno,
così, dal nulla. A volte sento qualcosa che tira come una corda dallo sterno,
dolorosa, verso un dove che non so quale sia, ma…ma forse soffro solo di
aritmie, perché non succede mai niente.”
“Sai che in
diversi posti agli Sciamani veniva fatto l’elettroshock? Sai che in Unione
Sovietica appartenenti alle popolazioni siberiane che manifestano particolari
doti di trans o guarigione, vengono ancora spediti nei manicomi, si?”
Lo sapevo.
Come non saperlo, visto il mestiere di mio padre?
Avevamo
superato appena la metà degli anni ottanta, la Glasnost era ai suoi inizi e le
molte cose che stavano per cambiare, ancora non lo erano.
“E quindi?”
“E quindi, le
tue paure non sono così strane. Ai nostri bisnonni non sarebbe successo, ma
oggi, avviluppati in questa spirale materialista, soprattutto per voi che ne
siete imbevuti da secoli, la pazzia è l’unica risposta a ciò che è al di fuori
delle vostre quattro misere esperienze.”
Si piazzò di
fronte a me, seduta a gambe incrociate e un po’ protesa in avanti tentando di
apparire minacciosa: “Abbiamo deciso di fare una Cerimonia”
Restai a
guardarla senza rispondere, perché avevo la testa piuttosto vuota, in quel
momento: “Una Cerimonia per strappare da te la tua malattia, perché non c’è dubbio
che ci sia una malattia, effettivamente, ma bada! Se il male è il ricordo, se
tutto questo è un inganno, allora verrà estirpato per sempre, ma se il tuo male
è il tuo tormento contro la tua stessa natura, tutto quello che hai vissuto
fino ad oggi, diventerà più forte. Il tuo potere scorrerà in te come un grande
fiume. Sei disposta a farlo?”
Non mi pareva
di avere scelta.
In ogni caso,
mi sarei liberata dai dubbi, almeno per un po’.
“Non mi
darete il Peyote, vero? Non posso sopportarlo, quella roba fa veramente
schifo!”
Maggie si
prese la testa tra le mani, rassegnata: “No, non ti daremo il Peyote. Useremo i
tamburi, i canti, delle erbe. Devi entrare in uno stato alterato di coscienza
ben più profondo di quello in cui vai in ipnosi, Mary. Molto più profondo.
Nemmeno l’Ayahuasca, vuoi?” le feci una linguaccia e ritornammo verso casa.
*******************************
Quando Maggie
accennò ai miei l’idea della Cerimonia, papà ne fu naturalmente entusiasta,
mamma divenne molto triste e preoccupata: aveva imparato da molto tempo ormai a
vivere una vita sospesa tra razionale, magico e misterioso, aveva, come due
anni prima a Luxor, vissuto esperienze fuori dalla realtà ordinaria senza
volerle, ma questo continuo addentrarsi in mondi sempre più lontani, sempre più
separati da quello reale e quotidiano in cui teoricamente viviamo, la
preoccupava molto.
Mi vedeva
sola, temeva cosa sarebbe stato di me quando, un giorno o l’altro, loro non ci
fossero più stati a condividere il mio cammino, mi vedeva, mi temeva, solitaria
e abbandonata.
Papà riteneva
che, qualsiasi cosa fosse successa, avrei sempre trovato un aiuto, un incontro,
qualcuno dal cuore magico ad accompagnarmi al posto loro, e l’incontro con
quella manciata di Stregoni, secondo lui, era la cosa migliore che mai avrebbe
potuto succedermi.”
Il cameriere
passò lasciando un piattino di plastica con pezzetti di wurstel, paté di olive,
quadratini di formaggio e tocchetti di arrosto: “Non sapevo cosa potesse
piacergli, ma ho notato che ha tentato di rubare il panino con il paté di olive
a quella studentessa, prima. Ho pensato che avesse ancora fame!”
Lo guardai
senza capire: “Chi?”
“Il cane!
Mentre voi parlavate ha…abbordato quella ragazza con la treccia per farsi dare
il paté di olive!” spiegò imbarazzato, manco fosse stato lui ad importunare la
biondina: “Oh! Eravamo così prese che…ma lo sto tenendo al guinzaglio e…”
osservando meglio mi resi conto che il guinzaglio, che avrebbe dovuto essere
infilato nella gamba della sedia, era appoggiato a terra libero, e che il
malnato doveva essersela svignata alla chetichella, aver commesso il delitto, e
poi essersi risistemato sotto il tavolino come niente fosse, millantando una
‘prigionia’ del tutto inesistente.
Saltai in
piedi e questa volta legai il guinzaglio alla spalliera con due nodi. Diventava
corto, così, e il criminale mi guardò con sdegnato disappunto: “Figuracce! Mi
fai fare un sacco di figuracce, non ti vergogni? Abbordare le signorine,
adesso!!”
La ragazza,
poco più in là, vide che lo sgridavo e gli fece ciao con la mano: “È cooosì
carino!” mi disse.
Marabel si
era appropriata del piattino e lo stava imboccando, imponendogli una coccola ad
ogni boccone.
Ma possibile
che soltanto io, su tutto il pianeta, fossi preoccupata per l’educazione di
quel misterioso oggetto nero che risucchiava inesorabilmente qualsiasi cosa
entrasse nel suo raggio gravitazionale?
Dubitavo
perfino che la materia catturata riuscisse a produrre una debole emissione di
raggi X, prima di scomparire.
La mezz’ora
seguente passò tra bocconcini e coccole di praticamente tutti gli avventori del
locale e, al momento di pagare, ci omaggiarono la seconda portata per il cane,
quella del paté.
Io, poco
prima, avevo insistito per pagare un altro panino alla ragazza, che rideva come
una matta: sarebbe andata al mare entro due settimane, disse, e sicuramente il
cucciolo le aveva evitato un accumulo di ciccia in vista della prova costume.
Andando verso
casa mi procurai in gastronomia una scorta di zucchini in carpione e tomini al
verde per venti, mentre Marabel correva a caccia di pesche di vigna.
Non so con
quale coraggio, ma Grigno mugolò tutto il tragitto, tentando di convincermi a
dargli un bocconcino. L’unica cosa che pareva non attirarlo erano le pesche.
Io lo
guardavo in cagnesco, lui mugolava, Marabel camminava piegata in due dalle
risate.
A casa i
gatti, sfiniti sul divano, dichiararono di aver subito in nostra assenza
un’invasione aliena, da cui erano usciti vincitori per un soffio e che quelli
sparsi per tutta la casa, che sembravano coriandoli di carta da cucina, erano
in realtà residui di armi di sterminio di massa.
“Va bene.
Immagino lo facciano per il nostro bene: un po’ di moto prima di cena non fa
sicuramente male, in fondo abbiamo camminato per appena tre chilometri.”
Borbottai mentre iniziavo ad infilare coriandoli in un sacco per la spazzatura.
Terminai il
lavoro con l’aspirapolvere (cane e gatti fuggirono in terrazzo, assolutamente
contrariati), poi mi lasciai cadere sul divano.
“Penso io
alla tavola.” Disse Marabel: “D’altra parte, abbiamo un’ottima cena fredda,
niente da preparare. Ho preso della bresaola mentre ti raggiungevo”
Mi voltai
verso il cane: “Scordatelo!” lo prevenni.“Allora…questa cerimonia?”
“Avvenne con
la Luna Piena, pochi giorni prima dell’Equinozio d’autunno. Su mio desiderio,
Maggie chiese a mamma e papà di non assistere, perché era giusto che
percorressi quel cammino da sola.
Mamma forse
ne fu sollevata, papà deluso: assistere a rituali era uno dei suoi sport
preferiti, ma, naturalmente, poteva praticarlo di rado.
Oltre a
Maggie c’erano tre suoi amici, due dei quali mi erano ben noti: Robert, un uomo
sulla quarantina, Cheyenne con contaminazioni Assiniboine, probabilmente l’uomo
più bello che avessi mai incontrato, poi un Mi’kmaq mischiato Tuscarora, un
omino molto anziano che pareva uscito da un vecchio film western,
simpaticissimo e tenero.
Il terzo, che
non avevo mai visto, mi lasciò molto perplessa: portava Rayban a specchio,
capelli che a malapena gli sfioravano le spalle, spalmati di gel, masticava
gomma e vestiva alla moda. Più che alla moda. Eccessivamente alla moda.
Si guardava
intorno e ridacchiava, mimando con testa e braccia movimenti di danza al ritmo
di una musica presente solo nella sua testa, che canticchiava sottovoce per i
fatti suoi.
Non mi parve
molto intelligente, anzi, pensai dovesse avere qualche problema.
Mi lanciò
un’occhiata che mi fece sentire molto svestita, facendo scoppiare una bolla di
chewing gum.
Non potevo
credere che fosse amico di Maggie e Robert, che diamine!
Cosa ci
faceva tra quella gente? Un chiaro, eclatante esempio di urban indian
d’assalto, firmato dalla testa ai piedi, belloccio, superficiale, vanesio,
insomma, uno di quei ragazzotti da discoteca che si incontrano nelle grandi
città, nullafacenti e ciondolanti perennemente a caccia di ragazze, ridanciani,
modaioli da branco, con il cervello di una cellula procariota.
Guardai i
miei amici disperata: ma che gli era preso? Non lo volevo quel tipo!
Robert gli
disse qualcosa che non capii e l’altro si allontanò col suo passo dondolante,
non prima di avermi lanciato un’altra occhiata ammiccante e una strizzatina
d’occhio.
“Non
farti ingannare, Mary. Quel ragazzo è zeppo di Magia dalla nascita, un pezzo da
novanta. Ha ventiquattro anni e si è laureato con il massimo dei voti in Biologia
all’Università Salish Kootenai, poi ha fatto un master a Yale con borsa di
studio. Fisica. Ha sbaragliato tutti, bianchi, neri e così così, facendo
incazzare parecchi docenti e un numero ancora maggiore di genitori di studenti.
Ora si è iscritto Storia e Cultura Indigena, sempre al SKC, che non c’azzecca niente, ma lui è contento così. Un
gran cervello, deve tenerlo allenato, sennò va in crisi.”
Ero
totalmente basita: non avrei pensato potesse possedere più di un neurone per
emisfero.
“La sua
particolarità è la visione oltre i mondi. Viaggia in dimensioni sciamaniche, in
altre realtà, un paio di volte è stato visto in un posto mentre si trovava a
casa sua a mille chilometri di distanza, con tanto di testimoni sobri da tutte
e due le parti. È Salish e Blackfeet…un Nativo puro, non ha una sola goccia di
sangue non indigeno.”
Avrei dovuto
sospettarlo dal viso quasi imberbe, ma avevo pensato fosse per la giovane
età, prima di rendermi conto che se un uomo non ha la barba a ventiquattro
anni, difficilmente l’avrà a trenta.
“Ma mi guarda
come fossi un bignè!” protestai.
Robert mi
rivolse il sorriso più affascinante e sornione del suo repertorio: “È tutta
scena: è timidissimo!” spiegò cospiratore.
Lo fissai
sgranando gli occhi. “È la verità!” insistette.
Vedendo che
non ero convinta, sedette paziente di fronte a me: “È nato nel Montana, nella
Riserva Flathead, terzo di quattro figli. Ascendenza sciamanica da un numero
imprecisato di generazioni. Sempre vissuto nella Riserva fino…fino a quando la
sorella maggiore…beh, ha fatto una brutta fine. Una gran brutta fine.
Ci fu un
processo e il Consiglio di Banda raccolse un bel gruzzolo perché potessero
permettersi avvocati di grido, in grado di opporsi agli avvocati degli
imputati. Era appena passata la bufera di Wounded
Knee, c’era un sacco di nervosismo in giro (l’occupazione
di Wounded Knee da parte di duecento Nativi armati dell’AIM, che tennero in
scacco gli Stati Uniti dal 27 febbraio 1973 all’8 maggio dello stesso anno.
n.d.a.).
Vinsero il
processo, creando un precedente e parecchio malcontento nella popolazione
americana, gli imputati furono condannati a trent’anni di galera ciascuno, ma
non ci furono risarcimenti, così la famiglia di Floyd si trovò sul lastrico e
il padre accettò un lavoro presso un grande cantiere di Seattle. Sai, la
vecchia storia dei selvaggi buoni a salire in cima alle impalcature più alte
senza cadere, e se cadono pazienza.”
“Ma…dopo
tutte le proteste…non erano cambiate le cose?”
Lui scosse la
testa: “La gente aveva paura, Marabel. Per un secolo i selvaggi erano stati
zitti e buoni nelle riserve, a morire di alcol e di suicidio, o nei bassifondi
a fingere di non esistere. Poi, all’improvviso, erano usciti, e si erano messi
a marciare. Era arrivata gente come Russel Means, Dennis Banks, Leonard
Peltier, Carter Camp…avevano catalizzato l’attenzione di tutti i telegiornali e
il mondo li aveva visti. Tutto il mondo.
C’erano
televisioni di tutti i continenti, i giornalisti volevano vedere cosa stesse
succedendo, volevano vedere quella gente vestita con abiti da selvaggi e
copricapi di penne e faceva quei “versi” spaventosi, non come gli urletti
ridicoli degli ispanici con facce sporche e parrucche in testa nei film, quelle
erano grida di guerra vere, suoni che gli altri, non nativi, non erano in grado
di emettere.
Tutti si
chiedevano cosa volessero costoro, molta, moltissima gente, al di fuori delle
Americhe, si stupiva del fatto che “gli indiani” esistessero ancora.
Fecero un
sacco di rumore, anche quando restavano in silenzio.
Il mondo
guardava affascinato duecento selvaggi armati e dalle facce coperte che
tenevano testa all’esercito più potente del mondo, ma gli americani erano molto
a disagio, erano spaventati. Una brutta gatta da pelare per il Governo.
Al processo,
appena un anno dopo, non fu facile, nonostante il bel gruzzolo, trovare
avvocati in carriera che avessero voglia di sobbarcarsi una simile
responsabilità, ma le prove contro gli imputati erano schiaccianti e i
testimoni, nonostante le minacce, non si tirarono indietro. E alla fine si
giunse ad una specie di accordo: la galera, ma niente risarcimento.
Sarebbe stato
troppo, gli avvocati della difesa patteggiarono, a quelli dell’accusa non parve
vero di poter vincere una causa in cui la vittima era una sedicenne Salish e
gli imputati un ispanico e due bianchi. Fu necessario accontentarsi, d’altra
parte, l’aver mandato in galera quei tre era l’obiettivo della Tribù, di tutte
le Nazioni.
Così Floyd si
trovò ad andare alle scuole bianche, in città, paradossalmente una città che
porta il nome di un Capo Indigeno, e all’inizio fu dura: subiva ogni giorno
scherzi crudeli, botte, gli insegnanti non vedevano, anzi, spesso non perdevano
occasione per dare contro al ragazzino, ma lui, quatto quatto, prese il
diploma con il massimo dei voti, nonostante lavorasse in cantiere con il
padre e il fratello appena poteva.
Non aveva
bisogno di distrazioni, di cinema, di amici: i suoi amici, la sua famiglia,
erano nella Riserva, in città ci stava per studiare e lavorare e se non
studiava, affinava le sue capacità, poi, quando tornava a casa, spariva sulle
Montagne alla ricerca del suo potere.”
Piegò la
testa da una parte, osservandomi: “Sai…è cresciuto fingendo di essere un altro
per stare tranquillo e non destare sospetti. Ti ricorda mica qualcosa?”
Abbassai lo
sguardo. “Lui non è un malato di mente, è sano. Lui è magico!” bofonchiai.
Robert
ridacchiò: “Non lo sarebbe, se fosse un bianco. Sarebbe solo un pazzo, un
cialtrone, un pericolo per la gente per bene. Magari un indemoniato.”
Sospirai,
incapace di distaccarmi dai miei pensieri cupi e quando alzai gli occhi restai
a bocca aperta: riconobbi Floyd a fatica, soltanto per i capelli quasi corti.
Aveva dei
gambali tradizionali di pelle, una pittura nera su metà della faccia serissima,
gli occhi dal taglio elegante ancora più neri che splendevano impressionanti in
quella fascia di pittura che dalla fronte arrivava fino a metà del naso, un
ampio pettorale di corno e un’acconciatura Salish, con i capelli liberi attorno
e presi in un grosso ciuffo al centro, in cui aveva fissato lunghe penne di
corvo reale. Sul corpo e sulle braccia aveva segni bianchi trasversali, e
orecchini di pelle e perline alle orecchie.
Spogliato
dagli abiti firmati, rivelava un corpo slanciato e perfetto, messo in risalto
dalla pelle bronzea ed elastica e dall’eleganza innata del suo popolo, un gran
ben di Dio, insomma.
Lo stesso
valeva per Robert, che era pure un metro e novanta, ma a lui ero bene o male
abituata: lo ritenevo un’ottima cura per la vista, una di quelle cose, come i tramonti
sulle montagne e le mareggiate sulle scogliere, che ritemprano gli occhi.
Anche Maggie
e l’anziano Mi’kmaq si erano cambiati,
ma non avevano un aspetto particolarmente minaccioso e, in ogni caso, Maggie
non ci sarebbe riuscita manco volendo.
Si cambiò
rapidamente anche Robert, spalmandosi pittura rossa su mezza faccia, con
indosso soltanto un perizoma, acconciature di pelle, penne e piccole ossa tra i
lunghissimi capelli, righe rosse verticali che scendevano lungo il corpo, fino
ai fianchi.
Immagino che
così com’era, molto dipinto e quasi niente vestito, dovesse risultare parecchio
inquietante, ma io me ne sentivo molto protetta, rassicurata, e tra me
ridacchiavo immaginando l’impressione che avrebbe fatto sulle brave ragazze di
Londra, New York, o di Boston, ad un quarto d’ora di macchina…era selvaggiamente sexy.
Il vecchio si
avvicinò: “Ti sei purificata in questi giorni?”
Lo guardai
imbarazzata: “Ho fatto un paio di saune…e bagni al rosmarino. E sale! Ci ho
messo anche il sale.”
Maggie alzò gli
occhi al cielo, Robert e il Vecchio, risero.
Floyd rimase
immobile, gli occhi nerissimi che risplendevano nella sera. Pareva già in un
altro mondo.
Sarebbe
sembrato una statua se non fosse stato per il lieve movimento del respiro e
qualche raro battito di ciglia, a parte che nessuna statua ha mai avuto uno
sguardo simile.
“Perché va in
giro come uno stupido tutto firmato?” pensai, senza nemmeno guardarlo, eppure
gli occhi immobili ebbero un guizzo severo verso di me, come avesse sentito.
Mi ripromisi
di pensare più piano, in seguito, fingendomi attenta ai gesti di Maggie, che mi
cospargeva di cenere faccia, braccia, gambe.
Indossavo una
magliettina bianca, una gonna leggera, ampia e lunga color avorio e così, tutta
ricoperta di cenere, dovevo sembrare in lutto stretto. Pregai che non mi
tagliassero i capelli, proprio mentre Robert si avvicinava con un coltello e
zac! tagliava via una grossa ciocca.
Non reagii:
lo avrei ucciso in seguito, con calma.
Maggie mi
fumigava con Salvia e Cedro, un mazzetto aperto cimiva sulle braci al centro
del cerchio, Robert mi porse un bicchiere di plastica con una poltiglia verde
dall’aspetto alieno: “Tranquilla, non è Peyote. Nemmeno Ayahuasca. E nemmeno
altra roba interessante.” Sogghignò.
Ne presi un
paio di sorsi, sospettosa: faceva schifo quasi quanto il Peyote, comunque.
Lo Cheyenne
ridacchiò e restò a controllarmi per qualche istante, prima di tornare accanto
a Floyd.
Mi sentivo
intorpidita: avrei voluto che quei brutti ceffi non mi obbligassero alle loro
bevande da visioni, ma Maggie aveva detto, il giorno precedente, che era colpa
mia. Se io non fossi stata così razionale, così distratta, incapace di pensiero
mirato e coerente, così bianca, europea e civilizzata, insomma, non ce ne
sarebbe stato bisogno, al massimo mi avrebbero dato una camomilla.
Nel torpore
cominciai a sentire il suono dei tamburi.
Erano di
quelli piccoli, facili da trasportare ed erano soltanto due, ma il suono mi
sembrava così profondo, si propagava e moltiplicava tanto da sembrare di essere
nel bel mezzo di un pow wow.
Molto meno
festoso di un pow wow, anzi.
Maggie aveva
un antico sonaglio di una sua tris-tris-trisavola, il vecchio Mi’kmaq batteva
tra loro due grosse pietre nere.
Davanti ai
miei occhi chiusi danzava uno stupido bicchiere bianco di plastica. Stonava.
Perché avevano usato un bicchiere di plastica? Ne avevamo bicchieri a casa, no?
Mi resi conto
che i miei pensieri stavano prendendo un ritmo strano.
La faccia
dipinta di Floyd si accavallava al bicchiere di plastica, era orribile, vedevo
quegli occhi neri e lucenti come Ossidiane attraversarmi severi, quasi feroci,
guardandomi attraverso un bicchierino di plastica.
Provavo
fastidio, odio, una rabbia incontrollabile verso quell’affare, dovevo
distruggerlo!
Ancora non lo
sapevo, ma non avrei mai più sopportato nemmeno la vista dei bicchierini di
plastica, in seguito.
Cercavo di
scacciarlo da davanti agli occhi con le mani, e più lo scacciavo, più diventava
grande, tangibile, tanto fisico che pensavo davvero di poterlo afferrare e
schiacciare.
Dietro, lo
sguardo di Floyd mi arrivava da un tempo infinitamente lontano.
La terra era
calda, fiumi di magma scorrevano attorno a me, il calore mi faceva bruciare la
faccia, lui era immobile, mi fissava senza vedermi, perso nel suono del tamburo.
Il
bicchierino di plastica mi danzava davanti agli occhi, saltellando divertito
dalla mia ossessione.
Ossessione.
Perché Robert
aveva usato un bicchiere di plastica?
Avevano
strumenti magici antichissimi che tenevano ben nascosti, Maggie aveva un ripostiglio
sotto il pavimento, non si fidava nemmeno a tenerli in cassaforte. Avevano
tutte quelle cose, possedevano dei bicchieri di vetro, se non scodelle vecchie
di un secolo, perché il bicchierino di plastica?
Rideva. Il
bicchiere rideva. Assurdo.
Volevo vedere
il sorriso sdentato del Vecchio.
La faccia
perfetta di Robert.
Gli occhi di
Floyd.
Le movenze
pazienti di Maggie.
Vedevo solo
il bicchierino di plastica, anche se mi fregavo gli occhi.
Bianca,
europea, civilizzata.
Razionale.
Frammentata.
La civiltà è
un bicchiere di plastica.
La terra
gridava, la lava scorreva tra le rocce giovani, i continenti si formavano neri
come gli occhi di Floyd, fertili, non appena si fossero raffreddati i fiumi di
fuoco.
Perché ero
lì?
All’alba del
Mondo con un bicchierino di plastica.
In ginocchio
su quella roccia mezza affogata nel magma, scoppiai a piangere, cercando di
ghermire quel coso anacronistico e assurdo.
La malattia.
Mi
immobilizzai.
I tamburi
erano tanti, duecento, duemila, non due.
Il Vecchio
batteva due pietre nere una contro l’altra.
Floyd
cantava, un canto che non avevo mai sentito prima, né avrei mai più sentito:
sapevo di cosa si trattasse. I canti di potere di famiglia, i canti sacri, i
loro tesori più preziosi e segreti, la loro Magia.
Lo cantava
per me.
Ventiquattro
anni e così tanto potere.
“Hai un così
grande potere dentro di te, e lo sprechi con queste sciocchezze!” gridava
Maggie in un tramonto primordiale.
Il primo
tramonto sulla Terra.
La malattia è
un bicchierino di plastica.
Dimenticatene.
Segui il
canto.
La voce di
Floyd era quasi femminea, a tratti, poi tornava a prendere forza dalle
profondità della terra, si univa a quella di Robert, crescevano insieme, si
allontanavano, tornavano ad incrociarsi, come volute di fumo d’incenso.
La voce dei
Nativi è come il vento sulle pianure. È la Voce dell’Anima.
Lasciati
rapire.
Potresti non
tornare indietro.
Attenta!
Forse dovresti aggrapparti al bicchierino di plastica.
Non c’era più
il magma, solo fumo, dalle pietre calde che ancora solidificavano.
Una figura
alta e scura veniva verso di me.
Un uomo
giovane, capelli neri sulle spalle, una lunga tunica nera di una stoffa simile
a seta, ma più spessa.
Aveva un viso
che conoscevo, color bronzo vecchio.
No, bianco.
No, un po’
olivastro.
Bruno.
Le labbra
piene, gli occhi dorati.
“Ti ricordi?”
non sentivo la voce, ma le sue labbra formavano quelle parole.
“Do You
remember?”
“Ti ricordi?”
“Toi te
rappelle?”
“Ti ricordi,
Is?”
Non riuscivo
a muovermi. Volevo gridare, afferrarlo: “Mi ricordo! Si, io so chi sei! Dove
sei? Dove sei, dimmi dove sei!” gridai.
“Ma di te, ti
ricordi?” ma che mi fregava di me!
“Mi stai
rifiutando, Is. Perché non mi vuoi?” lo fissai terrorizzata: IO lo stavo
rifiutando? Io avevo vissuto tutta la vita cercandolo! Cosa stava dicendo?
“Mi mandi
via. Abbracciami, Is. Non tenermi lontano.”
Un
bicchierino di plastica danzava davanti alla sua faccia.
Qualcosa mi
portò via, un vento caldo, la lava di un vulcano.
Ora la terra
era verde. C’erano montagne, laghi, foreste. Il cielo blu era pieno di stormi,
lontano, nel mare, un paio di megattere giocavano a spatasciarsi tra i flutti.
Ero molto
lontana, ma mi pareva che gli spruzzi arrivassero fino a me.
A noi: lui
era accanto a me.
Vedevamo
tutto dall’alto, ma non eravamo su un’altura o su un promontorio.
Galleggiavo,
o qualcosa del genere, in una bolla trasparente. Forse però non era una bolla.
Lui era alle
mie spalle, appoggiato a me, io appoggiata a lui. Sentivo la morbida solidità
del suo corpo, ma non restavo solo appoggiata, avevo la sensazione di
sprofondare in quella morbidezza come in un qualcosa di non totalmente fisico.
Era bello,
una sorta di estasi costante.
Stavo facendo
qualcosa, davanti a me c’era un piano, un tavolo, qualcosa di semitrasparente
su cui ero affaccendata. Muovevo le mani e lui le sue, senza una parola: era
come se le nostre azioni fossero quelle di un solo essere, come un individuo
con quattro mani.
Non c’era
bisogno di parlare. Non dovevamo spiegarci, darci indicazioni, ci muovevamo in
perfetta armonia.
Era così
sempre e da sempre.
Dall’inizio
del tempo.
Da prima, da
dopo.
Non so come
lo sapessi, ma lo sapevo, ero abituata, era il nostro stato abituale, quello.
La gente lo
sapeva.
Noi non
lavoravamo, non facevamo le cose separatamente, la nostra natura era di essere
così. Due corpi, una mente. Due corpi che si beavano dell’essere uno contro
l’altro, come immersi uno nell’altro, alla faccia della solidità della materia.
Due esseri che, vicini o meno, erano Uno.
E basta.
Due per
essere Uno.
Ma quale gente
sapeva? Che lavoro? Cosa facevamo, così? Non mi importava, qualsiasi cosa non
era importante, era bello, era perfetto, era come doveva essere!
“Guarda!”
disse lui con la guancia appoggiata alla mia tempia, le labbra che mi
sfioravano la pelle, leggere, morbide. Guardai dove indicava e vidi una grande
terra verde.
Non aveva
senso! Non c’è alcuna terra, là! C’è solo oceano!
Il
bicchierino di plastica riapparve, danzava tra me e l’immagine di quella terra,
si infilava tra me e lui, non più le sue labbra contro la mia fronte, ma la
sensazione sgradevole di quell’affare bianco.
Impossibile.
Invadeva il
mio campo visivo nella sua beffarda assurdità.
“Non esiste
alcuna terra, là! Soltanto Oceano, fino alle Galapagos e alle Hawaii!”
dissi
strizzando gli occhi per osservare meglio, oltre quell’ostacolo fastidioso.
Eppure c’era
una terra verde.
C’erano
laghi, montagne, pianure percorse da mandrie di qualcosa che, da grande
distanza, sembravano cavalli. C’erano costruzioni gigantesche, eleganti,
affogate nel verde, gradinate, strade bianche lisce come seta che si snodavano
tra le foreste.
Eravamo
lontani, molto, ma mi arrivava l’odore delle pinete, del mare, della neve sui
rilievi.
“Non è
possibile, non c’è niente là! Soltanto acqua!”
“Stai
attenta! Non farti prendere da loro”
Da chi? Chi
erano loro?
“Non ricordi?
Non ricordi davvero, Is?”
Scomparve.
Un minuscolo
vermetto danzava a mezz’aria.
Alzai gli
occhi: era appeso ad un filo di seta sottilissimo che scendeva dall’albero
sopra di noi. Strano, mi pareva che gli alberi fossero a parecchi metri dal
Cerchio, si vede che mi ero sbagliata.
Era carino:
sottile, lungo si e no come l’unghia del mio mignolo, marroncino, si contorceva
appeso a quel filo come un acrobata.
Nella poca
luce serale, attorno a lui vedevo nitidamente un alone di luce. “Che grande!”
pensai. L’aura di quel vermicello, così minuscolo, brillava di un colore
chiaro, aranciato, grande come una moneta da mezzo dollaro. Si stava divertendo
un mondo in quelle acrobazie, era felice.
Mostrava a se
stesso e all’Universo la sua bravura.
Restai a
guardarlo incantata, ammirata dalla sua abilità.
Un rumore mi
distrasse, come una musica gracchiante. Ero in centro commerciale affollato,
doveva essere sabato pomeriggio.
Lanciai uno
sguardo al vermetto per essere certa che non sparisse e mi voltai verso la
gente che mi sfilava attorno. Camminavano senza espressione, guardandosi
intorno inconsapevoli, scegliendo apparentemente a caso delle cose dagli
scaffali.
Mi davano
l’impressione di non avere la più pallida idea di cosa ci facessero, lì, o di
cosa realmente volessero.
Dagli
altoparlanti arrivavano voci maschili e femminili che pubblicizzavano un
articolo o un altro e la folla, obbediente, si dirigeva nei reparti indicati,
gli occhi fissi nel vuoto.
Se chiedevo
permesso non sentivano, o si fermavano a guardarmi interdetti, come non
avessero capito. Ripetevo: “Permesso?” e solo dopo un bel po’ si spostavano,
incerti. A volte mi stufavo e facevo il giro intorno alle loro facce ebeti.
Vedevo donne
davanti agli scaffali guardare indecise la merce che occhieggiava dalle
confezioni colorate e accattivanti, voltarsi alla ricerca del marito, dei
fidanzato, della sorella, lasciando scorrere gli sguardi vuoti sui presenti,
come incapaci di riconoscere la faccia del proprio congiunto.
Uomini dalle
stesse espressioni spingevano mollemente un carrello, alcuni con un bambino
annoiato in braccio o al fianco. Se piangeva gli mettevano in mano un
giocattolo.
Osservai il
vermicello.
Continuava a
danzare appeso al filo, radiante nella sua stessa luce, felice del suo gioco.
Così piccino,
così semplice. Eppure così pieno di consapevolezza.
Tornai a
guardare la folla: non c’era nessuna luce attorno alle persone che mi
scorrevano accanto, solo una debole fiamma grigio azzurra.
Zombies.
Vagavano,
obbedienti, privi di iniziativa, privi di pensiero proprio, persi in pensieri
ripetitivi, uguali, gli uni come quelli degli altri. In serie. Era bello, per
loro, avere solo due o tre categorie di pensieri con due o tre pensieri per
categoria. Si potevano riconoscere gli uni negli altri, così.
Il vermicello
rideva, in contorsioni sempre più ardite.
“CERCAMI, IS!
Sono qui! Cercami, trovami!”
“Am’n! Dove
sei?” ero fuori.
Sembrava New
York nell’ora di punta: una folla compatta di esseri grigi aspettava immobile
ad un semaforo, scattava il verde, si affrettavano in massa ad attraversare,
andando nonimportadove, purché fosse da qualche parte, purché fosse di fretta.
Qualcuno col
giornale sotto braccio, chi con una borsa, chi con una ventiquattrore, ragazzi
con berrettini rossi portavano in spalla grosse radio da cui uscivano più o
meno le stesse musiche. Non erano più consapevoli degli altri, agitavano la
testa al ritmo che, uscendo dagli altoparlanti, entrava direttamente nelle loro
orecchie.
Non c’era
luce. Erano tutti uguali, un immenso esercito di zombies.
Nevrosi.
Quando c’era
qualche guizzo di luce erano scatti di nervi o frustrazioni. Meglio che niente.
“Cercami!”
Alzai gli
occhi, disperata: lontano, a molte strade di distanza, una luce sfolgorante
avanzava tra la folla grigia.
Oro, bianco,
viola, rosa, azzurro, arancio.
Corsi verso
quella luce, chiamandolo, inciampando nelle ventiquattrore e nelle gambe di
quell’esercito di morti viventi, sgomitando controcorrente.
Lui
risplendeva, là in mezzo, oro puro, perfetto, un sole in quel grigiore
opprimente.
All’improvviso
la folla cominciò a fermarsi, a circondarmi: mi guardavano prima sospettosi,
poi minacciosi. C’era rabbia sulle loro facce, una rabbia che si trasmettevano
l’un l’altro. Si muovevano all’unisono, sempre più vicini, mi circondavano,
cominciavano a colpirmi con borse, valigette, calci, ombrelli.
Lo chiamai,
disperata.
Ero tra le
sue braccia.
Il vermetto
pendeva dall’albero giocando con il filo di seta.
“Hai visto,
Is? Lo vedi? Non farti catturare da loro”
“Chi loro?”
Eravamo di
nuovo tra la folla, un altro giorno, un'altra città, la marea di gente ci
scorreva intorno inespressiva e spenta. Non avevano un vero viso: erano
maschere fatte con mezzi bicchieri di plastica su cui erano disegnati occhi,
naso, bocca con un pennarello nero.
Lui afferrò
una donna bionda per la spalla, le diede uno schiaffo.
Lei lo guardò
con rabbia un istante, poi tornò al suo nulla. Sciaf! Lei lo guardò un po’ più
a lungo.
Afferrò un
ragazzo nero con la radio in spalla e il berrettino rosso, Sciaf! Sciaf!
Lo guardavano
interdetti: che voleva? Non erano grandi schiaffi, ma davano fastidio.
Invadevano la loro vacuità.
Fecero per
allontanarsi. Sciaf! Sciaf!
Si fermarono,
ora arrabbiati, tutti e due.
Sciaf! Il
rumore degli schiaffi rimbombava in quel silenzio irreale. Li guardavo, loro
due, il resto della folla.
Ebbero un
guizzo, era rabbia, si. Era qualcosa, un colore, una consapevolezza.
Sciaf! “La
smetta!” gridò la donna.
Sciaf! “Ehi,
pezzo di coglione!” gridò il ragazzo.
Sciaf! Sciaf!
Strappò la radio al ragazzo, la gettò a terra, il ragazzo gridò: “Me la
ripaghi, stronzo!”
Sciaf! Sciaf!
Luce rossa. Lui allungò al ragazzo cento dollari. Questo lo guardò allibito:
“Oh, ma sei scemo?”
Stupito.
Incredulo. Luce arancio, luce gialla attorno alla testa. Pensieri dalle forme
indistinte.
Sciaf!
La donna
guardava incapace di trovare una spiegazione ai gesti di quello strano tipo
dalla lunga tunica nera. “Da dove vieni?” chiese come scuotendosi da un lungo
sonno. Sciaf!
Afferrò delle
rose da un posto lì accanto, le mise in mano alla donna. Erano rosa, gialle,
rosse. Colori sfavillanti nel grigio.
La donna e il
ragazzo si guardarono, guardarono lui, noi.
“Svegliatevi!”
sussurrò al loro orecchio.
I due si
guardavano perplessi, sembravano comunicare tra loro i propri dubbi, deboli
luci di consapevolezza li circondavano: “Svegliatevi! Svegliatevi!”
Si misero a
ridere, il ragazzo mostrò la banconota alla donna, le offrì il pranzo, lei gli
porse metà delle sue rose. Ridevano, se ne andarono nel grigiore della folla.
Arancio,
verde, bolle rosate di pensieri.
Mi prese per
mano. Eravamo tra quella folla grigia, ma non eravamo là: “Vedi? Sono in loro
potere! Dobbiamo fare presto, presto, prima che sia troppo tardi! Presto
diventerà irreversibile, non ci sarà più nulla da fare!”
“Ma in potere
di chi? O di cosa?” poi lo fissai, comprendendo: “Egregore? Sono sempre più
potenti, è così? Tu non hai potuto fare quello che dovevi e…”
Sorrise
dolcemente, amorevole ed amaro. Gli occhi dorati un po’ troppo lucidi.
“Lo vedi? Ci
tengono lontani! Non lo permettono, non possono permetterlo!
Ci vogliono
spegnere! Dobbiamo farlo prima che sia troppo tardi. Loro” disse indicando la
folla di morti viventi: “Loro si accorgono se qualcuno è vivo e lo assalgono.
Ne sono terrorizzati, vittime dei loro padroni, devono omologarti, renderti
come loro: grigi, morti, normali, ciechi, sordi. Spegnerti, devono spegnerti.
Devono
spegnerti.
Devono
omologarti.
Soffocarti.
Sono sempre
di più, sempre più inconsapevoli, ci sono armi sempre più potenti per
controllarli, presto sarà troppo tardi, tutto il processo diventerà
irreversibile! Svegliane quanti più puoi!
Svegliali!
Cercami.
Sono qui, non
mi vedi? Come puoi non trovarmi?”
Scomparve,
sentivo ancora le sue mani chiuse sulle mie.
“Is, cercami!
Trovami, Is!! Non puoi non vedermi! Come puoi non vedermi? Non lasciarti
prendere!” sentii la disperazione nella sua voce. Mi soffocava, la sua
disperazione era mia.
Avevo freddo.
Non era ancora il Solstizio d’autunno, non poteva essere così freddo! E poi ero
accanto al fuoco, dentro il cerchio.
I tamburi di
Floyd e Robert arrivavano a me attraverso la terra sotto il mio corpo, il
sonaglio di Maggie passava al di sopra, avanti e indietro.
Le due pietre
nere cozzavano l’una contro l’altra, ritmiche, un suono piatto come schiaffi
rocciosi, un po’ beffardo.
Il suono del
sonaglio sembrava ripetere incessantemente una frase che non capivo, un suono
gutturale, sabbioso, che pian piano diventava “Cosa vuoi, cosa vuoi…”
Anche i canti
senza parole di Floyd sembravano dire la stessa cosa.
Lo vidi
alzarsi, era irreale, lasciava una scia di colore dietro di sé mentre danzava
intorno, le braccia aperte, sempre più veloce, emettendo grida acute e secche
come acciaio che arrivavano dal profondo.
“Sono kiai”
mi dissi, stupendomi di non essermene accorta prima.
La danza era
sempre più veloce, ipnotica, era davanti a me, era di fianco, alle mie spalle,
era ovunque contemporaneamente. “cosavuoi, cosavuoi, cosavuoi…”
“Cerco lui!” gridai.
La faccia di
Floyd mi si parò di fronte, la fascia di pittura nero lucido, gli occhi dalla
sclera un po’ sporca, forse arrossata, le iridi più nere, profonde,
penetranti che mai: “Anche lui ti sta cercando!” mi gridò in faccia.
Mi afferrò le
spalle, ma non sembravano mani, le sue, sembravano artigli che mi conficcava
nelle carni, il suo viso assunse l’aspetto di un puma, il muso deformato da un
ruggito di rabbia, il muso di un lupo nero che ringhiava scoprendo le zanne,
ululando verso il cielo, un ringhio sempre più profondo, mi beccò gli occhi,
gridai.
Grida.
Qualcuno arrivava di corsa.
“Presto, sono
là! Prendeteli!”
“Ehi, voi,
che state combinando? Fermi, polizia!”
“Fermi o
sparo!”
“Guardate, la
ragazza, l’hanno drogata, sicuramente l’hanno violentata!”
“Maledetti
stupratori!”
“Prendeteli!”
“Siete in
arresto! Fermi con le mani in alto!”
Le pietre
continuavano a colpirsi beffarde l’una l’altra, i tamburi battevano sempre più
rapidi, il sonaglio sembrava il sibilo di crotali.
“Fermi con le
mani in alto!”
“No,
aspettate, non sono criminali! Sono un antropologo del Metropolitan, la signora
è una collega, mia figlia è una collaboratrice, noi…”
“Stia zitto,
anche lei è un sospettato! Si fermi con le mani in alto!”
No, no, no
che stava succedendo? Perché c’era la polizia? Volevo alzarmi, gridare di
andarsene, ma non riuscivo.
“Tranquilla,
Mary, ci pensiamo noi” sussurrò la voce di Maggie vicino al mio orecchio.
“Posso
spiegare tutto!” Insisteva papà.
“Maledetti
selvaggi!”
“Richiudeteli
nelle riserve! Dovevamo sterminarli tutti!”
Cercai di
aprire gli occhi, le voci erano sempre più vicine, attraverso le ciglia vidi un
paio di grassi poliziotti arrivare ballonzolando in una ridicola parodia di
corsa.
Robert si
alzò con un solo gesto, si parò davanti al poliziotto più vicino, gli appoggiò
la mano di piatto sul grasso sterno.
Sentii un
rumore sordo, Robert barcollò, rigirò il poliziotto, lo spinse e gli mollò un
calcione nel fondoschiena: “Questa è aggressione a pubblico ufficiale!” strillò
quello.
Volevo muovermi,
ma qualcosa me lo impediva. Immaginai che fossero le volontà dei miei compagni,
più che la bevanda.
Improvvisamente
non sentii più i tamburi, né il sonaglio, né le pietre.
Anche la
gente accorsa con la polizia restò in zitta, probabilmente interdetta per
quell’improvviso silenzio.
Tentai di
girarmi, vidi Floyd alzarsi in piedi, avvicinarsi con passo ciondolante, un po’
indolente, ai poliziotti che indietreggiarono nonostante avessero le pistole in
mano, puntate verso i due uomini.
Erano
entrambi tozzi e flaccidi. Sarebbero stati ridicoli davanti a quelle due
pertiche dipinte e piumate, se non fosse stata una scena orribile.
“Mioddio,
spareranno, lo so che spareranno, hanno troppa paura!” pensai, terrorizzata.
Volevo
gridare, volevo alzarmi, piume e pitture non potevano proteggerli da proiettili
di piombo.
Floyd
sospirò, annoiato, alzò una mano davanti a sé, le dita puntate verso i
poliziotti.
Sentii un
rumore tra l’erba, Robert si chinò fulmineo e prese le pistole da terra. I
poliziotti arretravano, pallidi e sudaticci, quasi fluorescenti nella luce del
fuoco.
Nascosi la
faccia contro la terra, piangendo per il sollievo.
*******************************
Mi sentivo
come mi avessero passata alla trebbiatura.
Era tornato
il silenzio, i facinorosi se ne erano andati e stranamente anche la polizia,
lasciandomi lì.
Mi rendevo
conto che c’era qualcuno vicino, ma chi?
Avevo sentito
delle auto allontanarsi, una con la sirena. Chi avevano portato via?
Robert aveva
tirato un calcione al poliziotto…lo avevano arrestato? E dov’era papà?
Splash!
Mi arrivò uno
schizzo, aprii gli occhi e lo vidi, Robert, vestito solo del perizoma e delle
lunghe strisce di pittura, che gettava un catino d’acqua sulle braci.
Mi sollevai
su un gomito: “Non si dovrebbe fare così!” lo rimproverai.
“Gli Spiriti
non se ne avranno a male, dobbiamo sbrigarci, quegli esagitati potrebbero
tornare”
Sedetti
faticosamente: “Ma che schifezza mi hai dato?” brontolai, tenendomi la testa.
Avevo in bocca un saporaccio.
“Camomilla”
rispose.
Mi afferrò
per le braccia e mi sollevò con cautela, tenendomi mentre cercavo di recuperare
l’equilibrio.
“Com’è che
non ti hanno arrestato?”
Aveva un
lungo taglio sullo zigomo, il cui sangue si mescolava con la pittura rossa.
“Non c’era motivo di arrestarmi e comunque Maggie e tuo padre sono al commissariato
a spiegare tutto, con il vecchio. Ci auguriamo che l’autorità di un
novantaseienne serva”
“Ma gli hai
dato un calcio!”
“Non l’ho
toccato, è caduto da solo, io ho tentato di sostenerlo, ma lui era grosso ed è
caduto. I suoi capi lo metteranno a dieta.” Disse con un sorriso sornione che
mi ricordò lo Stregatto.
“Non posso
crederci.” Esclamai.
Avevo il
forte sospetto che avessero effettuato sugli intrusi qualche tipo di ipnosi di
massa, ma ero troppo sbarellata per pensare con chiarezza.
Era successo
qualcosa, si, quando Floyd aveva fatto cadere le pistole…e poi se ne erano
andati, sia i poliziotti che gli altri, ma potevano tornare, diceva
Robert…quindi eravamo nei guai, nonostante tutto, forse, una volta lontani, si
sarebbero resi conto di essere stati incantati e…
Mal di testa,
nausea, dolori da tutte le parti, stato confusionale. “È questo l’effetto della
vostra Cerimonia?”
Lui si
strinse nelle spalle: “Dipende.”
Arrivò la
vecchia utilitaria verde di Maggie e ne scese Floyd, anche lui poco vestito e
molto dipinto. Si tolse una penna di corvo dall’acconciatura e me la diede: “Te
la meriti, piccola donna bianca”. Sembrava serio.
“Maggie ci ha
lasciato l’auto” disse lanciando le chiavi a Robert, afferrò un involto con i
vestiti e lo lanciò nel bagagliaio, mettendosi subito a sistemare tamburi,
sonagli e arnesi vari.
Nessuno dei
due pensò di vestirsi, avevano fretta di levarsi di lì.
“Ora a casa
della Medicine Woman a fare una doccia e aspettare. Tu non puoi andare a casa
tua, ci saranno dei curiosi, pare non si spettegoli d’altro. Se torni ti
saltano addosso.”
“Ma…”
“Marabel, non
puoi tornare a casa e comunque tuo padre è al commissariato e tua madre lo ha
raggiunto. Se ti portassimo là, qualche testa di c*** potrebbe pure lanciare
sassi nelle finestre, come minimo. Ormai si sono esaltati.
Non lo sai?
Essere rossi è peggio che essere neri, ed essere bianchi molto affratellati con
i rossi è peggio del peggio, è uno schifoso tradimento!”
Deglutii: mi
pareva di avere a che fare con il Klu Klux Klan e, pensandoci bene, doveva
essere così.
In pochi
minuti tutto fu sistemato, Robert si infilò al posto di guida, Floyd mi lanciò
praticamente al posto del passeggero e poi si svaccò dietro, terminando di
levarsi le penne dai capelli e stropicciandoli per scioglierli. “Meno male,
venti chilometri a piedi di notte assieme ad una ragazza bianca con i postumi
di una sbronza non sarebbero stati l’ideale” bofonchiò Robert.
“EHI!!! QUALE
SBRONZA??”
Risero,
l’auto si mise in moto: “Dev’essere un’esperienza da brivido appoggiare le tue
chiappe nude sul sedile di plastica, eh, Bob?” lo derise Floyd da dietro.
Era buio,
vedevo solo brillare i suoi occhi e i denti come un balenio bianco
nell’oscurità. Teneva la voce bassa, aveva qualcosa di lupino, come un
ringhio divertito.
“Tu mi hai
beccata!” lo accusai, ricordando all’improvviso. Scoppiò a ridere: “Ma va’!”
“SI! Si lo
hai fatto! Mi hai conficcato gli artigli nelle spalle e poi mi hai ruggito,
ringhiato e mi hai beccato gli occhi! Volevi mangiarmi! Poi sono arrivati gli
sbirri!”
“Sognavi,
ragazza! A parte gli sbirri, il resto è sogno”
Ero voltata
verso il sedile posteriore, lui si nascondeva nell’ombra, sembrava molto a suo
agio nell’essere pressoché invisibile. I fari di un’auto in senso opposto ci
investirono per un momento, illuminando di una luce spettrale la fascia di
pittura nera, gli occhi brillanti e i capelli disordinati.
Tornò il buio
in un attimo, si sarebbe potuto credere di aver visto un fantasma.
“Non mi sono
mosso dal mio posto” ringhiò sottovoce.
“Danzavi, quindi
ti sei mosso”
“No.
Sognavi.”
Non gli
credevo.
Robert era
concentrato sulla guida, soprattutto sulla strada: se qualcuno ci avesse
fermati per un controllo, spiegare cosa faceva praticamente nudo alla guida
dell’auto di una gentile signora assente, in piena notte, con un altro Nativo
quasi altrettanto nudo e una ragazza coperta di cenere, non sarebbe stato
semplicissimo.
“Quel
deficiente che ha chiamato la polizia!” esclamò seguendo il filo dei suoi
pensieri, accompagnando le parole con una manata sul volante: “Cosa gli è
preso?”
Floyd si
strinse nelle spalle: “Da quel che ho capito, tempo fa aveva visto quel sito e
ha pensato di tornarci con la ragazza, probabilmente voleva impressionarla con
qualche minchiata.” Rise, gettando indietro la testa: “Uuuhhhh, come l’avrà
impressionata!”
Robert
ringhiò. Era stato in galera, ai tempi di Wounded Knee, l’FBI lo teneva
d’occhio da allora. Erano in quel guaio per colpa mia!
Raggiungemmo
la periferia di Boston senza incontrare pattuglie, le strade erano sgombre, la
notte silenziosa e Robert si infilò nel garage di Maggie: “Doccia,
birra…dovrebbe esserci qualche provvista nel frigorifero, ma non accendete la
luce.”
Entrammo in
casa dalla portina interna al garage, le altre villette erano silenziose, una
sola finestra, tre case più in là, era illuminata.
Sembrava
tutto così tranquillo, quotidiano, tangibile. Meravigliosamente normale.
Cominciavo a
vedermi danzare davanti agli occhi le immagini del mio viaggio sciamanico, come
flash back, e mi stava tornando una leggera nausea.
“Mangia un
pezzo di pane” la mano bruna di Robert mi porse mezza pagnottella di quelle al
burro che faceva Maggie nel forno, tutti i martedì.
I ragazzi,
silenziosi come fantasmi e veloci come puma, riposero gli oggetti sacri nel
loro nascondiglio, avendo cura di tirare le tende, casomai qualcuno avesse
avuto la brillante idea di ficcare il naso.
“C’è qualcuno
nell’abbaino della casa di fronte, deve avere un cannocchiale puntato qui. Un
guardone, probabilmente, la polizia non può avere avuto il tempo di organizzare
una squadra di controllo”
“Dici?” feci
masticando.
L’FBI non
doveva avere problemi ad infilarsi in una villetta in piena notte con attrezzi
da spionaggio, semplicemente suonando e mostrando un tesserino.
“Queste
operazioni costano, non sono così importante, baby” rispose Robert, non del
tutto convinto. Comunque osservava da dietro la pesante tenda, prudente.
“Tempo fa
abbiamo avuto ospite una paleontologa amica della compagna di Russel Means, si
sono sentite un paio di volte al telefono e, nei giorni successivi, ci siamo
resi conto di avere i telefoni sotto controllo. Se n’è accorta Maggie,
veramente.” spiegai.
“Io non sono
Russel…” buttò lì Robert distrattamente. Poi si voltò a guardare Floyd: “In che
rapporti sei con i Federali?”
L’altro
scrollò le spalle: “L’ultima volta che ho subito un controllo sono risultato
così stupido e vanesio, che penso non si faranno vedere per i prossimi
quarant’anni. Naturalmente, visti i miei precedenti potrebbero avere qualche
sospetto.”
Cavoli! Mi
diedi una manata sulla fronte. Il processo, la laurea, i guai con la scuola in
città…per questo faceva il cretino!
Robert mi
guardò di sottecchi, con una sorta di tenerezza: “Piccola donna bianca, ti ci
vuole ancora un pezzo per capire gli uomini rossi!”
Mi sentii
terribilmente stupida: un anno e mezzo appiccicata a quella gente e mi facevo
ancora simili figure da pesce!
Mi lanciai
sotto la doccia, i ragazzi avevano lasciato un abito di Maggie che mi stava un
po’ largo e un po’ corto, si infilarono a turno nella doccia dopo di me e si
rivestirono, lasciandosi cadere mollemente sui divani del salotto con una
bottiglia di birra e un certo numero di panini molto imbottiti.
Ci muovevamo
silenziosamente, parlavamo sottovoce, le finestre sigillate e le tende tirate.
L’unica luce proveniva dalla porta aperta della dispensa e illuminava l’area
dove eravamo accampati, senza raggiungere lo specchio delle finestre. Da fuori
tutto doveva sembrare buio e immobile.
C’era
qualcosa sul pavimento: un documento sfuggito dalla tasca di Floyd. Lo presi,
nel porgerglielo lessi qualcosa che mi lasciò interdetta: “Archangel?!?”
Lui mi sfilò
il documento dalle dita con un grugnito.
“Ti chiami
Archangel?!” insistetti. “Snstlsr”
“Eh?”
“Snstlsr!”
“Cosa?”
Robert rideva.
“Sono state
le suore!”
Caddi seduta:
“L…le…le…su…?”
Infilò il
documento in tasca e passò una bottiglia a Robert: “Quando mio padre dovette
andare a lavorare a Seattle, non avendo alloggio, dormì in macchina per un mese
con mio fratello più grande, direttamente fuori dal cantiere e piazzò me, mia
sorella e mia madre in un convento. Le suore ci vedevano come piccoli selvaggi
indemoniati e decisero di salvare le nostre anime. Ricattarono nostra madre,
dicendo che, se ci fosse successa qualche disgrazia, come era stato per mia
sorella, saremmo andati all’inferno.
Lei non ci
credeva, ma era spaventata: l’assassinio di mia sorella l’aveva scombussolata
parecchio, ma loro le promisero che avrebbero pregato per lei, perché non
sarebbe mai andata in Paradiso, non essendo battezzata, ma noi eravamo in tempo
e che, se ci avesse fatti battezzare, ci avrebbero dato abiti nuovi e cibo in
più.
Cedette, più
per vederci nutriti e vestiti che per le nostre anime, ma noi non volevamo. La
mia sorellina, che aveva quattro anni, strillava come un’ossessa quando la
portavano a pregare e questo…dimostrava chiaramente che eravamo esseri
infernali.”
“Non c’erano
le missioni nella Riserva? Pensavo foste più o meno tutti cristianizzati,
almeno ufficialmente”
“Ufficialmente,
si. Molti fingono di seguire la religione cristiana, ma di nascosto continuano
con le vecchie pratiche e noi, in particolare, eravamo una famiglia di ribelli.
Mio nonno, sua nonna prima di lui, e così via, erano Medicine men e women, da
un grande numero di generazioni e non si facevano abbindolare da quella gente:
non ci avevano battezzati, né avevamo fatto quelle cose…i sacramenti, o
chessoio. Molti di noi sono convertiti, ma hanno addomesticato il
cristianesimo, adattandolo bene o male alle nostre tradizioni, noi no, nemmeno
quello.
Le monache
dicevano che la mia famiglia, in questo modo, si era attirata la punizione
divina. E io, a quel punto, decisi che il dio cristiano doveva essere un vero
s***! Vendicativo, prepotente, che se la prendeva con una ragazza di sedici
anni perché non ci si piegava al suo volere. No, non volevo essere convertito!”
Mentre lui
parlava mi rimbombavano nella testa le parole del mio Faraone: zombies, vittime
di egregore sempre più potenti e fameliche…deglutii. Cosa c’è di più violento
del ricatto della religione?
“Così le
suore decisero che, per battezzarmi, mi avrebbero messo il nome di un
arcangelo, solo che erano piuttosto oche e non riuscivano a decidere se
chiamarmi Gabriel, Raphael, Michael, Uriel…così alla fine, arrivò la loro
superiora e decretò che mi sarei chiamato Archangel, senza fare torti a
nessuno”
Robert
continuava a ridere, spiattellato sul divano.
“E quindi…ti
chiami Archangel?”
“Solo sui
documenti” storse il naso Floyd: “Dopo il battesimo, ogni giorno, andavo nella
chiesa dopo la messa, rubavo una parte delle offerte e le nascondevo. Non
tutto, solo un po’. Le suore si lamentavano che c’erano meno offerte, ma non
mangiarono la foglia.
Lo feci per
una quindicina di giorni, poi smisi, così non si insospettirono, e qualche
giorno dopo scappai.
Comprai un
biglietto d’autobus per il Montana, poi chiamai qualcuno alla Riserva per farmi
venire a prendere a Missoula, e mi feci portare dai nonni, raccontai che mi
avevano battezzato con la forza e che mi sentivo male da allora. Mio nonno
chiamò tre o quattro capi religiosi e mi, come dire, mi esorcizzarono. Il nome
mi toccò tenerlo, ma giusto nei documenti. Al College fa figo.”
Ero basita:
un ragazzino di dodici anni che scappa da solo dallo Stato di Washington e
corre alla Riserva nel Montana per liberarsi di un’imposizione religiosa. Era
notevole, davvero.
“E dopo?”
“Mio nonno
telefonò al convento, dicendo che mi sentivo spaesato e volevo tornare a casa
dai nonni, ma che non volevo far preoccupare nessuno. Venne a prendermi una
delle suore, portando un cambio di abito, certa che fossi lurido e vestito da
selvaggio. Si stupì parecchio nello scoprire che possedevamo delle case,
vecchie auto e una scuola superiore. Negli anni successivi venne poi creato il
College, ma allora non esisteva.”
“Comunque la
monaca fu sconvolta dalla visita?”
“Non entrò
nella Riserva, rimase ad attendermi all'ingresso con il rosario in mano.
Sigillata in auto. Mi portò giù l’auto dello sceriffo, con il nonno.”
Ora Robert si
sganasciava letteralmente. Immagino lo facesse anche per stemperare la
tensione.
“Allora?
Tocca a te. Che è successo?”
Glielo
raccontai, così come mi veniva in mente. Arrivata alla faccenda degli zombies
mi vergognai parecchio, ma loro non fecero una piega.
Mi
ascoltavano apparentemente quasi distratti, tracannando birra e mangiando
panini come fossero a digiuno da un mese, anche se ero io quella che aveva
dovuto digiunare. Sembravano due quindicenni.
“Non mi pare
abbia detto niente di straordinario” commentò Floyd.
“Noi lo
diciamo da secoli!” ribadì Robert.
“Ragazzi, non
mi state aiutando!”
“Si vede che
il tuo ragazzo è rimasto chiuso in un sarcofago per tremila anni, eh? È un po’
indietro di cottura!”
Li avrei
picchiati. “A me è sembrato tutto così straordinario! E come ti permetti? E poi
non è il mio ragazzo!”
“Non adesso.
Ma deve esserlo da un bel po’, visto che ti sei trovata direttamente all’alba
del mondo, no?”
Li guardai
interdetta: “Io?”
“Beh, noi no.
Uff!” sbuffò Robert: “Non eri su rocce ancora bollenti, circondata da fiumi di
magma? Dico, non penserai che fosse l’inferno dei preti, no?”
“n...no, ma…”
“Ha ragione,
Bob! Lei è carina, ma è sempre bianca! Non puoi pretendere che capisca tutto!”
“Ma che
simpatici!”
“Ok, ok,
allora…se ti sei trovata in un’epoca così primordiale, una ragione c’è.
Dovresti analizzare tutto quello che è successo, un po’ alla volta, meditarci,
magari scrivertelo, così da non dimenticare niente. Non è una cosa normale,
Marabel: sono molto poche le Anime così antiche. E anche lui era lì,
no?”
“C’era anche
Maggie”
“Che c’entra,
Maggie è una Medicine Woman. E poi doveva tenerti d’occhio, stavi sbarellando
di brutto, sai? Sembravi una belva in gabbia.”
“Era colpa
tua e del bicchiere di plastica!” lo accusai imbronciata.
Mi aspettavo
che si stupisse o si mettesse a ridere come sua abitudine, invece si limitò a
sbirciarmi in tralice.
“E quella
terra? Che mi dite di quella terra? Non c’è niente nel Pacifico, in quell’area,
non c’è mai stato nulla!”
“L’Oceania è
da quelle parti, mi pare…”
“D’accordo,
ma..”
“Le Hawaii
sono venute dopo, da un punto caldo al centro della placca tettonica”
“…E
quindi?!?”
Lo Cheyenne
si degnò di alzarsi, posare la bottiglia ormai a metà e venirsi a sedere sul
tappeto ai miei piedi: “Non c’è nulla là…adesso!” disse piantando gli
occhi nei miei.
“M…ma…”
“La terra ha cambiato
aspetto molte volte. Si muove, a volte di più, a volte di meno. Un tempo la
massa magmatica era più fluida ed elastica e le zolle tettoniche probabilmente
si muovevano più rapidamente di ora. Come fai a dire che non c’è mai stato
niente? Tu hai visto qualcosa, là, perché evidentemente qualcosa c’era, forse
c’è ancora. Magari nel giro di qualche anno faranno delle scoperte, là sotto.
Naturalmente faranno in modo che non si venga a sapere.”
“Alcuni
geologi ritengono la grande piattaforma del Pacifico potrebbe celare terre
anticamente emerse, ma prova ad immaginare la Pangea: i continenti si sono
aperti, probabilmente molto più rapidamente di come si muovono oggi, tant’è
vero che la Terra, da giovane, viveva eruzioni e terremoti molto più violenti e
frequenti di oggi. E là attorno c’è l’Anello di Fuoco, ancora oggi.
Terre sono
emerse, altre si sono inabissate o addirittura sono sparite sotto le zolle in
movimento. Osservando le piattaforme continentali nei fondali si vedono
territori molto estesi al di sopra della base oceanica” intervenne Floyd: “Tipo
un’immensa colata a Sud Est del Giappone, per esempio.”
Robert cercò
un atlante particolare che aveva Maggie, un atlante nautico e lo aprì su
immagini di fondali ad alta definizione. “Guarda: le terre emerse qui, nel Sud
dell’Oceano Indiano, sono poche isolette. Port aux Francais e le isole Heard e
Mac Donald, ma, sotto il livello del mare, si vede un territorio molto esteso.
Anticamente avrebbe potuto essere in un’altra zona, più a Nord Est, per
esempio, ed emerso. Le parti emerse sono rilievi montuosi piuttosto bassi, ma,
se tutta l’area fosse all’asciutto, sarebbero catene montuose abbastanza
interessanti. Ed ecco quella colata lavica, parte dal Giappone e scende fino a
Guam e Palau. E in quell’area girano voci.”
“Cioè?”
“Pare ci sia
qualcosa, là sotto, qualcosa di strano. Di grosso, in tutti i sensi.”
Era
l’ottantasei, ci sarebbero voluti ben altri dieci anni prima della scoperta
delle Mura di Yonaguni, ancora oggi oggetto di derisione da parte della scienza
ufficiale, che si ostina a sostenere si tratti si formazioni totalmente
naturali e casuali, ma all’epoca io non ne sapevo niente e loro parlavano
soltanto di “voci”.
“Lemuria? Mu?
Altro? È fantascienza, Robert. E poi…quello che ho visto era così progredito,
così grande! No, non è possibile. Non voglio negare a priori qualcosa, ma non
possiamo darlo per assodato, non ci sono prove e non le troveremo mai, ammesso
che qualcosa sia esistito! Se una terra emersa c’era, potrebbe essere finita
nelle aree di subduzione, riassorbita nel magma, o sepolta da chilometri di
acqua. E poi, che avrebbe a che fare questo con noi?”
“Beh, il
pover’uomo non faceva che ripeterti di ricordare! E le cose che hai visto nel
Tempio di Karnak, a me paiono molto più fantascientifiche di queste” chiosò
Floyd.
“Come fai?
Come fai ad accettare certe cose, così alla leggera, sei un fisico!”
“Sono un
fisico bestiale!” rispose malizioso.
Ecco! Io
parlavo seriamente e lui mi prendeva in giro.
Mi sentivo
molto depressa.
“In ogni
caso, tecnicamente, non sono un fisico. Sono un biologo, con un master in
fisica delle particelle. Cos’è che non ti convince? A noi sembra tutto molto
sensato!”
“Non so…a me
pare di essere al punto di partenza. E comunque, Robert, tu mi hai tagliato i
capelli. Non vivrai a lungo, sappilo!” ridacchiarono entrambi.
“Volevamo
estirpare la malattia. Se la malattia fossero stati i tuoi ricordi su
quella vita tutto sarebbe scomparso, avresti dormito, avresti forse visto poco
o niente, saresti pronta ad imboccare un’altra strada. Invece hai visto un bel
po’ di cose, hai visto lui, gli hai parlato. Ti ha dato dei messaggi, ti ha
detto di cercarlo, di trovarlo. Ora sai che non è una follia, che è cosciente
della tua esistenza, che ti sta cercando, che sei tu a porre degli ostacoli con
tutte le tue seghe mentali e che avete cose che vi tengono lontani: volontà
opposte, nemici…a me pare un bel po’ di roba!”
“Però era
tutto nella mia testa” sospirai.
“Era la tua
visione, dove avrebbe dovuto essere?”
Passammo
quelle ore a parlare sottovoce, nella semioscurità. Raccontai tutto quello che
potevo sulla mia storia, dalla primissima infanzia, alle prime regressioni,
fino all’ultima, quasi un anno e mezzo prima.
Man mano che
il racconto procedeva e si arricchiva di particolari, intravvedevo nell’ombra
l’espressione di Floyd incupirsi, farsi più preoccupata e pensierosa.
Sembrava di
malumore.
Aveva in mano
la bottiglia vuota della birra e continuava ossessivamente a grattare con
l’unghia l’etichetta, strappandola un pezzetto alla volta. Pensai che fosse
stanco, lo ero anche io, doveva esserlo anche Robert, che aveva tutti i sensi
all’erta, attento al minimo rumore o a qualsiasi cosa potesse sembrare
sospetta.
La strada era
silenziosa, in quel quartiere residenziale, ma avevo telefonato due volte a
casa e non rispondeva nessuno. Di Maggie non c’era traccia e io cominciavo ad
essere preoccupata.
Era ormai
l’alba quando un’autopattuglia si fermò silenziosamente davanti al cancello.
Floyd aveva spento anche la luce in dispensa, rapido come un gatto, non appena
l’auto era entrata nella via, facendoci piombare nell’oscurità, Robert
osservava nascosto dietro la tenda.
Restammo
immobili, trattenendo il fiato pronti a nasconderci se per caso fossero entrati
per un’ispezione.
Robert indicò
con la testa a Floyd la cucina, dove c’era la porta di servizio, mi fece cenno
di andare nella stanza di Maggie e fingere di dormire: a me non avrebbero fatto
niente, a parte qualche domanda cui avrei trovato risposte adeguate. Ci eravamo
accordati in quelle ore su cosa fare o dire, se necessario.
Loro
avrebbero dovuto sparire, invece: le visite di Robert alle patrie galere
durante l’ultimo decennio non erano un buon biglietto da visita, Floyd aveva
comunque al suo attivo parecchi disordini, per quel che avevo capito e
suggeriva quella lunga doppia cicatrice sul braccio sinistro e supponevo non
fosse l’unica.
Dall’auto
scese Maggie, reggendo la borsa con entrambe le mani, un poliziotto
l’accompagnò fino alla porta, attese che aprisse, noi eravamo immobili, non
respiravamo nemmeno, nascosti tra le ombre dietro il divano e sotto la
scrivania. L’uomo sgusciò nell’ingresso, di sotto, salì senza accendere luci,
infilò la testa nella stanza, ridiscese, salutò toccandosi il cappello, disse
qualcosa nella radio, tornò all’auto.
Non
respirammo finché l’autopattuglia non sparì in fondo alla strada.
Maggie era
rimasta al piano di sotto, sicuramente troppo prudente per guardare dalla
finestra, ma con le orecchie tese.
Finalmente
entrò di corsa e ci gettammo addosso a lei tutti e tre: “È tutto a posto,
bambina!” furono le sue prime parole, io crollai sulla poltrona.
“Ragazzi,
avete mangiato qualcosa?” Osservò le briciole dei panini: “Qualcosa di serio,
intendo”
“Propongo di
metterci a tavola tutti e quattro, i tuoi hanno trovato una pizzeria italiana
ventiquattrore su ventiquattro e ora saranno a casa a mangiare, ah!”
Prese il
telefono, chiamò: “Tutto a posto? Qui tutto tranquillo, nessun problema, un
agente gentilissimo mi ha accompagnata fino in casa, buon appetito e buon riposo!
Oh, si, davvero, davvero un bruttissimo equivoco, ma si sistemerà tutto!”
riattaccò.
Non mi aveva
permesso nemmeno un ciao ai miei. I telefoni erano già sotto controllo.
Sentivo
Maggie e Robert discutere, in cucina, tra rumore di piatti e padelle, lei insisteva
dicendo che non era il momento e avremmo parlato più tardi, con la pancia
piena. Diceva che io ero debilitata, che dovevo mangiare, ma era l’ultima cosa
che avrei voluto, in quel momento.
Sentii
qualcosa avvolgermi e mi resi conto che Floyd si era inginocchiato di fianco
alla poltrona, i gomiti sul bracciolo, per abbracciarmi e restai lì, la testa
sulla sua spalla, avvolta in quelle ali protettive.
Aveva le
braccia forti, i muscoli torniti di chi è cresciuto lavorando, correndo a
cavallo, arrampicandosi dappertutto, non andando in palestra. Armoniosi, la
pelle vellutata.
Avevo avuto
paura, quella notte: una paura quasi atavica che non avevo mai provato prima.
Non ero
abituata a sentirmi minacciata dalla folla o dalla polizia, mentre ora, a causa
del mio rapporto con loro e soprattutto di un gruppo di ragazzotti di provincia
molto idioti e non per finta, mi trovavo nei guai fino alle orecchie. E loro lo
erano più di me.
Per ora
Maggie e papà erano riusciti a convincere la polizia che si trattava di un
brutto equivoco, ma c’erano, secondo loro, troppi punti oscuri e faccende da
chiarire. Non era finita. Soprattutto non lo era per quegli esagitati che
avevano cercato di assalirci.
“Essere rossi
è peggio che essere neri, essere bianchi affratellati con i rossi, è peggio del
peggio”.
Forse avrei
davvero dovuto sparire e non soltanto per qualche giorno.
Mi sentivo
umiliata, mi vergognavo di appartenere a quell’altra razza.
Sporchi,
puzzolenti, parassiti, stupratori. Così quegli altri li avevano apostrofati,
senza conoscerli, senza averli nemmeno visti da vicino, soltanto perché
suonavano i tamburi e cantavano, per il loro (poco) abbigliamento e perché
erano dipinti. Tutte cose che per quegli altri erano troppo forti, troppo
potenti, che ancoravano con forza alla
Terra, al Fuoco, agli Elementi.
Erano vivi,
se anche lo fossero stati per quelle sole due ore, sarebbe stato molto di più
di quanto quei bigotti slavati, come Robert li aveva definiti, avrebbero mai
potuto essere in tutta una vita.
“Dovrai allontanarti
per un po’, non è prudente tornare in quel quartiere” sussurrò Floyd.
Mi aveva
ruggito, mi aveva beccato gli occhi, pensai. Forse avrei dovuto essere
spaventata, non era un tipo affidabile, dopotutto.
Profumava di
bagnoschiuma, di Sweet Grass, di vento sulle praterie.
Li chiamano
“sporchi”, li definiscono puzzolenti.
Non è vero. I
Nativi non puzzano mai, nemmeno in pieno agosto, dopo una giornata di lavoro in
un caldo infernale. Rimangono così, come se la fatica, l’umidità, la polvere o
che altro, non li toccassero, scivolassero via.
Sanno di erba
tagliata, di vento, di sole, a volte di neve, qualche volta di cuoio o di
foglie di tabacco. Sanno di buono.
Quelli che
puzzano sono altri, quelli buttati come stracci negli angoli più bui, affogati
nel vomito, così umiliati da non ricordare neppure il proprio nome, da
non sapere più parlare, perché non hanno più voce da chissà quanto tempo, che
non sanno nemmeno più di esistere.
Non sono loro
a puzzare, è l’umiliazione, il dolore acido e amaro cui non si può dare più
nemmeno un nome.
Li avevo
intravisti, qualche volta, durante viaggi verso i territori Atikamekw, Innu,
Algonquini, o verso l’interno. C’erano posti dove si raggruppavano, buttati
come stracci sporchi tra i bidoni della spazzatura.
Non li avevo
mai visti, perché distoglievo lo sguardo nel timore che, per qualche
ragione, alzassero il loro verso di me.
Puzzavano, è
vero, come mucchi di spazzatura stantia, e qualche volta ho raccolto una
bottiglia vuota, rotolata in mezzo alla strada e l’ho gettata nei
cassonetti, inghiottendo qualcosa di duro e feroce che non erano lacrime e non
era rabbia, o non solo.
Detesto
vederli bere, anche se sono plurilaureati, benestanti, proprietari di terreni,
politici, docenti universitari, scrittori, pazzi intellettuali come quelli cui
ero così ben abituata.
Ogni volta
che li vedo con una bottiglia in mano, anche se è solo una birra, anche se
parlano lucidamente, se il passo resta sciolto e sicuro, mi si stringe lo
stomaco.
Non ho mai
detto nulla per non urtarli, perché, qualsiasi cosa succeda, qualunque sia il
rapporto tra noi e loro, resto sempre una bianca, europea, civilizzata e loro
restano sempre loro e, in qualche modo, uno strisciante, sordo risentimento,
può venire a galla in qualsiasi momento e mi fa paura.
È un
equilibrio delicato, quello che si crea, qualcosa che, se si spezza, si spezza
per sempre e io non volevo perderli.
Non avevo
fiatato nemmeno quella notte, mentre tracannavano birra ed erano normalmente
suonati come al solito, un po’ sornioni nel nascondere la preoccupazione per la
piega inattesa di quegli eventi.
La bottiglia
vuota di Floyd era rotolata sul tappeto, con l’etichetta minuziosamente
strappata un pezzetto alla volta e i frammenti erano altrettanto minuziosamente
distribuiti sul tappeto di Maggie. “Hai fatto un casino con quell’etichetta”
brontolai con la faccia sulla sua spalla.
“Ripulirò con
la lingua, promesso” ridacchiò lui.
Poi Maggie si
affacciò per dirci di andare a tavola.
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La notizia
del raid della polizia in un’area di terreno boschivo, dove degli indiani
erano stati arrestati nel mezzo di una specie di orgia con massiccio uso di
allucinogeni e alcolici, assieme alla figlia di un professore bianco, in stato
confusionale e nell’atto di prostituirsi con i presenti, si era sparsa
immediatamente nella zona, tanto che mamma e papà furono costretti a
trasferirsi in una pensione alla periferia opposta della città mentre cercavano
un’altra villetta in un altro quartiere.
I ragazzi
erano ricercati, e io con loro. Le accuse a mio carico erano consumo e spaccio
di droghe pesanti, disturbo alla quiete pubblica, schiamazzi, vandalismo, atti
osceni in luogo pubblico e prostituzione.
Non male per
una Cerimonia.
C’erano molti
dubbi su come si fossero effettivamente svolti i fatti: da una parte papà e
Maggie avevano spiegato che si trattava di una Cerimonia di interesse culturale
e antropologico, una cosa tradizionale cui la signorina Marabel aveva
gentilmente accettato di partecipare, dall’altra testimonianze deliranti dei
residenti e la rissa che si era sfiorata, senza contare che due partecipanti a
detta cerimonia avevano un abbigliamento moralmente discutibile.
Robert
continuava a tenere d’occhio la soffitta della villetta di fronte, Maggie si
comportava nel modo più normale del mondo: i nomi degli indiani incriminati
non erano stati resi noti e lei era una signora molto per bene, con un nome
scozzese, non destava sospetti.
Non aveva
grandi rapporti con il vicinato, ma era gentile con tutti, ogni martedì faceva
nel forno deliziose pagnottelle che in parte regalava alla chiesa, che però non
frequentava, e biscotti alla cannella che distribuiva alle famiglie dei
dintorni: nessuno avrebbe puntato il dito contro di lei, semplicemente perché a
nessuno veniva in mente che lei potesse entrarci qualcosa, con quei criminali.
Noi, però,
dovevamo allontanarci.
Restammo
nascosti per due giorni, quasi sempre in cantina, ma ci stava molto stretta e
Floyd, più di tutti, iniziava a soffrire la clausura.
Impazziva a
stare rinchiuso, sembrava una belva in gabbia: continuava a correre su e giù,
dalla cantina al piano superiore della casa, tornare sotto, tornare su, faceva
addominali e flessioni fino a sfiancarsi, allora si buttava sotto la doccia.
Poi acchiappava una birra gelata, la scolava in meno di un minuto e si
addormentava, al che Robert sospirava alzando gli occhi al cielo e ringraziava
gli Spiriti per averlo finalmente reso inoffensivo.
Se potevamo
rimanevamo in casa, ovviamente, ma, appena si avvicinava qualcuno, ci
rifugiavamo in cantina.
Di uscire in
giardino, naturalmente, non se ne parlava e Floyd stava dando di matto.
Il problema
era svignarsela senza dare nell’occhio: io potevo travestirmi da Maggie, la
sera o la mattina presto, avendo cura di camminare rapidamente e a testa bassa,
magari con un foulard o un cappello, uscire e sparire tranquillamente e lei
sarebbe poi tornata a casa con lo stesso abito e pettinatura, ma due maschietti
prossimi al metro e novanta, decisamente prestanti ed atletici non erano
facilmente mimetizzabili.
La terza sera
Maggie uscì a cena, in auto.
Si avviò
tranquilla verso il centro, lasciò la macchina nel parcheggio privato di un
ristorante greco (andava matta per il Tzatziki), e raggiunse alcuni amici
all’interno del locale.
Pochi minuti
dopo, un furgone molto anonimo e un po’ ammaccato parcheggiò proprio dietro
l’utilitaria verde, ne scesero due uomini, aprirono il portellone, scaricarono
alcune casse di bottiglie.
Uno rimase
appoggiato alla fiancata, a guardia del mezzo, l’altro entrò nelle cucine e mollò
la prima cassa, tornò con uno dei camerieri e portarono dentro le altre.
Due minuti
circa. Saluti, risalirono sul furgone, che ripartì in tutta tranquillità e
scomparve nel traffico.
Poco dopo lo
stesso furgone entrava in un quartiere popolare, si infilava in un vicolo
piuttosto buio, facendo scappare un paio di gatti randagi, si fermava un
minuto, non di più, usciva lentamente dall’altro capo del vicolo.
Se qualcuno
avesse osservato con una certa attenzione, avrebbe notato che la targa era
piuttosto sporca di fango secco, ma, a parte questo, non c’era nulla di
sospetto.
Un po’ più
strano, invece, fu, un paio di minuti dopo, veder uscire dallo stesso vicolo un
Cherokee Chief nero, piuttosto infangato anche lui, soprattutto la targa e
questa era la cosa che più stonava, perché quell’auto di lusso, non solo era
molto fuori posto in quel quartiere, ma, sotto gli schizzi di fanghiglia che
sembravano quasi distribuiti ad arte su fiancata e parafanghi (e targa), aveva
una verniciatura lucidissima, senza un graffio, pneumatici nuovi di zecca,
parafanghi cromati, vetri oscurati che sembravano appena usciti da un’officina.
A parte
quello, era soltanto una grossa auto nera che usciva da un vicolo buio, come ce
ne sono tanti in ogni parte del mondo.
Il Cherokee
si diresse verso la periferia e poi puntò a Nord, verso l’autostrada.
All’interno
si intravedeva una coppia: un uomo alto e massiccio, tra i trenta e i
quarant’anni, un bel viso dalla pelle piuttosto segnata da vecchie cicatrici,
forse risalenti all’adolescenza, occhi scuri e penetranti dal taglio allungato,
pelle piuttosto scura.
Aveva in
tutto e per tutto l’aspetto dello stereotipo del Mohawk, a parte che, anziché
la cresta, aveva una lunga treccia nera che gli scendeva fino alla cintura di
cuoio, mirabilmente incisa a fuoco la cui fibbia d’argento rappresentava una
tartaruga stilizzata. Portava un cappello nero a falda larga, camicia antracite
su cui spiccava una cravatta bolo con un fermaglio di Turchese, un orologio
d’oro.
Era
decisamente molto Mohawk.
La donna
accanto a lui sembrava più minuta di quanto in realtà non fosse, forse perché
se ne stava raggomitolata contro il sedile, aveva capelli biondo scuro con una
permanente quasi passata e indossava un vestito di due taglie troppo grande,
tanto che sembrava avesse il vestito della nonna.
“Posso
uscire?” chiese il sedile posteriore con una voce sofferente: “Grunf!” rispose
il Mohawk.
“Credo voglia
dire no” tradusse la donna.
“Pietà, ho
male a parti di me che non avrei immaginato di possedere!” implorò il sedile.
“Ufgrnbll”
“Dice dopo”
ritradusse la donna.
Intanto, in
città, Maggie salutava gli amici al ristorante, si avviava alla macchina e,
chissà perché, raggiungeva il posto di guida passando dietro l’auto e dando con
noncuranza un colpetto secco alla portiera del bagagliaio.
Era notte
ormai quando il Cherokee lasciò il Massachusetts per entrare nel New Hampshire
e si fermò a far benzina. Il Mohawk ne approfittò per pulire la targa e dare
una lustratina alla macchina: “Non dovrebbero averci visti, ma nel caso
manteniamo l’anonimato…” bofonchiò.
La portiera
posteriore si aprì lentamente e ne scivolò fuori, a quattro zampe, un ragazzo
molto stropicciato, in jeans e camicia, capelli nero lucido quasi corti, in
quel momento per lo più appiccicati alla faccia sudata.
“Stavo per
morire!” gemette sedendo a terra, distendendo le lunghe gambe e gemendo
penosamente.
La donna
corse verso il bar sempre aperto e tornò con aranciata e un sacchetto da cui
estrasse un grosso panino che non fece in tempo a mettergli in mano, che era
già a metà. “Ma ti ingozzi!” protestò.
Lui emise dei
rantoli, appoggiato alla carrozzeria con gli occhi chiusi: “Fatto non fui per
viver come bruto o topo di fogna!” declamò.
Il Mohawk
scosse la testa: “Ehi, poeta, sgranchisciti che poi ripartiamo!”
“Ho male
ovunque!”
Non avevo
dubbi: era rimasto accartocciato una buona mezz’ora nel bagagliaio di
un’utilitaria dove sarebbe stato scomodo un bambino di dieci anni, poi un altro
po’ sotto i pianali di un furgone e ora schiacciato sotto i sedili posteriori
di un gippone per un’altra ora buona. “Quanto sei alto?” domandai seduta per
terra lì vicino: “Non so, prima uno e ottantacinque, ora penso un metro e
trenta” sospirò.
“Howard, non
deve stare sotto il sedile per tutto il viaggio, no? Ora può uscire?”
“Uhmmmm”
“Ma abbiamo
passato il confine!” l’altro si calcò di più il cappello sulla testa e annuì
con una scrollatina di spalle.
Floyd mi
prese le mani e le baciò: “Donna, mi stai salvando la vita! Sarò tuo schiavo
per sempre!”
L’auto
procedeva a velocità sostenuta, ma regolare, rispettando rigorosamente i limiti
di velocità, così da evitare qualsiasi controllo e presto entrammo nel Maine.
“Come
facciamo a passare il confine?” chiese la voce da oltretomba di Floyd da un
punto nel buio alle nostre spalle: “Io con i miei documenti”
“Ok, e noi?”
“Voi non
passate il confine” rispose il gigante Irochese.
Lo guardai
stupitissima: “No? Non ci porti a Khanawake?” lui scrollò nuovamente le spalle:
“Ho l’ordine di mollarvi in un cottage a una trentina di chilometri dal
confine, un po’ nell’interno. Un posto sicuro, di proprietà del vecchio Jack.
Ci va a pescare branzini, ma lui è convinto siano salmoni.
Maggie vi
raggiungerà domani o dopo”
“Robert?”
chiese Floyd: “Dovrebbe essere in viaggio per il territorio Assiniboine o
dintorni…non lontano, comunque.” Lanciò un’occhiata nello specchietto: “Pensa
che viaggiava arrotolato in un tappeto e non lamentarti! Ed è pure allergico
agli acari, ora che ci penso” rifletté.
Ero felice di
lasciarmi quella brutta storia alle spalle: dopo giorni mi sentivo quasi
rilassata, leggermente euforica. Estrassi un panino dal sacchetto della
stazione di servizio, ne offrii metà a Floyd che aveva ancora fame,
naturalmente. “Ragazzi, se mi riempite la macchina di briciole vi riduco in puzzle
dai pezzi ancora più minuscoli delle briciole!”
“Ma abbiamo
fame!” esclamammo in coro. “Lì nel cruscotto ci sono tovagliette, o qualcosa…”
aprii il cruscotto e, sopra alcune tovagliette ben piegate, vidi un lungo
coltello da caccia dal manico di corno meravigliosamente intagliato, la lama di
almeno venti centimetri infilata in una guaina di cuoio altrettanto decorata a
fuoco e una pistola molto meno elegante e molto più prosaicamente minacciosa.
“Che fai se
ti fermano?” domandai.
“Non mi
fermano” tagliò corto.
Parlammo
poco, durante il viaggio.
Ogni tanto
sentivo Floyd stiracchiarsi alle mie spalle, infilare le gambe fin sotto il mio
sedile e dare dei calcetti infastiditi. Howard accese l’autoradio su una
stazione che in quel momento trasmetteva musica di Buffy st Marie e poco dopo
cantavamo a squarciagola tutti e tre Starwalker e Qu'appelle Valley
Saskatchewan, cui Floyd aggiungeva come arrangiamento grida di guerra da
spaccare i timpani.
In mattinata
infilammo una strada sterrata e, dopo qualche chilometro, apparve il cottage
del vecchio Mi’kmaq.
Era immerso
in una pineta, un torrente scorreva una ventina di metri più in là,
attraversato da un ponticello di legno e costeggiato da un sentiero che spariva
nel folto del bosco.
Floyd e io
eravamo estasiati: era il miglior nascondiglio che si sarebbe mai potuto
immaginare, soprattutto dopo tre giorni tra la villetta di Maggie e la cantina
della medesima.
Floyd
espresse la sua felicità schizzando fuori dal Cherokee con un urlo selvaggio e
inscenando una folle danza sciamanica, sempre più rapida e ossessiva.
Howard
dissimulava un sorrisetto compiaciuto, il vecchio Jack contemplava la scena
sulla porta del cottage, appoggiato ad un bastone che, più che lo strumento di
un vecchio, mi ricordava quello di Mago Merlino.
Scaricate le
nostre poche cose, Jack ci mostrò le nostre stanze. Lui dormiva al piano di
sotto, dove c’era un’ampia stanza di soggiorno, la cucina, un bagno e una
dispensa, noi sopra, in due stanze piccole quasi dirimpetto e dove, di fianco,
tra la mia camera e quella di Maggie, c’era un altro bagno.
“Questo è il
bagno delle ragazze, tu userai quello di sotto” intimò severamente il vecchio a
Floyd. “A meno di qualche urgenza in contemporanea” disse come ripensandoci.
Ci sistemammo
e scendemmo in cucina, dove il vecchio aveva preparato uova e bacon degne di un
perfetto maggiordomo inglese e Howard era già a tavola che spalmava burro
salato su pane fritto.
Più tardi ci
salutò e il Cherokee si allontanò agilmente sullo sterrato, felice di poter
correre su strade per cui era stato costruito, invece che sull’autostrada.
Mi sentivo
colpevolmente felice: ero lì a causa di un disastro, mi nascondevo in parte
dalla polizia di due stati più a Sud, in gran parte da un branco di folli
esagitati decisi ad un nuovo olocausto di Nativi e di chi fosse loro legato.
Papà, che
avevo visto la sera prima, dopo aver lasciato la casa di Maggie travestita, mi
aveva detto che casa nostra era piantonata da membri di un gruppo razzista
specializzato in raid contro le popolazioni Indigene, che avevano gettato
secchiate di vernice rossa contro la casa, scritto parolacce verso di me, e la
versione ufficiale era che mi ero sbattuta praticamente tutta la popolazione di
indiani della costa Est.
Lasciata la
casa avrebbero dovuto pagare una penale al proprietario per non aver rispettato
il contratto d’affitto e per i danni, naturalmente.
Per ora,
nella pensioncina dove alloggiavano, stavano bene.
Una parte di
me era sconvolta da tutta quella situazione, ma lì, ora, non riuscivo a non
essere felice.
Forse per il
conflitto, forse per la stanchezza di quegli ultimi giorni, mi scoppiò un mal
di testa improvviso e terrificante, ma in casa non c’era nulla che potesse
servirmi per il dolore.
Jack mi fece
sdraiare, accese del cedro, sedette al centro della camera e prese a
cantilenare un canto sommesso, accompagnandosi con un sonaglio.
Mi lasciai
cullare finché mi addormentai.
Sognai
incendi, polizia, gente incappucciata che ci inseguiva, spari, Nativi che
danzavano in abiti tradizionali e venivano improvvisamente circondati da quei
folli. Avevano fucili, torce, gettavano verso di loro benzina in cui lanciavano
le torce, cercavano di prenderli al lazo mentre bruciavano, ridendo e
incitandosi gli uni con gli altri.
Gridavo,
cercavo di gettarmi addosso a loro per fermarli, di disarmarli, la polizia
sembrava indifferente, sparavano a casaccio, più verso di noi che verso gli
assassini.
Alzai gli
occhi. In mezzo a tutto quell’orrore, un uomo vestito di una lunga tunica nera,
dalla foggia sconosciuta mi fissava immobile, il viso elegante rigato di
lacrime. Tutto si muoveva al rallentatore intorno a noi, come distante, come
fossimo lì, ma non fossimo lì. Il viso non era proprio un viso, ma una maschera
d’oro dallo sguardo immoto, su cui scorrevano fiumi di lacrime.
Mi svegliai
di soprassalto, mi guardai attorno. Appoggiato allo stipite, Floyd mi osservava
in silenzio.
“Da quanto
sei lì?” chiesi ancora scossa: “Un pochino” rispose.
Si avvicinò e
sedette sul bordo del letto: “Ha chiamato tuo padre. Forse hanno trovato casa,
se va tutto liscio, in un quartiere fuori Boston, zona Nord, non lontano da
Maggie. Però hanno incendiato l’auto di tua mamma. La polizia sembra stia
accettando la versione dei tuoi sull’accaduto, ma siamo spariti e per questo
siamo ricercati. Tuo padre ha spiegato che ci siamo allontanati per sicurezza
e, visti gli sviluppi, gli sbirri non hanno avuto difficoltà a crederci.”
“Ah.”
Sorrise: “Che
reazione sconvolgente!” commentò.
“Non doveva
andare così!” dissi con la voce incrinata: “Era soltanto una Cerimonia, noi
cinque, non davamo fastidio a nessuno!”
“Già”
commentò lui: “Sai, il terreno su cui è stato creato il cerchio è proprietà di
un conoscente di Maggie. Teoricamente quei balordi stavano commettendo un
reato, non noi. Figo, vero? Ora la faccenda è venuta fuori, il proprietario del
terreno ha sporto denuncia sia contro quelli che sono entrati nella proprietà,
sia contro la polizia, ma a loro non faranno niente, né multe, né condanne di
alcun genere.” Sospirò: “L’ho già visto questo film…”
Ero
puntellata su un gomito, mi lasciai cadere sul cuscino: il mal di testa era
aumentato.
Floyd mi
passò lentamente la mano davanti agli occhi, due, tre volte, poi le posò
entrambe sulle mie tempie. Erano grandi, ma snelle ed eleganti, nonostante avesse
sempre lavorato, leggere come ali di farfalla.
Con gli occhi
chiusi gli sentii fare dei movimenti, sfiorandomi appena, per un po’, poi
infilò indice e medio dietro la nuca puntandoli ai due lati del cervelletto.
Sentii una
scarica di qualcosa di fluido, poi un formicolio che saliva su, attraversava la
testa e andava a finire sulle sopracciglia. Piacevole, una specie di solletico
tiepido e liquido, che sembrava sciogliere duri nodi di dolore e trasformarli
in fumo che evaporava senza lasciare traccia.
Mi lasciavo
cullare da quelle sensazioni. Con la mano libera mi sfiorava la fronte e i
capelli, era così piacevole…ed ebbi un flash: io facevo esattamente la stessa
cosa, tanto, tanto tempo prima.
Compivo
quegli stessi gesti, accompagnandoli con preghiere diverse, muovendo le stesse
energie.
Dovetti
sobbalzare per lo stupore, la mano di Floyd si posò piatta sulla mia fronte:
“Sssssttt…non pensare, per un po’, se ti riesce.” sussurrò chinandosi al mio
orecchio. C’era un tono divertito, come avesse sentito chiaramente i miei
pensieri. In quella vicinanza, nel sussurro così vicino alla mia faccia, sentii
odore di bucato, di shampoo, di resina:
doveva essere uscito mentre dormivo e non aveva resistito alla tentazione di
arrampicarsi su qualche albero.
E mi accorsi,
come mi avesse colpita un fulmine, che mi piaceva, mi piaceva da impazzire,
come non mi era mai capitato prima!
I pochi
ragazzi con cui avevo imbastito delle storie, in passato, mi ero imposta di
farmeli piacere, perché piacevo loro, perché volevo che fosse così, perché
volevo la normalità. Sapevo che non erano chi cercavo, sapevo di non avere
niente a che fare con loro, ma volevo che mi piacessero e volevo piacere.
Avevo finito
per provare dei sentimenti più forti di quanto avrei voluto, quasi costringendoli
a crescere e manifestarsi, trovandomi sempre, puntualmente, mollata,
cornificata, rifiutata, mentre ero io, alla fine, a rincorrere loro,
chiedendomi perché di quel voltafaccia, che cosa avessi di sbagliato, perché
non potessi avere delle storie normali, con persone normali.
C’erano
oceani di spiegazioni, a dire il vero, per questo.
Potevo
fingere finché volevo, potevo convincermi che andava tutto bene, che ero
finalmente pronta per una vita normale, ma sapevamo tutti, la vita, io, qualche
forza onnisciente al di là di me, che non li amavo, che non li avrei mai, per
davvero, amati, che per stare con loro, in quella gabbia di normalità, avrei
ucciso me stessa.
Ora era
diverso: provavo una spinta genuina, incantata, incredula e potente verso quel ragazzo
magico.
Anche quella
volta percepì i miei pensieri o le mie emozioni, perché lo sentii irrigidirsi
leggermente. Deglutì, sembrava turbato, poi lasciò scivolare via le mani e mi
toccò leggermente le spalle: “Resta qui ancora un po’, ti chiamo io”
Uscì tanto
silenzioso, che mi venne da chiedermi se non avessi sognato.
Tornò forse
mezz’ora dopo, ma finsi di dormire. Lo sentii trattenere un attimo il fiato,
imbarazzato, poi si accovacciò di fianco al letto e mi chiamò sottovoce,
sfiorandomi la guancia con un dito.
“Vuoi
mangiare qualcosa? C’è pane e formaggio, non abbiamo preparato un pranzo, vista
l’ora in cui abbiamo fatto colazione. E ci sono mele cotte, se vuoi, con la
cannella e il cioccolato.
Sedetti e
gettai le gambe oltre il letto: questo era assolutamente terapeutico.
Più tardi lui
spaccò la legna, ormai eravamo prossimi all’autunno e l’aria del Canada portava
odore di pioggia e foglie bagnate. Io la accatastai per benino, riuscendo
perfino a creare dei disegni alternando ceppi di colore diverso nella catasta,
poi si mise a rovistare finché trovò una grande fetta di un vecchio ceppo, ci
disegnò un cerchio rosso, uno bianco, un altro rosso, e lo inchiodò alla porta
di quello che avrebbe dovuto essere il fienile. Aveva recuperato un vecchio
arco ancora in buono stato e si mise a tirare frecce sghembe che spesso non
avevano abbastanza punta per conficcarsi nel bersaglio.
Il vecchio e
io lo osservavamo divertiti.
“Donna,
renditi utile!” mi intimò, stufo di quegli arnesi, prese dei legnetti, un
coltello a serramanico e mi mostrò come affilarle e come intagliare la cocca
e l’intaglio per l’impennaggio.
Abituata ad
aver a che fare con reperti e popoli antichi, non mi pareva vero di passare da
osservatrice e sperimentatrice, così mi impegnai cercando ricordi di tutte le
frecce che avevo visto, osservato o tenuto tra le mani, dal neolitico ad
ventesimo secolo.
Scoltellavo
quei legnetti con tale impegno, con la punta della lingua tra le labbra nella
concentrazione, da far ridere i miei compagni, tanto che, dopo un po’, riuscii
a produrre frecce che mi parvero piccole opere d’arte. Non lo erano,
naturalmente, ma ne ero assolutamente orgogliosa.
Floyd infilò
l’impennaggio (fatto con pezzetti di corteccia di betulla) e dopo un po’ riuscì
a dar loro una direzione dignitosa. Era bravo.
Era ormai
quasi il tramonto quando decise che ero pronta per il passo successivo. Mi
sollevò per la vita, mi fece ruotare a mezz’aria e mi sistemò davanti a sé,
infilandomi l’arco in mano e guidando i miei movimenti.
Dopo alcuni tentativi
in cui le frecce cadevano miseramente ad un metro da me, riuscii a tirarne
alcune, che però non colpirono il bersaglio nemmeno di striscio.
“Non
preoccuparti, non hanno una buona stabilità, sono troppo leggere e anche la
corda dell’arco è troppo rigida. Non potresti fare di meglio”
Lui, però,
faceva molto meglio. D’altra parte, aveva iniziato a tirare con l’arco prima
che a camminare.
L’indomani
andammo in esplorazione: il sentiero che fiancheggiava il torrente si biforcava
portando da una parte ad uno dei tanti laghi della regione, dall’altra nel
folto della pineta, fino ad un altro fiumiciattolo che creava, tra gli alberi e
le rocce, salti, anse, piccole rapide e un paio di vasche naturali di acqua più
profonda e limpida.
Il ragazzo
del Montana si levò scarponcini, jeans e camicia e si tuffò.
Emerse
ridendo con un ululato: “Vieni, non è fredda!”
Gli risposi
qualcosa come fossi scema, e mi guardai bene dall’imitarlo.
A dire il
vero, c’era una radura attorno all’acqua, dove il sole batteva per molte ore
scaldando la polla, ma non avevo intenzione di buttar mici ugualmente.
Lui nuotò un
po’, mi schizzò tentando di convincermi, poi uscì rassegnato buttandosi sulle
rocce ancora al sole, in mutande.
Non provava
imbarazzo, viveva la sua naturalità con l’innocenza di un bambino, mentre io
continuavo a distogliere gli occhi da quel corpo splendido.
Forse se ne
accorse, perché, appena si sentì asciutto, acchiappò i jeans, sfilò l’intimo
ancora bagnato, e rapidissimo se li infilò.
“Domani ti
butto dentro!” mi minacciò.
L’indomani
non tornammo, però, perché dopo mezzogiorno arrivò Maggie con abiti, provviste,
notizie, documenti e perfino un piccolo televisore portatile, poiché quello
vecchio del cottage, in bianco e nero, era definitivamente passato a miglior
vita.
Robert era al
sicuro, mamma e papà avevano lasciato la vecchia casa e ora stavano trattando
per la nuova.
Ora che
Maggie era partita, avevano lasciato la pensione e si erano trasferiti a casa
sua, assieme ai gatti che non sopportavano di restare chiusi in un’unica
stanza.
Io, per il
vecchio quartiere e limitrofi, risultavo la più grande delle mignotte, ora
c’erano ragazzi che giuravano che li avessi importunati e molestati in ogni
modo e ragazze che mi avevano praticamente strappata da dosso a fratelli e
fidanzati, mentre il commento più frequente era che la mia era sicuramente una
malattia.
Da una parte
l’assurdità della faccenda era quasi divertente, dall’altra mi feriva
profondamente.
“Non te la
prendere, lo sai come sono!” esclamò Floyd.
Tutta quella
storia diventava sempre più mostruosamente grottesca.
La sera, dopo
cena, in televisione davano il cartone di Robin Hood e Floyd, che aveva
mostrato a Maggie i miei progressi di arciera, mi piazzò davanti allo schermo
costringendomi a guardarlo. Non gli dissi che era il mio preferito, fingendo di
guardarlo sotto costrizione.
Solo il
giorno dopo tornammo alle polle.
C’era il
sole, ancora stranamente caldo, e l’acqua, effettivamente, non era fredda.
Floyd si tuffò, io esitavo: non mi andava di tuffarmi con la biancheria intima,
mi vergognavo e poi non sarebbe mai asciugata!
Alla fine la
voglia di nuotare là dentro ebbe la meglio e mi tuffai con canottiera e
mutandine.
Non avevo
considerato che, una volta bagnata, sarebbe stato come non averla, ma Floyd non
diede alcun segno di essersene accorto: come gli era naturale buttarsi senza
pensare alla presenza o assenza di vestiti su di sé, lo stesso valeva per gli
altri e io riuscii a dimenticare la mia educazione e a non sentirmi in
imbarazzo.
Giocammo ad immergerci
e a spruzzarci finché non iniziai a sentire freddo, così uscimmo entrambi e ci
sdraiammo su una roccia calda, sotto il sole quasi a picco. Era pomeriggio, il
calore avrebbe cominciato a scemare di lì a forse un’ora e mezza, ma avevamo il
tempo di asciugare e prendere calore dalla pietra sotto di noi.
Il corpo
slanciato, atletico, del tutto privo di qualsiasi difetto del mio compagno di
nuotata, emanava un tepore pericolosamente gradevole, accompagnato da un
magnetismo, da sensualità inconsapevole ed innocente che toglieva il fiato.
Dopo un po’
mi spostai sull’erba sostenendo che la roccia era dura, lui si rivoltò a pancia
in giù e rimase là a fare la lucertola.
La mia
biancheria era ancora parecchio umida, non sarebbe sicuramente asciugata prima
che il sole se ne andasse: avrei dovuto togliermela e vestirmi della roba
asciutta, ma non osavo e ancor meno avrei avuto il coraggio di nascondermi per
cambiarmi.
Riflettevo
sul mio imbarazzo, quando lo sentii lasciarsi cadere di fianco a me: “Hai ragione,
la pietra è dura” bofonchiò.
Osservai i
capelli che gli sfioravano gli zigomi, ancora umidi e arricciati sulle punte:
“Perché li hai tagliati?”
Fece mezza
spalluccia: “Yale. Storcono meno il naso, già non erano contentissimi che fossi
lì e per di più con una borsa di studio. Mi erano ricresciuti un bel po’ dopo
il liceo. Mio nonno dice che mi disereda se lo faccio di nuovo”
“Li avevi
tagliati anche prima?” annuì guardando in basso, come si vergognasse.
“Se te lo
dico mi prendi in giro”
“Non lo farò,
promesso!”
Mi guardò
dubbioso: “Quella è bagnata, non puoi tenerla! Toglila, dai, la stendiamo al
sole”
“Non posso!”
esclamai scandalizzata: “Perché no? Non fa così caldo e quella roba umidiccia…”
sorrise, sornione: “Dì, non crederai che se te la togli si vedrà qualcosa più
di adesso, eh?”
Abbassai gli
occhi: la maglietta era praticamente trasparente. Sospirai e la sfilai via con
un gesto, nascondendomi con le braccia e raggomitolandomi contro le ginocchia.
Lui la appese
ad un ramo, avendo cura che ci battesse il sole.
“Ora sputa il
rospo” intimai dalla mia posizione a uovo.
Gli scappava
da ridere: ero stata in acqua con lui per un’ora, mi ero sdraiata al sole senza
rendermi conto che la maglia era del tutto inutile e ora mi raggomitolavo per
nascondermi.
“Beh, ecco…”
iniziò: “Io…facevo…mi era stato proposto di” deglutì, avvampando: “fare
sfilate. Di moda.”
Lo guardai
interrogativa: “…e?”
“E le ho
fatte, ecco!”
“Non è
illegale” risposi. Non so se fossi più scema io a vergognarmi di stare senza
maglia o lui di fare l’indossatore.
“Dopo il
processo mio padre voleva restituire tutti i soldi. Il Consiglio Tribale disse
che eravamo una famiglia e quelli che li avevano raccolti non li rivolevano
indietro, ma non era giusto e così ogni mese mandava una parte del guadagno
alla Riserva, se poteva con un minimo di interesse. Lavoravamo tutti, perfino
Bianca aiutava facendo lavoretti per i vicini, ma non avevamo mai molto.
Mio fratello
voleva tornare alla Riserva a sposarsi, volevano che io continuassi a studiare
e andassi al college, e così si era sempre alle strette, perché venivamo pagati
meno degli altri di altre razze.
Così, quando
me lo proposero e mi dissero quanto avrei potuto guadagnare non mi parve vero,
però dovevo tagliare i capelli corti, stile marine, a spazzola. Dovevano
notarsi le mie origini, ma solo fino ad un certo punto, l’indiano
nell’esercito, nei marines, fa un effetto migliore del selvaggio. Avevo una
treccia più lunga di quella di Howard”
“E TU TI SEI
TAGLIATO UN METRO DI CAPELLI PER QUEGLI SNOB????” strillai.
“Te l’ho
detto che non ti sarebbe piaciuto…” bofonchiò. “Comunque, si. Mio padre ci
rimase malissimo, mia sorella non mi rivolse la parola per tre giorni, mamma ci
pianse. Io mi sentivo un idiota, mi vergognavo ad uscire di casa. Però la gente
mi guardava di meno, con più indifferenza, non si scostavano quando passavo.
Ero sempre lo
stesso, eppure per loro ero diverso, molto diverso.
Poi ci fu la
prima sfilata, terribile! Mi dissero che dovevo fare trenta passi e poi tornare
indietro, sennò sarei finito di sotto. A me pareva una stupidaggine, in fondo
basta guardare dove si mettono i piedi, ma lì era un’altra cosa: è buio tutto
intorno, e tu hai un sacco di luci puntate addosso, ogni volta che esci in
passerella torni mezzo accecato e non vedi niente al di là di quel nastro
grigio su cui cammini!
Contavo
cercando di camminare dritto e disinvolto, ma ero terrorizzato. Il tipo che ci
faceva cambiare continuava a strillarmi che sembravo un pinguino inamidato, ma
quella sera, dopo due ore di quella tortura, tornai a casa con cinquecento
dollari e degli abiti di campionario, roba che costava una fortuna.
Ci presi
gusto: non mi piaceva, ma in poco tempo riuscii a saldare tutti i debiti
residui e poi…la gente mi guardava in modo del tutto diverso! Non ero più Floyd
l’indiano pezzente, ma Archangel, il modello e, improvvisamente, ero
sommerso di ragazze che sospiravano e si gettavano letteralmente ai miei piedi.
Era come
vivere in un altro mondo, non riuscivo nemmeno a rendermi conto di quello che
mi succedeva, sballottato tra fotografi, stilisti, ragazze che mi si
appiccicavano come calamite e litigavano per avermi, per poter uscire con me,
per…per mettermi le mani addosso!
I miei non
erano contenti: di colpo avevamo abbondanza, ma io ero cambiato, non c’ero
quasi mai e trascuravo gli studi, la gente telefonava chiedendo di Archangel, e
se i miei mi chiamavano Floyd li trattavano da poveracci.
Durò qualche
mese, così.
Ero molto
stanco, disorientato, ma galleggiavo tra luci e facce sorridenti, stordito dal
lusso e dal denaro. Mi sentivo vincente, mi sembrava che quel successo
riscattasse in qualche modo tutta la mia gente.
Poi, un
giorno uscii dall’aula per prendere qualcosa nel mio armadietto e così ascoltai
una conversazione tra alcune ragazze. C’erano i bagni, lì vicino, e loro
avevano lasciato la porta semiaperta, chiacchieravano appoggiate ai lavandini.
Sentii fare il mio nome e mi fermai ad ascoltare. Una diceva che l’avevo
invitata per il ballo di fine anno, al quale mancavano ancora tre mesi, e un’amica
le chiese se pensasse di accettare.
Io drizzai le
orecchie e quella fece: “Ma sei scema? Se mi presento con quel selvaggio, mio
padre mi butta fuori di casa, non ci penso neppure! E poi, dai, che figura ci
farei? Io con quell’indiano zoticone?” ero raggelato, non
riuscivo nemmeno a respirare. E l’amica: “Beh, perché ci esci?” c’era un’altra,
con loro, la conoscevo bene, una che mi era saltata addosso tempo prima:
“Perché è un gran pezzo di manzo!” fece ridendo.
Ridacchiarono
tutte insieme. “È instancabile, puoi montarlo quanto vuoi e resiste sempre!”
disse la prima: “Appunto, una bestia da monta e basta, non certo uno da
portarti in giro!” ridevano.
Ero la loro
puttana!
Non tornai in
classe, corsi a casa e mi chiusi nella mia camera, non volevo vedere nessuno.
Mio padre telefonò a scuola dicendo che mi ero sentito poco bene, che ero
allergico ad un farmaco che avevo preso, o qualcosa del genere”
Lo ascoltavo
immobile, mi sentivo come se mi avessero colato del ghiaccio dalla testa in
giù. “E che hai fatto?”
“Niente. Sono
rinsavito. Pensavo di piacere alle ragazze, alla gente, di essermi levato di
dosso i panni dello sporco selvaggio ignorante, pensavo di essere una persona
di successo. Pensavo un sacco di sciocchezze.
Continuai a
fare l’Arcangelo delle passerelle, ma mi gettai a capofitto nello studio: avevo
un po’ di cose da recuperare. Lavoro e studio, niente altro. Ero diventato
anche più selettivo, non accettavo più di due sfilate alla settimana e solo in
città. Mi diplomai quell’anno, con il massimo dei voti.
Il giorno dei
diplomi c’erano quelle ragazze, un paio di loro si diplomarono con me, ma con
voti molto più bassi dei miei, tutti i diplomandi avevano voti più bassi dei
miei, avevo avuto anche una menzione di merito e loro mi guardavano stupite,
incredule: non si erano mai accorte che io avessi anche un cervello! Avevano
diversi corsi con me, e non si erano mai accorte dei miei voti, erano…erano
convinte che non fossi in grado di mettere insieme due concetti, capisci?
Eppure io ero lì, davanti a loro, tutti i giorni, da anni!
Quel giorno
si che i miei, là seduti in mezzo alle famiglie, facevano un figurone con abiti
tradizionali, i loro capelli e le loro acconciature! Bianca aveva l’abito che
portava nei pow wow, durante l’estate, solo privo di tutti i sonagli e con le
lunghe trecce adorne di nastri e perle di Turchese.
C’era mio
fratello, la sua fidanzata, un paio di zii. Erano bellissimi, là in mezzo a
quella folla di gente tirata a lucido, che li guardava con sorpresa e disprezzo
e io ero così fiero di loro, di tutti loro, di appartenere alla Prima Nazione.
Ho fatto
sfilate ancora un po’, poi ho iniziato il College, a casa, e ho lasciato
perdere: ormai non avevamo più debiti, eravamo tornati alla Riserva, mio
fratello ha potuto sposarsi, era tutto a posto e io avevo bisogno della mia
terra e della mia gente.
Andai da mio
nonno e gli dissi che volevo imparare a leggere negli altri, cosa che non avevo
mai voluto fare: non volevo più scoprire che, dietro un bel sorriso, facce
affabili che ti si mostravano amiche, c’era solo interesse, menzogna,
ipocrisia, disprezzo. Non volevo più essere il manzo di nessuno.
Così lui mi
aiutò ad imparare quello che, secondo lui, sapevo fare da sempre, ma avevo
dimenticato.
Poi, ho
questa personalità da cittadino modaiolo, la indosso quando serve: scimmiotto
quelli che mi disprezzano, senza che nemmeno se ne accorgano, prendo i loro
gesti, le loro ossessioni, le loro manie e li trasformo in un mio gioco. E loro
non vedono, non se ne accorgono. Io sopravvivo nell’imitarli nel loro mondo
vuoto e non permetto loro di raggiungermi nel mio in alcun modo.”
Ero sempre
raggomitolata tra gambe e braccia, ma non ricordavo più esattamente perché:
“Sei davvero uno stregone, Floyd Archangel!” dissi: “E sei anche molto, molto
perfidamente bugiardo…”
Lui mi guardò
stupito: “No, io? Che ho fatto?”
“Si…tu…mi
hai…mentito!” era molto confuso, non capiva di che parlassi: “Ma no, quando?
Perché?”
“Tu mi hai
detto di non esserti mai mosso dal tuo posto durante la Cerimonia, e di non
aver mai danzato, ma mentivi! Ammettilo, hai danzato e volevi mangiarmi!”
Scoppiò a
ridere: “Ma dai, non è vero! Perché non ci credi?”
“Perché ti ho
visto quando sei sceso dal Cherokee, l’altro giorno! Ti sei messo a danzare
come un pazzo scatenato esattamente come la sera della Cerimonia! A parte le
penne e le pitture, danzavi uguuaaale, uguaale! Ti ho scoperto, confessa,
marrano!”
Lui rideva in
quel suo modo caratteristico, strizzando gli occhi e gettando indietro la
testa. “Ti farò confessare!” dissi e gli diedi una ditata nel fianco…scoprendo
che soffriva il solletico.
Lo guardai
trionfante, un ghigno satanico mi si disegnava sulla faccia e lui deglutì,
indietreggiando, con le mani avanti: “No, no, no, no! Non puoi, non farlo…no,
non è valido…” mi gettai su di lui, completamente dimentica del mio problemino
di vestiti e iniziai a fargli il solletico da tutte le parti.
Lui rideva
come un disperato, le lacrime che gli rigavano le guance, cercava di
nascondersi, ma non confessava: “Parla, o ti torturerò fino alla morte! Ti farò
morire dalle risate!” lo minacciavo. “Pietà! No! Non ho fatto niente, giuro!”
“Dillo che
hai tentato di mangiarmi!”
“NO!”
cominciava a mostrare segni di convulsioni, forse ebbi un attimo di pietà e mi
ritrassi un poco, quel tanto che gli bastò per liberarsi, voltarsi e
acchiapparmi i polsi, bloccandoli dietro la schiena.
“MOSTRO!”
strillai, offesissima.
Lui prese
fiato, ora rideva di me, non più per il solletico. Mi rovesciò e sentii il suo
ventre piatto e caldo contro di me. Cavoli, ero svestita!
Sentivo il
suo respiro un po’ affannoso per il gioco, aveva ancora le lacrime che
brillavano sulle ciglia, il cuore batteva forte contro di me. Però era
strano…anche se aveva riso quasi a soffocare fino ad un minuto prima, non
avrebbe dovuto battere così forte, no?
Forse lo
guardai un po’ sorpresa, perché se ne accorse, come al solito.
Forse sentì
il mio pensiero, come al solito.
Mi mollò un
polso per asciugarsi gli occhi, tenne fermo l’altro. Avrei potuto liberarmi e
svignarmela, volendo.
Volendo.
Un momento
dopo, sentii le sue labbra, quasi timide, aprire la mia bocca.
Mi lasciò il
polso, non perché fuggissi, ma perché potessi abbracciarlo.
**************************
Più tardi
scivolò su un fianco, tenendomi abbracciata e accarezzandomi con il viso e con
le labbra.
Mi teneva tra
le braccia come in una culla, un po’ distante da sé per potermi guardare negli
occhi.
Scorreva con
l’indice i tratti del mio viso, i capelli, cercando di studiarmi, di impararmi
a memoria e poi chiudeva gli occhi, come per imprimersi meglio quello che
imparava.
Sapevo che
poteva essere pericoloso: se mi avesse amata, non sarebbe stato certo un amore
di persona normale e ordinaria.
Mi venne da
sorridere: come avrei, io, potuto avere a che fare con qualcuno ordinario?
Era forte,
sano, sprizzava salute da tutti i pori. Non potevo, almeno inconsciamente, non
confrontarlo con un altro giovane più che straordinario, ma fragile e malato.
Il campo
energetico di Floyd era ampio, forte, radiante, emanava una Magia antica,
primordiale, istintiva, eppure profonda.
L’aura di
quell’altro ragazzo di tremila anni prima, era una stella, accecava per quanto
risplendeva, eppure si piegava su se stessa in quel corpo troppo fragile e
troppo stanco. Era più antica del mondo, traboccava di saggezza e compassione, ma
lo distruggeva e ne era distrutta.
Era strano il
sovrapporsi di quei pensieri: analizzavo senza volerlo e senza nemmeno
rendermene conto, mi lasciavo assorbire dal presente per la prima volta nella
mia vita e, per la prima volta, volevo essere lì, vivere quell’attimo e viverlo
con Floyd.
Aveva quella
lunga cicatrice obliqua, che avevo già notato, sull’avambraccio sinistro,
sembrava il lungo taglio di un vetro, una piccola sotto il mento, una larga un
dito sopra il ginocchio destro, lunga circa quattro dita e sulla quale si
vedevano i segni dei punti di sutura.
Aveva sul
torace, a destra, un’altra cicatrice orizzontale, lunga una decina di
centimetri, sottile e netta, chiaramente di un’arma da taglio, e una
dall’aspetto molto profondo sul fianco destro.
Mi si
affacciò per un attimo l’immagine del coltello da caccia di Howard, nel
cruscotto accanto alla pistola.
Non gli
chiesi come se le fosse fatte, nessuna di quelle. Quella sulla gamba, mi pareva
di aver capito fosse dovuta ad un incidente con un cavallo, quella sotto il
mento poteva essere dovuta ad una caduta, come succede a tanti ragazzi vivaci,
ma le altre non erano incidenti.
Pur senza
chiedere, pur non volendo guardarle, non potevo non vederle. Posai le dita su
quel taglio bianco orizzontale, senza parlare, mi avvicinai e lo baciai piano,
sfiorandolo appena, ma lasciandovi le labbra a lungo. Lui rabbrividì e mi
abbracciò più stretta, il cuore che di nuovo batteva troppo forte.
Restammo
così, senza una parola, finché il sole non se ne andò e cominciò a fare più
freddo.
Non parlammo
fino al cottage.
C’era
branzino per cena, ma ufficialmente era salmone.
Maggie ci
osservò tutta la sera, pensierosa, il vecchio Jack ci sbirciava di sottecchi di
quando in quando e ridacchiava soddisfatto.
Noi facevano
finta di niente, ma sprizzavamo scintille ogni volta che ci avvicinavamo, anche
senza toccarci.
Ero confusa,
ma felice: forse ero guarita!
Forse era
questa la guarigione, l’effetto della Cerimonia.
Mi stavo
lasciando alle spalle un sogno, una cosa irreale ed assurda ed ecco che la vita
mi faceva un regalo meraviglioso, che non avrei mai immaginato.
“Come
puoi non vedermi, Is? Cercami!” scacciai l’immagine, era soltanto
illusione, era finita.
Quando
eravamo ormai tutti a dormire, sentii la porta aprirsi pian piano e sorrisi tra
me. Scivolò con quel suo fare silenzioso, da gatto, verso di me, si infilò
sotto le coperte e mi abbracciò felice.
Mi diede un
paio di baci a fior di pelle e si addormentò, tranquillo come un bimbo.
Restai
interdetta, poi sorrisi tra me: non voleva nulla, voleva soltanto starmi
vicino. Era lì solo per me.
La luna
filtrava dall’anta accostata e gli illuminava il viso addormentato e restai a
guardarlo, finché il sonno non mi sopraffece.
Mi svegliai
che ero da sola. Ho il sonno leggero, ma lui era così silenzioso, tanto più
leggero del mio sonno, che non mi ero nemmeno accorta che se ne fosse andato,
come se a scivolare via dal mio abbraccio fosse stato un fantasma.
La mattina
era grigia, una pioggerellina fredda e dispettosa scendeva sottile ed
insistente, picchiettando sulla tettoia della legnaia e della ex stalla una
canzoncina molto autunnale.
Floyd fece
colazione sulla porta, la schiena appoggiata ad uno stipite, i piedi all’altro,
gli occhi fissi nelle nubi basse e sugli alberi, un panino in una mano, la
tazza del caffè nell’altra.
Meno di
un’ora dopo mi trascinò fuori di peso, sotto la pioggia, e volle andare al
lago.
C’erano delle
canoe, alcune abbandonate da tempo, altre lucide e colorate, con i nomi dipinti
belli sgargianti sulle chiglie. Su una era scritto il nome del cottage.
Ci saltammo
dentro e lui si mise a remare entusiasta del nuovo gioco.
Aveva smesso
di piovere, ma sul lago aleggiava un basso velo di nebbia, simile all’ala
bianca di qualche uccello acquatico, e si accumulava in grossi fiocchi cotonosi
presso le coste. Sembrava di navigare in un mondo incantato, in un tempo di
sogno.
Attraccammo
su un isolotto, uno di quelli piccoli, erbosi, ricoperti di conifere, come si
fossero appena staccati di propria volontà dalla pineta della costa e fossero
rotolati lì, ragazzini ribelli in cerca di avventura.
Sembrava di
galleggiare nel nulla e gli alberi avevano dimora nelle nuvole che ne
avvolgevano i piedi, in quel luogo che pareva a cavallo dei mondi, almeno
finché il sole non avesse sciolto l’incantesimo.
Ci accampammo
su una spiaggia minuscola, tanto quanto poteva esserlo solo su un’isola di
pochi metri di diametro; c’era un asciugamano nella canoa, con sopra disegnati
dei salmoni.
Floyd lo
prese ridendo e lo allargò sulla sabbia bagnata. Sapevo che lo faceva per me, a
lui non importava che la sabbia fosse umida o meno.
C’era un
profondo silenzio, solo il sommesso sciacquio di minuscole onde sulla riva, un
chiacchiericcio tra l’acqua, la terra, gli alberi, il tonfo di qualche uccello
acquatico a pesca nonostante la foschia, rari cinguettii in alto, tra i rami.
Lui se ne
stava lì, seduto a gambe distese e appoggiato all’indietro sui palmi,
guardandosi attorno come un bambino stupito che non abbia mai visto il mondo
oltre il suo quartiere, lui, che invece era cresciuto incollato alla
Terra…cercavo di specchiarmi nel suo stupore per vedere il mondo con altri
occhi, occhi nuovi, pieni di costante meraviglia.
Si sfilò la
camicia, che portava su niente, ne fece una palla che mi mise alle spalle per
cuscino, si tolse i jeans, li lanciò via con i piedi e restò lì, così come
mamma lo aveva fatto, nonostante la nebbia e la pioggerellina, incurante, i
capelli bagnati di goccioline, piccole perle infilate sulle punte, là dove si
arricciavano, tanto da formare una corona intorno al viso.
Mi lasciai
cadere sull’asciugamano, la testa sulla camicia arrotolata, morbida, che sapeva
di lui tanto da stordire, lui che ora si era sdraiato accanto a me,
stiracchiandosi. Mi avvolse la vita e decise, con una smorfia, che la stoffa
era ruvida. “Hai freddo?” feci segno di no e lui mi sfilò la felpa con un solo
gesto: “Allora questo non serve” commentò: “Tanto se hai freddo ti scaldo io”.
Avevo una
gonna country, quel giorno, durò pochi secondi e finì a far compagnia ai suoi
jeans. Qualcosa mi era rimasto, ma, a ben pensarci, stonava.
Rideva
felice, spensierato, mi abbracciò e restò così, stringendomi forte, come avesse
avuto paura che qualcosa potesse strapparmi via da lui.
Solo
parecchio dopo si sciolse da quell’abbraccio quel tanto che bastava da passare
ai baci e poi andare ancora oltre, lentamente, un po’ alla volta, soppesando
ogni gesto, quasi in conflitto tra timidezza e ardimento.
Una gemma
preziosa, la più preziosa delle gemme.
In quei
giorni avevo capito come lui fosse, per la sua gente, un tesoro.
Non so se e
quanto lui ne fosse consapevole e questo lo rendeva ancora più prezioso. Credo
che, senza volerlo, quelle suore un po’ oche e piene di pregiudizi, gli
avessero appioppato un nome che non avrebbe potuto essere più azzeccato.
Quando tornai
al mondo, le nebbie si erano alzate, un timido sole filtrava tra i rami, appena
tiepido. Non avevamo bisogno del suo calore, veramente, ero in un nido caldo,
vivo, amorevole, che ora mi guardava con occhi neri e pensosi. Sembravano
tristi.
Restammo
abbracciati a raccontarci e lui, un po’ alla volta scivolò nel sonno mentre io
di nuovo restavo incantata a guardarlo dormire, incredula che tanta fortuna
stesse toccando a me: era iniziata così male, quella storia!
La cicatrice
bianca e dritta sul petto spiccava sulla pelle brunita. Qualcosa in quella
linea mi inquietava, più di quella sul braccio, richiamava alla mente
un’intenzione più cattiva, crudele di un taglio su un braccio, un’intenzione
assassina.
Anche quella
sul fianco mi spaventava, tanto che non osavo guardarla, a volte l’avevo
sfiorata con le mani, sentendone il diverso spessore della pelle,
l’irregolarità nei bordi, e avevo sentito lui fremere istintivamente,
involontariamente, ritraendosi senza volere.
Posai la mano
su quella linea dritta; lui nel sonno intrecciò le dita con le mie. Mi
appoggiai con la faccia alla sua spalla, ascoltando il lento muoversi del
respiro e il battito del cuore.
Si svegliò un
po’ stupito di trovare la mia mano là, intrecciata alla sua.
“Farai la
Sundance?” lui sorrise: “Si, certo, l’estate prossima, o quella dopo. Ma penso
la prossima.” Si sollevò per guardarmi negli occhi: “Non ti piace?”
“No, no! Devi
farla, se lo desideri. Avete lottato per riaverla! Va bene, anche se…”
Si puntellò
sul gomito per osservarmi: “Se?”
“Non hai
paura?” rise: “No, non ora! Forse il giorno prima…ma no, non credo ne avrò. Mi
preoccupa più il digiuno. Non sono bravissimo, in questo, soffro se ho fame! Ma
non si può avere paura di quel dolore, non è corretto. È un dono, o lo fai
certo di te stesso, oppure lasci perdere. Sarò felice. Tu ci sarai?” disse con
una faccetta maliziosa.
“Se tu
vuoi…ma mi sarà permesso?”
“Se sarai con
me, certo che sarai ammessa e potrai curarmi, una volta terminato il rito.
Avrai il coraggio?”
Lo guardai
malissimo: “Pensi io sia una femminetta paurosa?”
Rise: “No,
soltanto…bianca!” lo picchiai, ma aveva ragione: mi mancava il respiro all’idea
di vederlo appeso a degli uncini, danzando verso il sole finché le sue carni
non si fossero strappate. Mi spaventava vederlo soffrire in quello stato di
trans in cui si sarebbe trovato, che mi riusciva così difficile da comprendere.
Avrei seguito il rito coprendomi gli occhi e le orecchie tutto il tempo, ma
sarei morta piuttosto che ammetterlo!
“Comunque
scordati che io mi attacchi alle tue spalle per farti rilasciare gli uncini!”
lo minacciai.
“Vuoi dire
che mi lascerai soffrire? Così, impunemente? Oh! Che donna crudele!”
Forse fu per
dimenticare la sofferenza per il mio futuro tradimento che, con uno scatto
felino, si lanciò nella canoa e afferrò lo zainetto con le provviste.
Estrasse un
panino, lo soppesò pensieroso, ne staccò un morso restando a riflettere, come
chiedendosi se fosse o meno effettivamente commestibile e poi, deciso che
poteva andare, mi fece dare il secondo morso.
Mangiammo
così, non un panino a te e uno a me, ma un morso a testa.
Gli ridevano
gli occhi, si divertiva in quel gioco semplice che non era veramente un gioco,
ma un rituale di unione solo per noi, decisamente meno cruento della Sundance.
Stavo
rapidamente imparando che ogni suo gesto, dal gioco più istintivo e innocente,
al rituale di guarigione o di qualsiasi altro tipo, era un atto magico e, per
la prima volta in tutta la vita, non mi sentivo sola.
Eppure
spesso, contro la mia volontà, nel guardarlo, nell’ascoltarlo, nella mia mente
si sovrapponevano immagini, ricordi, sensazioni.
Sapevo che
lui non era LUI, ma non volevo pensarci.
C’era stata
una Cerimonia, la malattia se ne era andata, il passato era scivolato via e la
vita mi aveva premiata con quel gioiello che rideva davanti a me con le
briciole sulle labbra.
Mi balzarono
alla mente le parole del Principino su Ekhnaton: “Lui non è mio padre, è solo il mezzo attraverso cui sono venuto al
mondo. Lui non è come me.”
Floyd,
chiunque e qualunque cose fosse, in qualche modo era come me e il resto volevo
scoprirlo attraversando con lui la vita. Volevo far crescere quell’intimità che
si stava creando, essendo felice con lui e, soprattutto, rendendo lui felice.
Il resto
volevo dimenticarlo. Avevo vissuto troppo tempo in una ricerca inutile ed
infruttuosa, in qualcosa che, evidentemente, non esisteva se non nei miei
sogni.
“Sai cosa mi
piacerebbe un sacco?” mi chiese una sera mentre ce ne stavamo a contemplare il
tramonto, su una grossa roccia: “Diventare ricco, molto. E comprare la terra
attorno alla Riserva. Non un paio di ettari, o dieci, o cento…poterne comprare
tanta, centinaia di ettari e poi fare una donazione alla Riserva e farli
diventare territori federali.
Vorrei
comprare tutti i terreni tra Flathead e Blackfeet, farle diventare un solo
grande territorio.”
“Pensi che ve
lo permetterebbero? Una volta capito il gioco, il Governo interverrebbe per
impedirvi di ricomprare tutti quei terreni”
“Non so. Vai
e paghi, magari cash. A privati, a contee, allo stato…a seconda.
Io credo che,
vedendosi sventolare i loro preziosi biglietti verdi sotto il naso,
venderebbero e poi, sai, la gente è miope, pensa: ‘oh, che vuoi, sono solo
dieci, venti, cento ettari, che vuoi che sia!’ e tu, invece, stai rosicchiando
un po’ per volta il formaggio, prima che se ne accorgano. In fondo è molto
meglio di quello che hanno fatto loro, no?”
Sospirai:
“Non pensi che al tuo popolo servano altre cose, invece dei territori? Non siete
in sovrappopolazione, invece c’è bisogno di lavoro, cure, scuole…e tanto
altro.”
“No, non
siamo in sovrannumero, hai ragione, non potremmo esserlo. Dopo averci
sterminati con le malattie, l’alcol, le uccisioni di prigionieri catturati con
l’inganno, ci hanno sterilizzati in massa per decenni, per essere sicuri che
non ci riproducessimo. E poi il resto…la disperazione, i suicidi…forse dovremmo
essere estinti da un pezzo. Ma non è così, ci siamo, siamo ancora qui,
nonostante tutto! Mary, la terra per noi è un’altra cosa, non è come per gli
altri! È lo stomaco, il cuore, capisci? Se hai la terra, hai tutto! Ne avremmo
ancora cura, come una volta, più di una volta…prenderemmo forza, potremmo
crescere.” Si voltò a guardarmi.
“Ti sembra
folle, vero?”
“Non sono
proprio la persona più adatta a dare del folle a qualcuno, sai?”
Lui mi studiò
per un po’, gli occhi socchiusi, poi mi attirò contro di sé e mi tenne stretta
a lungo, senza una parola.
Al cottage
Maggie stava preparando la cena, brontolò che eravamo stati via tutto il giorno
ed eravamo due scapestrati e ci intimò di sbrigarci a fare una doccia, che era
quasi ora di mettersi a tavola.
Ci lanciammo
su per le scale, ma un urlo molto Pequot ci bloccò dopo tre gradini: “Che state
facendo, voi due?”
“Andiamo a
fare la doccia” rispose Floyd per entrambi, stupito. Io annuii.
“E perché
diavolo tu staresti salendo con lei, ragazzo? Il tuo bagno è qui dietro!” Floyd
la guardò perplesso, un po’ accigliato, come tentando di capire il problema:
“Ma noi pensavamo di farla insieme…”
“Beh,
pensavate male, che diamine!” anche io trovavo la questione piuttosto strana:
Maggie non era mai stata una puritana bacchettona, anche se era del New
England.
“Ma così
risparmiamo tempo e acqua calda!” esclamò Floyd, molto convincente. Io annuii
nuovamente.
“Nooossignori,
sono responsabile per voi, ragazzi, ci mancherebbe anche! Poche storie, lei di
sopra e tu di sotto!”
Gli occhi di
Floyd ebbero un guizzo malizioso, ci studiò su un istante, spalancò gli
occhioni in un’espressione ingenuamente stupita: “Oh! Beh…se lo dici tu,
ecco…io direi, si, perché no…si, si può fare…” stavo per scoppiare a ridere,
Maggie capì il doppio senso e strillò: “Screanzato!! Vergognati!” e prese a
rincorrerlo dandogli ramazzate sul fondoschiena, strillando a me di filare e
spingendo lui verso il bagno di sotto.
Ridevo da
sola mentre facevo la doccia. Uscendo dal bagno lo sentii che ancora cercava di
convincerla che il nostro era un responsabile tentativo di consumare meno acqua
e meno elettricità e che presto l’ecologia sarebbe diventata di primaria
importanza, rimbrottato dalla donna che insisteva nel dirgliene di tutti i
colori.
Ero
abbastanza sicura che Maggie non facesse sul serio.
Eravamo tutti
e due maggiorenni da un pezzo, che diamine! E in ogni caso, dubitavo molto che
i miei avrebbero disapprovato la relazione con quel ragazzo, soprattutto papà,
quindi doveva esserci soltanto un’esigenza, giusta o sbagliata che fosse, di
mantenere uno stato di correttezza, o qualcosa del genere.Forse riteneva fosse troppo
presto, ci conoscevamo da una settimana, in fondo.
Mi lasciai
cadere sul letto a riflettere: non potevo fare a meno di avere davanti agli
occhi l’immagine di lui che ascoltava, non visto, la conversazione delle
compagne di scuola. Era l’anno del diploma, doveva avere diciannove anni,
perché aveva perso un anno durante il processo e poi il trasferimento a
Seattle.
Immaginavo
che lui, all’epoca, un po’ perché tanto giovane, un po’ perché stordito da
tante attenzioni, si concedesse con più leggerezza di quanto sarebbe stato
saggio, ma i ragazzi sono giusti e fighi, soprattutto in certi
ambienti, proprio in base al numero delle ragazze conquistate.
Immaginai che
gli altri maschi della scuola lo guardassero con invidia, a quel punto.
Oppure no?
Forse lo deridevano perché si faceva sbattere da ragazze che poi
uscivano con loro, non considerandolo alla stregua di un essere umano?
Mentre
raccontava quell’episodio mi ero trovata, senza volere, ad immaginarlo con
quelle ragazze. Non volevo farlo, ma le immagini si formavano nella mia mente
mentre lui parlava e mi sembrava di sporcarlo con pensieri che non erano miei.
Non sapevo
come si fosse comportato con loro, all’epoca, ma sapevo come era ora.
Si concedeva
con il contagocce, lentamente,
profondamente immerso in ogni gesto nello stesso modo in cui compiva una
Cerimonia o una qualche preghiera.
Sembrava
percepire ogni cosa all’interno e all’esterno di se stesso con tutto il suo
essere, cinestesicamente, empaticamente, con ogni senso, come in una forma di atto
sacro di un’intensità indescrivibile.
Non che non
ci fosse passione, al contrario, ma, proprio perché il suo sentire era così
profondo, era una passione magica, una dolcezza intensa e mistica, al di là
dell’umano.
Di certo era
prezioso, di certo non si gettava in quel modo sulla prima venuta, nonostante
l’occhiata da marpione che mi aveva lanciato la sera della Cerimonia.
È tutta
scena, aveva detto Robert.
Sicuramente
era timido, ma dubitavo molto che la sua fosse timidezza: avevo sentito nel
tono della sua voce, nel raccontare, quanto ancora fosse ferito.
Floyd non era
capace di lasciarsi le cose alle spalle: era intenso, profondo, passionale, a
modo suo innocente, anche se riteneva che l’innocenza con cui guardava il mondo
si fosse sgretolata in un obitorio e in un'aula di tribunale, e un'altra volta
tra un armadietto e il bagno delle ragazze di una scuola.
Limpido e
allo stesso tempo misterioso, a volte cupo, inquietante, nel perdersi nella sua
Magia.
Istintivo. E
poi ironico, divertente, buffo, ragazzaccio impenitente, conscio della sua
avvenenza e del suo cervello, che prendeva con leggerezza, giocandoci. Era
tutto questo e ancora altro, ma non era capace, nonostante tutto, di lasciar
cadere le cose dolorose, i torti subiti, e andarsene per la sua strada. Come i
fendenti di coltello, i tagli di vetri di bottiglia, le ferite non ben
identificate, così le esperienze lasciavano su di lui segni indelebili che lo
accompagnavano lungo il cammino.
Magicamente
affascinante, era sicuramente una persona non facile con cui dividere la
propria vita, come tutto ciò che è prezioso: lo perdevi di vista un istante e
non c’era più, era da qualche parte, arrampicato sull’albero più alto a
guardare l’orizzonte, magari anche un po’ più in là, e non importava quanto potesse
piovere o nevicare o tirare vento, lui non poteva stare chiuso tra quattro mura
più di qualche ora. Scappava.
E, per quanto
non lo abbia fatto in quei giorni al cottage, sapevo che scappava e
semplicemente si dimenticava di tornare, la sera, magari perché era troppo
lontano da casa, o perché si accorgeva che le stelle erano meglio di un tetto,
per dormire.
Per vivere
con lui, avrei dovuto scappare con lui. Ogni giorno.
Ribelle,
diffidente, irriverente, matto come può esserlo qualcuno che vive in una dimensione
magica nella quale non valgono le logiche ordinarie e nemmeno le leggi della
fisica Newtoniana.
La sera
Maggie ci intimò di stare ognuno in camera sua. Salì per ultima, la sentii
aprire piano piano la porta di Floyd, poi la mia. Finsi di dormire.
La sentii
entrare in bagno, scorrere l’acqua calda, poi la fredda, pausa, di nuovo calda.
Uscì, tornò,
pasticciò ancora, andò nell’altro vano. Sciacquone. Spense la luce, chiuse la
porta della sua stanza, ci ripensò, tornò a controllare se Floyd fosse in
camera sua, finalmente richiuse la porta della camera alle proprie spalle.
Contai
fino a sessanta. Poi settanta. Arrivai a settantacinque e sentii un leggero
fruscio nel buio. Nessuna luce, a parte quella che filtrava dalla finestra, ma
mi parve che la porta si fosse aperta per un attimo.
Qualcosa
toccò le coperte e vi scivolò sotto, scoppiando a ridere con la faccia nel
cuscino. “Sssstt! Ha le orecchie lunghe!” sussurrai. “Ma c’è di mezzo il
bagno!” rispose, tirandosi le coperte sulla testa per soffocare il rumore.
Restò così
qualche secondo, poi decise che faceva caldo e le lanciò via. Non è che facesse
caldo, in Canada era già sceso un po’ di nevischio il giorno prima, ma lui era
così, pure le coperte lo facevano sentire prigioniero.
Eppure mi
abbracciava e mi teneva stretta.
Si
addormentava controllando che io fossi ben comoda nel suo abbraccio e se, nel
sonno, in qualche modo ci si allontanava, si svegliava in allarme e mi
riacchiappava, posando la testa su di me e sfregandomi addosso la faccia come
un cucciolo.
Non
sopportava catene, ma mi si incatenava.
Non mi
toglieva spazio, ma mi teneva stretta, se non con il corpo, con lo sguardo, con
il pensiero.
Se spariva su
qualche albero, sentivo la sua attenzione che mi seguiva, presente, costante.
Mi lasciava
interdetta, tutto questo.
Mi rendevo
conto che, per qualsiasi ragione ci fossimo incontrati, lui era speciale,
qualcosa che non volevo assolutamente perdere.
Eppure, nello
stesso pensarlo, lo perdevo.
Mi prese una
mano, baciò appena i polpastrelli, in quel modo profondamente assorto, che
provocava scariche elettriche fino ai piedi, scese con le labbra lungo le dita,
fino al palmo, sfiorò l’interno del polso con l’indice, lo risalì lentamente
con la punta della lingua, poi, tenendo la mia mano nella sua, se la posò sulla
tempia, perché gli accarezzassi i capelli e mi baciò a lungo.
“Corriamo il
rischio?” chiese malizioso più tardi: “E se se ne accorge e ci picchia?”
scrollò le spalle: “Corriamo il rischio.”
Mi svegliai
perché non sentivo il calore radiante dei suoi fianchi. Era l’alba e c’era una
fitta nebbia.
Lui era
appoggiato alla finestra, così, senza niente addosso, fissava la nebbia
incantato.
Aprì la
finestra e iniziò a giocare con la nebbia, passandoci le dita e vedendo cose
che io non ero in grado di vedere: “Sai che sei completamente nudo davanti ad
una finestra aperta?”
Spallucce:
“Non c’è nessuno e…” rise: “Se anche ci fosse qualcuno, lo sfiderei a vedermi…a
meno che fosse mio nonno. Mio nonno vede tutto.” Disse con una smorfia.
“Ma prendi
freddo, dai!” insistetti: era lì, bello caldo e da fuori si intrufolavano
sottili dita bianche di umido gelo.
“Ma dai, non
è freddo!” mi canzonò ridendo.
Ci raggiunse
un urlo: “EHI! Che state facendo voi due, eh?”
“Niente, Mag,
solo un paio di piccoli stregoni!” gridò lui di rimando.
“SCREANZATO!!!!”
Accostò la
finestra e si infilò sotto la coperta: “I tuoi stanno traslocando” disse
pensieroso: “Presto potrai tornare a Boston. Sembra tutto piuttosto tranquillo,
ora, ma dovrai presentarti in Commissariato e dare la tua versione. Maggie e
Jack hanno già fornito la loro testimonianza, ma penso dovranno tornare.”
“E tu?” Mi
guardò un po’ vergognoso: “Io non posso tornare a Boston. Non…” prese fiato:
“Non me lo posso permettere…finirei in un gran casino” non capivo.
Era molto
imbarazzato:“Perché? Non sei tu ad essere stato processato, non sei finito
dentro, in quel periodo!”
Rise: “Ci
sono finito dopo”
Non mi
importava che mi desse spiegazioni, ma si lasciò ricadere sul cuscino e prese a
raccontare: “All’inizio ero stupido, ed ero ragazzino. C’erano dei balordi che
avevano il vizio di prendermi a calci, semplicemente perché passavo, ma io ero
veloce e abituato sia a lavorare, che ai cavalli, così mi voltavo e afferravo
loro la gamba e la torcevo. Ho slogato parecchie caviglie, così, e finivo nei
guai. Ad un certo punto, colpevole o meno, rischiavo l’espulsione.
Imparai a non
avvicinarmi e ad ignorare le provocazioni, diventando sordo e cieco,
inghiottendo la rabbia.
Ma poi, un
giorno, ecco…ne ho mandati tre all’ospedale, uno c’è rimasto un mese. Due se la
sono cavata perché sono scappati”
“Da solo ne
hai stesi tre?”
“Beh…solo
perché gli altri sono scappati, però.”
Avevo la
netta sensazione che la faccenda avesse a che fare con quelle cicatrici.
Sbuffò: “È che…oh!”
“Non sei
obbligato a spiegarmi, se non vuoi” gli dissi.
E lui si fece
forza: “Non mi importava, o facevo finta che non mi importasse, se insultavano
me, perfino mio padre o la mia gente. Soffrivo, stringevo i denti, andavo
avanti, mi stava venendo l’ulcera, ma mi controllavo. Poi un giorno quelli se
la presero con Bianca. Lei aveva undici anni, a quel tempo, ma era già molto
graziosa.
La vedevano
quando la accompagnavo a scuola e a volte, al ritorno, lei passava ad
aspettarmi e tornavamo a casa assieme, così mamma era più tranquilla. Loro
erano dei balordi molto palestrati, avevano successo con le ragazze della loro
specie, mentre gli studenti in generale li sopportavano per non mettersi nei
guai e perché uno era figlio di un giudice, un tipo sospetto che si vociferava
avesse legami con la criminalità organizzata. E poi, un paio di anni prima, sul
pargolo c’era stata un’accusa di violenza sessuale, che paparino aveva
prontamente insabbiato.
Non
bisognerebbe mettersi contro gente così, vero? Bisognerebbe essere saggi e
pazienti, ma io non ero l’uno e avevo quasi esaurito l’altra perché, quando
vedevano Bianca, fischiavano e facevano commenti.
Ero
preoccupato, terrorizzato che potessero metterle le mani addosso, avevo i nervi
a fior di pelle e di sicuro la nostra storia di famiglia non aiutava.
Quel giorno
mi aspettavano, lungo un vialetto che portava a scuola, in cinque o sei, e
iniziarono a fare battute, dicendo che la puttanella indiana era quasi pronta
per l’uso. Inghiottii la rabbia, strinsi i pugni e continuai per la mia strada,
anche se mi si torceva lo stomaco.
Il figlio del
giudice, però, sapeva del processo e disse che avrebbero potuto farle fare la
fine dell’altra troia più grande, che a furia di farsi sbattere nei vicoli ci
aveva letteralmente lasciato lo scalpo.
Io non ci
vidi più.
Sentivo una
cosa, dentro, non so se fosse rabbia, dolore, paura, era semplicemente qualcosa
di troppo, troppo grande per poterti stare dentro, perché tu sei tutto lì e una
cosa così grande non può starci tutta dentro di te, è semplicemente troppo e
credo che sarei morto se non avessi gridato.
Gridai, e
quella cosa uscì.
Non ci vedevo
più, non ricordo niente, se non che li colpivo e più li colpivo, più lo avrei
fatto, perché non mi placavo, anzi, quella cosa sembrava uscire fuori, in
piena, senza controllo. Non sentivo nulla, non sentivo dolore, ma loro mi si
avventavano addosso e io colpivo, cadevano e io continuavo a colpire.
Poi qualcuno
mi fermò.
Ero stordito,
coperto di sangue che non sapevo se fosse mio o di altri. C’era un ragazzo
della squadra di football e il professore di Inglese, un pastore battista di
quasi due metri.
Non era
arrabbiato, mi teneva abbracciato e continuava a ripetermi: “Floyd, figliolo,
ma cosa mi combini?” e questo mi calmò.
Lo guardai, lo
riconobbi. Due di quelli erano scappati, uno era piuttosto pesto, ma abbastanza
lontano e continuava a gridare che ero un pazzo assassino, quello che era con
lui penso non avesse un graffio, ma gli altri tre erano a terra, lì davanti a
me, intorno decine di occhi ci guardavano sconvolti.
E io ero
maggiorenne da due giorni.
Passata
quella furia crollai tra le braccia del professore e dell’altro ragazzo, mi
portarono all’ospedale piantonato da due poliziotti grandi e grossi.
Il professore
venne in ospedale con me, cercò di farmi parlare, ma io non dicevo una parola.
I medici
riscontrarono su di me ferite profonde di varia natura che, per come erano
state inflitte, mostravano il chiaro intento di uccidermi e il fatto che
fossero in cinque contro uno deponeva a mio favore. Ovviamente solo per modo di
dire.
Il mio
testimone era uno stimato professore, ma disgraziatamente anche lui del colore
sbagliato, il ragazzo della squadra era arrivato nel momento in cui ormai gli
altri erano stesi e non poteva dire granché in mia difesa, solo che di solito
ero un tipo tranquillo che non cercava grane, mentre gli altri erano dei
balordi di professione.
Due giorni
dopo il ricovero, mentre ero con il professore, dissi soltanto: “Mia sorella
non era una troia e non si è mai sbattuta niente e nessuno!” lui capì.
Andò a
trovare le due vittime sfuggite miracolosamente alla mia furia e, con molto
garbo, disse che avrebbero fatto una fine peggiore dei loro amici, se non
avessero sputato tutta la verità. I due erano ancora sotto shock e vuotarono il
sacco.
Sai, in
quell’area la popolazione Nativa è numerosa, io avevo alcuni amici nelle
Riserve Snoqualmie, Suquamish e parecchi di loro avevano una moderata
confidenza con le patrie galere, perciò erano al corrente di tante voci che giravano
sul giudice, sull’adorato figlioletto e sulla storia della violenza insabbiata.
Nel giro di
un paio di giorni cominciarono ad arrivare telefonate anonime a polizia e
giornali che spifferavano sia quella faccenda che la connivenza tra il giudice
e la criminalità. Non so bene come andò, ma improvvisamente mi raddoppiarono la
guardia e, scoprii poi, fecero sparire dalla circolazione il figlio del
giudice.
Io ero stato
aggredito da ben cinque ragazzi armati di coltelli e bottiglie rotte, mentre
ero del tutto disarmato. Se fossi stato del colore giusto ne sarei uscito con
onore, invece mi diedero sei mesi di carcere e un anno di lavori socialmente
utili.”
“TU sei
rimasto sei mesi dentro? E sei vivo?” gli scappò da ridere: “Ti pare? No,
restai dentro, in isolamento, per sei settimane e mi meraviglio di non
esserne uscito in una bara. Forse stavo solo troppo male per reagire. Ero
ancora debilitato dalle ferite e dormivo molto, ma impazzivo là dentro: passavo
quasi tutto il tempo a guardare fuori dalla feritoia, ma non vedevo che il
cortile del carcere. Poi la pena venne commutata in solo lavoro coatto e una
cauzione da capogiro. L’avvocato aveva chiesto la legittima difesa, ma non era
stata accettata, perché ero stato io ad attaccare per primo.
Ero ancora ai
lavori forzati, l’anno dopo, quando iniziai con le sfilate e le nostre finanze
si risollevarono, ma…ma io non posso finire di nuovo nei guai.
La sera della
Cerimonia il mio nome non è venuto fuori, al mio posto come “quarto indiano”
dovrebbe presentarsi un ragazzo Mohawk incensurato, i testimoni non sarebbero
mai in grado di notare la differenza vestito e senza pitture in faccia, basta
uno di noi alto e abbastanza in forma. Ciononostante…” scrollò le spalle.
“…È meglio
che non ti faccia vedere in giro…d’accordo. Che farai?”
Restò un po’
a fissare la nebbia, pensieroso: “Beh, tornerò a casa…nel Montana.”
“Oh.”
“Ci sei mai
stata?” scossi la testa, avevo la gola chiusa: “Potresti venire a svernarci.
Sarebbe originale, no? Svernare al freddo…al caldo sono capaci tutti.”
“Svernare nel
Montana?” era un’idea folle: “Si, potrei aspettarti qui e partire prima che ci
sia troppa neve. Sai, c’è il Lago di Flatehad. È grande, per metà è territorio
nostro ed è bellissimo. Ti piacerà. E poi ti porto alla Riserva Blackfeet,
dall’altra nonna, ma ti avverto: ti accoglierà con il fucile spianato, ti farà
il terzo grado e poi pretenderà di insegnarti a sparare.”
Cominciai a
sognare, mentre mi abbracciava e mi raccontava della Riserva, della sua
famiglia, degli amici, dei cavalli, di Montagne e fiumi, e nel raccontare gli
brillavano gli occhi.
“E i miei
nipotini, sono così belli, sai? Uno ha appena iniziato a camminare, chissà
ora…avrà fatto progressi, loro fanno progressi ogni due minuti!” era così
felice.
Non parlò di
povertà, di alcol, di suicidi, di rapimenti. Era felice. E basta.
Mi raccontò
di un capanno che aveva lungo il Flathead River, piccolo, una stanza e un
piccolo sottotetto, un vano bagno in cui per fare la doccia bisognava buttarsi
addosso l’acqua da un secchio.
E c’erano i
cervi, là intorno, che si spingevano fino al capanno, scoiattoli, linci, un
sacco di altri animali. Anche orsi, effettivamente, ma non erano pericolosi,
bastava saperli prendere e non avevo dubbi che lui ne fosse capace.
Nessuno,
diceva, sarebbe arrivato a disturbarci. Immaginavo un inverno là, tra metri di
neve, in un capanno con lui, persi tra il fiume e i boschi e mi chiedevo se
avrei dovuto andarlo a recuperare in cima agli alberi all’ora di cena o se mi
avrebbe obbligata a buttarmi nel fiume gelato.
Non ero
sicura di meritare quel sogno.
Sentivo un
profondo legame con lui, ma allo stesso tempo lottavo con le immagini, le
sensazioni che arrivavano improvvise, appartenenti a qualcos’altro.
Le
allontanavo: Floyd era lì, era splendido, perfetto, era la persona migliore che
mai avrei potuto incontrare.
Era forte e
fragile, appassionato e dolce, aveva alle spalle grandi sofferenze,
ingiustizie, soprusi personali e verso il suo popolo, eppure rideva e mi faceva
ridere- Nessun altro, nella storia, ha patito quanto loro,
eppure hanno sempre voglia di scherzare. Io lo rendevo felice, facevo
brillare i suoi occhi, splendere il suo sorriso, battere forte il suo cuore.
Volevo tutto questo. Volevo vederlo sorridere ogni giorno della sua vita,
volevo condividere la sua Magia.
Volevo tutto
e lo volevo con prepotenza.
(...continua Pagina 2)
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