Accadde nella notte.
Ero nel deserto, anche là era notte. Stavo morendo e
ne ero cosciente. Gridavo al vento: “Io ti troverò! Ti troverò, non importa se
ci vorranno millenni, ti cercherò fino alla fine dei tempi!”
Mi svegliai di soprassalto, Floyd forse era già
sveglio. Mi chiese cosa stesse succedendo, mentii, gli dissi che avevo sognato
di precipitare in un burrone, che qualcuno mi dava la caccia e mi rannicchiai
contro di lui.
Sapevo che non mi credeva, ma non volevo dire la
verità, non volevo mettere quella cosa
tra me e lui. Mi abbracciò tenendomi forte, appoggiò la guancia sui miei
capelli, non disse nulla, ma stava soffrendo.
Scacciai il ricordo dell’incubo, sentendomi come se
una spada mi avesse spaccata in due con un taglio netto, dalla testa ai piedi:
stavo abbandonando il mio Faraone, lo stavo tradendo.
Mentivo all’uomo più meraviglioso del mondo e tradivo
colui che avevo cercato per tremila anni e che non c’era.
Sua Maestà era il sogno, il passato, remoto e doloroso
che volevo dimenticare. Volevo Floyd, a qualsiasi costo, per sempre.
Come formulai quel pensiero sentii qualcosa scivolare
via da dentro di me, mi sentii svuotata, un vuoto assoluto, inimmaginabile,
doloroso oltre qualsiasi sopportazione, mi sentii frantumata quanto nemmeno un
vetro in mille piccolissime schegge avrebbe potuto essere.
“No!” pensai nel panico.
Quello scorrere via si interruppe, il vuoto in parte
si colmò, mi sentii meno frantumata. Non integra, solo meno in pezzi.
Cosa stava succedendo? Forse dovevo soltanto avere il
coraggio di lasciarlo andare, di vivere senza quel qualcosa di indefinibile che
mi accompagnava da sempre. Lasciarlo andare…la cosa più sensata, logica,
giusta.
Lasciarlo andare, lasciarlo scivolare via, che non
esistesse più.
Lasciarlo andare.
Per sempre.
Mancava l’aria, ero terrorizzata.
Lascialo andare, chiudi.
Hai Floyd, è qui. È reale. È
perfetto.
Forse puoi costruire un’altra
volta un’unione come l’altra. Meglio dell’altra. Reale, almeno reale.
Sarai libera.
Dimenticatene, lui non esiste, è
un gioco della tua mente per tenere lontani rapporti imperfetti, cercare
un’utopia, è stupido, è malato rifugiarsi nel sogno per evitare rischi, si,
questo direbbe un bravo psicologo, uno sano, normale, non quel pazzoide cui ti
sei affidata per undici anni!
Dimenticatene. Freud avrebbe
molto da dire sulla tua malattia.
Sei stupida. Sei malata. È una
forma di schizofrenia.
Lascialo andare, lascialo nel
passato o in qualsiasi posto da cui provenga.
NO!
Non posso. Fa male, mi uccide.
Non posso. Fa male, mi uccide.
È solo un inganno della mente, lascialo andare.
“Is, cercami! Sono qui, come puoi
non vedermi, Is!”
Rannicchiata nelle braccia protettive di Floyd, lo
sentii cullarmi, senza una parola. Non mi chiese nulla. Non lo faceva mai, si
limitava ad esserci.
Mi svegliai sola.
Presa dal panico corsi alla finestra e lo vidi
arrampicarsi come uno scoiattolo su un albero con qualcosa in bocca,
probabilmente un panino.
Mi sbrigai a prepararmi e corsi giù: non sopportavo di
stargli lontano, avevo bisogno di vederlo, di sentirlo, di respirarlo.
Corsi verso l’albero e lo minacciai: “Ora scuoto,
voglio vedere se sei maturo!” lui rise, finì il panino, poi si calò giù da un
ramo all’altro e mi atterrò davanti.
Sorrideva, ma c’era qualcosa di diverso in quel
sorriso: i suoi occhi il giorno prima ridevano, ora sembravano coperti da un
velo.
Mi abbracciò, fece per baciarmi, si ricordò del
panino, ci ripensò, mi prese in braccio, fece un giro su se stesso e mi portò
in casa. Sparì a lavarsi i denti, tornò di corsa, chiuse Maggie nello stanzino
delle scope e a quel punto mi baciò come ne andasse della sua vita.
Maggie strillava, da là dentro, lui non si scompose
finché io mi scostai da lui quel tanto da guardarlo con rimprovero, allora aprì
la porta e schizzò via, inseguito dalla ramazza da lancio della nostra balia
Pequot.
Cancellai il sogno, lo accantonai: perché indugiare su
qualcosa di così terribile, quando la realtà era quanto di più stupendo si
possa immaginare? Non è forse il contrario, di solito?
“Voglio stare con te, voglio che tu sia felice, per
sempre” pensai.
Non so, però, se quella volta sentì i miei pensieri,
perché era inseguito da una donnina molto combattiva con una ramazza molto
affilata.
Più tardi decidemmo di andare ad una postazione per
fotonaturalisti e, anche se non avevamo macchine fotografiche, speravamo di
poter almeno vedere qualcosa.
Avevamo un piccolo zaino con solo qualche provvista,
una borraccia, una coperta e un paio di cerate, che Floyd non voleva portassimo
a turno, sostenendo fosse ridicolo.
Io ero un po’ imbronciata: non mi piaceva farmi
servire e far fare a lui il mulo, ma lui rideva delle mie rimostranze e mi
faceva quasi sempre camminare davanti a sé, come a volermi controllare, a parte
quei tratti in cui il sentiero spariva e bisognava cercarne le tracce, nel qual
caso passava davanti per un po’.
D’accordo, lui era la guida Salish, ma io avevo girato
il mondo da quando ero piccola e non solo nei musei! Sapevo destreggiarmi,
protestavo, i miei antenati erano popoli delle foreste e in me scorreva
l’atavico sangue dei Druidi.
Lui stringeva le labbra per non ridere, lasciando
ridere gli occhi.
Per via ci imbattemmo in una trappola da bracconieri.
Floyd la fece scattare, poi la smontò con cautela, controllando che intorno non
ce ne fossero altre e la infilò nello zaino per poi portarla alla stazione dei
forestali.
Osservavo le sue mani, nel lavorare a quelle molle e
fili, la loro bellezza, il modo in cui le muoveva, osservavo la sua espressione
attenta nel cercare intorno, concentrato, i capelli nero lucido che, umidi di
condensa, si arricciavano incorniciandogli il viso serio, lo osservavo voltarsi
e tornare a sorridere, i denti bianchissimi tra le labbra corpose dal disegno
nitido.
Osservavo il suo passo, il suo studiare l’ambiente
intorno, il suo spingermi delicatamente avanti, se esitavo, non convinta della
direzione (nonostante l’atavico sangue) e non riuscivo a credere che potesse
esistere.
Mi indicò un albero davanti a noi e vidi che portava
un minuscolo rifugio, come la casetta sull’albero che fanno i ragazzini in
giardino, solo un po’ più seria e con l’insegna dei rangers.
La nebbia si era alzata ed ora stava iniziando a cadere una pioggerellina sottile e fitta che aveva l’aria di voler durare tutto il giorno.
“Non so quanto riusciremo a vedere” considerò posando
lo zaino.
Studiammo i grossi posters che elencavano le varie
specie animali e vegetali presenti in quell’area, in un piccolo vano trovammo
notes e qualche matita, un cannocchiale, un paio di teli mimetici.
Chi passava, a volte, lasciava delle cose per chi
fosse venuto dopo.
Restammo seduti sul pavimento, le schiene appoggiate
alla parete, gli sguardi poco speranzosi verso il bosco che si faceva sempre
più evanescente e sfumato nella pioggia che infittiva.
Abbracciati. A parlare, a contemplare tra un bacio e
l’altro, ad ascoltarci.
“Impazzirai, oggi”
“Perché?”
“Scherzi? Qui dentro, in uno spazio di due metri per due, al chiuso, senza fare niente? Dev’essere peggio dell’isolamento, no?” lui mi sbirciò divertito: “Abbiamo cibo e acqua, possiamo sopravvivere per almeno due, tre giorni se razioniamo i viveri” scherzò. “Non siamo al chiuso, in fondo, solo al riparo. E non mi posso annoiare, qui con te, ma dovessi rimbambire a fissare la pioggia, tu mi sveglieresti, si?” lo guardai interrogativa: “Rimbambire?”
“Scherzi? Qui dentro, in uno spazio di due metri per due, al chiuso, senza fare niente? Dev’essere peggio dell’isolamento, no?” lui mi sbirciò divertito: “Abbiamo cibo e acqua, possiamo sopravvivere per almeno due, tre giorni se razioniamo i viveri” scherzò. “Non siamo al chiuso, in fondo, solo al riparo. E non mi posso annoiare, qui con te, ma dovessi rimbambire a fissare la pioggia, tu mi sveglieresti, si?” lo guardai interrogativa: “Rimbambire?”
“Si, è…oh, beh!”
“Dai!”
“È una specie di trans. Fissare il fuoco, o le gocce di pioggia a lungo, può portarti in uno stato di meditazione, quasi di trans. A me succedeva naturalmente quando ero molto piccolo, per cui si accorsero che avevo queste…queste cose. Doti. Capacità. Quella roba lì, insomma.
“È una specie di trans. Fissare il fuoco, o le gocce di pioggia a lungo, può portarti in uno stato di meditazione, quasi di trans. A me succedeva naturalmente quando ero molto piccolo, per cui si accorsero che avevo queste…queste cose. Doti. Capacità. Quella roba lì, insomma.
Mi lasciavano nella culla e magari pioveva e io
restavo con gli occhi sbarrati a fissare la pioggia, o la nebbia o il fuoco del
caminetto. L’effetto più forte me lo fece una candela davanti ad uno specchio,
ma ero già più grandino, avevo un paio di anni”
“Un vero matusa, eh?”
“Umpft! Beh…non avevo solo qualche mese, toh! Era
inverno, c’era poca luce e mamma non voleva accendere per non consumare elettricità,
perché la producevamo con un piccolo generatore che mio padre aveva costruito
dietro casa, ma il cielo era plumbeo, così accese qualche candela, una la mise
non lontano dal mio lettino, forse perché vedendola mi sentissi tranquillo. Non
si era accorta che si rifletteva nello specchio.
Tornò dopo oltre un’ora, perché le pareva strano
dormissi tanto più del solito, ma mi trovò seduto a fissare il fuoco. Mi
chiamò, mi scosse, io non reagivo, continuavo a fissare il fuoco e fare dei
gesti con la testa. Se mi spostava, spostavo lo sguardo per continuare a
tenerlo sulla fiamma, ma quella dentro lo specchio, non quella reale. Così
corse a chiamare mio nonno e lui mi fece tornare. Io non ricordo cosa vidi,
dove fossi stato, ed ero troppo piccolo per raccontare, ma lui capì che avevo
viaggiato in qualche altro luogo, dove avevo preso potere.” Concluse.
“Ora, quando mi succede, non è che veda qualcosa.
Rimango come incatenato alla pioggia, al silenzio, al fuoco, o alla nebbia. La
neve: la neve bisogna fissarla a pancia all’aria e perdersi nel turbinio.”
“E allora che succede?” scrollò le spalle: “Mah,
niente. Ti perdi. Diventi tutto. Senti tutto. Ogni cosa è in te e tu puoi
essere in ogni cosa. Senti. Ti sembra di sentire tutto il mondo in te e di
essere dentro le cose più piccole o più grandi. Non c’è distanza o
dimensione...Conosci. È così, niente altro.”
Lo diceva come fosse stata la cosa più banale del
mondo. Qualcuno, in giro per i millenni, l’aveva definito stato di
illuminazione o qualcosa del genere.
“Che succede quando torni alla normalità?”
Mi guardò accigliato, studiando attentamente le mie
parole: “Normal… sarebbe?” Scoppiai a ridere.
Con l’avanzare del giorno, la pioggia si faceva sempre
più fitta e battente, finché ebbi la sensazione che qualcosa entrasse da un
lato del tetto di legno. Non feci in tempo a voltarmi, che un paio di listelli
si staccarono aprendo una lunga fessura rettangolare da cui entrò una cascata
d’acqua.
Floyd scattò e, infilatosi nella finestra, si
arrampicò sopra la costruzione cercando di rimediare al danno: recuperò alcuni
listelli che si erano spostati, infilò sassi piatti come cunei per fermarli,
poi sacrificò la cerata fermandola agli angoli del tetto. Rientrò fradicio e
infreddolito circa mezz’ora dopo, scrollandosi come uno spinone.
“Oh, al diavolo!” esclamò contrariato.
Tolse maglioncino, maglia, jeans, che allargammo sul
pavimento di legno. Presi una vecchia coperta militare e, dopo averla
arrotolata, la passai diverse volte sugli abiti per assorbire più possibile il bagnato,
mentre Floyd si avvolgeva nell’altra.
Dopo un po’, ormai asciutto, allargò la coperta
attorno a sé e rimase appoggiato alla parete alle sue spalle, tenendomi
abbracciata e io presi ad accarezzarlo dal viso, il collo, lungo le spalle,
lungo il fianco. Lui teneva gli occhi chiusi, respirava lentamente, assaporando
le sensazioni. Scesi lungo l’anca seguendo le linee della muscolatura sulle
gambe, circondai con le dita la forma del ginocchio e ancora lungo il
polpaccio, soffermandomi sulla caviglia e accarezzando ancora il dorso del
piede. Aveva piccoli scatti involontari, il respiro più profondo.
Pur non riuscendo a percepire i suoi pensieri, mi
accorsi che provava sensazioni intense, che quel piacere era quasi doloroso.
Gli era nuovo, come nessuno, o meglio, nessuna, si fosse mai curata delle sue
gambe e dei suoi piedi, come non fossero che periferia senza importanza.
Soffocai i ricordi delle sue confidenze, allontanai la
sensazione amara di tutto quello che non aveva detto.
Appoggiata a lui non parlai, non ce n’era bisogno.
Sapevo che bastava che chiudessi gli occhi e lasciassi
libero il pensiero, perché lui lo sentisse.
Solo nel pomeriggio smise di piovere, così decidemmo
di rientrare.
Nonostante fossero passate alcune ore, i suoi abiti
erano ancora sgradevolmente umidi, ma gli toccò indossarli con una smorfia.
Floyd voleva passare dai rangers per le trappole e per
il tetto, così ci toccò allungare parecchio la strada.
Trovammo un uomo corpulento, dall’aria bonaria, corti
capelli neri drittissimi, occhi scuri in un viso piuttosto largo che denunciava
chiaramente le sue origini.
Ci osservò pensieroso mentre Floyd gli spiegava delle
trappole e del disastro occorso alla postazione: lo studiava attentamente, come
cercando di farsi venire in mente qualcosa che continuava a sfuggirgli.
Si fece indicare il posto in cui avevamo trovato le
trappole su una cartina, si sorprese di come quel ragazzo fosse stato abile a
riparare il tetto con mezzi di fortuna, poi, come era prevedibile, gli chiese
un documento. Avevo il cuore nelle orecchie, ma lui era sereno: non correva
pericoli, finché non chiedevano un documento a me e non lo fecero.
Il ranger mi aveva osservata diverse volte, ma forse solo perché ero là con quel tipo in gamba e io non lo sembravo altrettanto.
Prese il documento, un foglio per il verbale e
osservò: “Dunque…Floyd Archangel…” vidi una ruga formarsi tra le sopracciglia,
prima che la sua faccia paffuta si illuminasse: “Massì!!! Ecco chi sei! Non ti
riconoscevo senza capelli!” d’accordo, a qualsiasi cosa si riferisse, non era
il casino di Boston. Mi rilassai: “Tu sei quel
ragazzo!” Floyd lo guardava smarrito.
“Non ti ricordi di me, vero?” chiese alzandosi in
piedi, un sorriso da orecchio ad orecchio: “Io ti ho piantonato venti giorni in
ospedale, sei anni fa! Tu sei il genio che ha steso quei tre st*** a Seattle,
ci hai quasi lasciato le penne!”
Vidi Floyd arrossire, incerto: “Ah, ecco, ehmm…”
“Già!” continuò l’uomo: “Allora ero in polizia, tu eri
malconcio, all’inizio eri quasi sempre sedato, e io, beh, pesavo qualche chilo
di meno. Non puoi ricordarti di me, ma noi agenti, quelli Nativi almeno, ti
consideravamo un eroe, altro che!” si voltò a guardarmi: “Un vero bisonte! Da
solo, disarmato, contro cinque, cinque bastardi più grandi di lui e armati di
coltelli, bottiglie rotte e cattiveria
da vendere! Ci ha rimesso un pezzo di fegato, ma quelli hanno avuto quel che si
meritavano, soprattutto quel verme del figlio del giudice, eh?”
Floyd non sapeva cosa dire: il ranger era entusiasta,
lo trattava come un eroe per quella storia di cui lui si vergognava: “Io…beh,
si, ho perso la testa, ma…insomma, loro avevano importunato mia sorella e…”
L’uomo gli diede una pacca sulla spalla: “Lascia
perdere, sapevamo tutti la storia! I nostri superiori ti consideravano un
soggetto pericoloso, ma noi ci preoccupavamo per te, invece. Sei stato un
grande, ragazzo! Ma che è successo, dopo? Avevi i capelli fin sotto le natiche,
a quel tempo! Andavi a scuola, no?”
Floyd gli spiegò brevemente cosa fosse successo l’anno
seguente, le sfilate, poi il diploma, la laurea e ora il master. L’uomo
ascoltava in estasi, con gli occhi brillanti: “Bravo, bravo ragazzo, un vero
esempio da seguire! E quell’altro, invece…ha fatto la fine che si meritava!”
disse grave.
Lo guardammo senza capire. Il ranger ci osservò
stupito: “Non lo sai?” Floyd scosse la testa.
“Due anni fa…certo, tu non eri più a Seattle, ma ne
parlarono i giornali. Il figlio del giudice ci è rimasto secco durante un
inseguimento. È finito con la sua porche a muso in giù nello stretto sulla
strada per Everett. Gli hanno trovato parecchi chili di droga, in macchina. Un
bel po’ l’hanno recuperata, ma per diversi giorni i pesci sono saltati da soli
direttamente nelle padelle dei locali, senza bisogno di pescarli! Tu, invece! Yale!
E ora che farai?”
Floyd fu turbato da quella notizia, che gli riportava
alla mente quel momento buio della sua vita. Si riprese, spiegò di essersi
iscritto ad un altro corso di studi, sempre a casa, all’SKC, ma il suo umore
era cambiato.
Il ranger, ancora affascinato dall’incontro con il suo
eroe, si voltò verso di me, studiandomi: “Sei la sua fidanzata?” Io deglutii,
imbarazzata, Floyd si illuminò di un sorriso smagliante e mi avvolse le spalle
con un braccio. “Bella coppia.” Mi studiò un po’, soppesandomi pensieroso:
“Comanche?” Floyd si voltò verso la finestra, le labbra strette a trattenere il
riso, io spalancai gli occhi, lo guardai innocente: “Solo un pochino…”
L’altro annuì, fiero di sé: “Lo dicevo! Non sbaglio
mai ad identificare una Nazione!”
Poco dopo ci diede un passaggio fino a casa: avevamo
allungato parecchio il tragitto ed era ormai l’imbrunire. Maggie ci accolse
preoccupata: aveva diluviato tutto il giorno e noi sembravamo svaniti nel
nulla, ora tornavamo in un’auto dei rangers e dalla direzione opposta a quella
verso cui ci eravamo diretti e lei era preoccupata come una chioccia.
Spiegammo rapidamente cosa fosse successo, Floyd
tagliò corto perché voleva salire subito a togliersi di dosso quella roba.
Corse nella sua stanza salendo i gradini tre a tre, io mi fermai a raccontare
qualche dettaglio in più, poi salii a farmi la doccia.
E lui si infilò nel bagno con me, strizzandomi
l’occhio. Passarono un paio di minuti e la voce di Maggie tuonò fuori dalla
porta: “Floyd Archangel Twobears! Lo so che sei lì dentro!” lui mi guardò con
gli occhioni sgranati, deglutì e si fece più piccolo che poteva.
“FLOYD!!” tuonò la voce da sergente: “Avanti, sei lì?”
“NO!” gridò lui di rimando.
“ESCI IMMEDIATAMENTE! È UN ORDINE!”
E lui schizzò fuori, così com’era, bagnato, insaponato
e come mamma lo aveva fatto. Spalancò la porta del bagno e mi raggiunse lo
strillo di Maggie: “Hhiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiikkkk!!!!!! SCREANZATO!!!”
Lui rientrò a volo, si infilò mezzo scivolando sotto
la doccia ridendo come un matto. Immagino che l’espressione basita con cui lo
guardavo non fosse proprio d’aiuto, perché non solo non smetteva di ridere, ma
stava raggiungendo di nuovo un pericoloso livello preconvulsivo.
“Ma sei impazzito?”
“Ho…ho solo vaaddo guello ghe…dii…ceva” e giù a
ridere.
“Ma non potevi almeno metterti un asciugamano in
vita?”
“E berghé? Mi conosc…sce da guanno sono na ahahahto,
mi ha pure cambiato i pannolini!”
Gli posai le mani sulle spalle, guardandolo molto
intensamente negli occhioni lacrimanti: “Floyd…vedi, non so come dirtelo senza
urtare la tua sensibilità, ma…sono passati circa ventitré anni dal tuo ultimo
pannolino”
Lui sedette a terra, sotto il getto d’acqua calda,
continuando a tenersi la pancia in mano: “Beh, che differenza c’è? Sono solo cresciuto
un po’!”
Sembrava che il malumore gli fosse passato, in quel
momento, e avesse del tutto dimenticato la chiacchierata con il ranger, ma,
come era prevedibile, così non era.
L’uomo ci aveva detto che un altro dei suoi aggressori
era finito in grossi guai per frode fiscale, mentre non sapeva nulla degli
altri tre.
Loro non avevano fatto un giorno di galera, Floyd era
stato piantonato per quasi un mese in un ospedale civile, due settimane
nell’ospedale del carcere e sei in una cella di isolamento prima di riuscire ad
ottenere il cambio di pena e la scarcerazione sotto cauzione astronomica.
Avevo indagato con Maggie, che mi aveva confermato
l’amputazione di un quarto di fegato a causa delle lacerazioni.
Il coltello che lo aveva colpito era di quelli da
caccia, con la doppia lama seghettata e, per evitare che penetrasse
profondamente, pur nella furia che lo aveva reso praticamente insensibile,
Floyd era riuscito a scansarsi e deviare il braccio dell’aggressore, ma il
coltello si era prima girato dentro il suo fianco e poi era uscito in
diagonale, lacerandogli malamente le carni.
Lui non faceva cenno alle proprie ferite quando a
fatica si apriva nel raccontare, come non contassero. Parlava di come avesse
perso il controllo, di come si sentisse spaventato dalle sue stesse azioni, del
male inflitto. Non di quello che avevano inflitto a lui.
Lui furioso, terrorizzato che potesse essere fatto del
male a sua sorella, solo, disarmato.
Loro malvagi, crudeli, gelidi, determinati ed armati.
Loro sapevano che continuando a provocarlo con le minacce alla piccola Bianca,
sarebbero riusciti prima o poi a fargli perdere il controllo, e quello era
esattamente ciò a cui miravano.
Ora, sei anni dopo, di tre di loro non si avevano
notizie, uno, se non era in galera, sicuramente si trovava in guai grossi,
l’altro era finito in mare con tutta la sua auto di lusso e chili di droga,
mentre Floyd non solo si laureava a pieni voti, ma si guadagnava anche la borsa
di studio per un master in una delle più prestigiose Università al mondo.
Maggie non gli rivolse la parola tutta la sera, ancora offesa, rifiutò più volte di mettergli il cibo nel piatto (mentre lo metteva a tutti noi), di passargli pane, sale, olio o quanto potesse servirgli, attenta a tenere tutte queste cose all’altro capo del tavolo e, dopo cena, preparò la tisana soltanto per tre.
Il vecchio Jack si divertiva un mondo a quel teatrino,
io facevo da cuscinetto, un po’ vergognosa in quanto sua complice, ma la mia
punizione si limitò ad occhiatacce e labbra strette di disapprovazione.
All’ora di andare a dormire Floyd si infilò
silenziosamente nella sua camera con un bacino della buonanotte più casto di
quello di un novizio alle Meteore.
Durò fin verso l’una di notte.
Poi la porta si aprì senza rumore e qualcosa sgattaiolò
dentro, scivolò sul pavimento e si infilò sotto le mie coperte. “Scusami, sai,
oggi ho preso un sacco di umidità. Avevo freddo”
“Ma per forza, potevi metterti una coperta, no?”
sentii la perplessità nel buio: “Eh?”
Ridacchiai: “Ami vivere pericolosamente, eh? Stasera
hai dovuto rubacchiare il cibo dalla pentola, domani ti lascerà senza
colazione, senza pranzo, senza tutto.”
Sbuffò. Mi abbracciò come fossi stata un cuscino e si
sistemò per bene. Due minuti dopo fece volare via una coperta.
Perché, ovviamente, LUI, ora, aveva caldo.
Pioveva ancora quando venne in mattino. Poco, ma in
quel modo insistente che promette di non mollare per almeno i prossimi quattro
o cinque giorni.
Non c’era granché da fare e, quando mi svegliai, la
casa era ancora immersa nel silenzio: “Maggie è molto silenziosa, oggi”
commentai: “Non si è ancora alzata. Forse dovrei tornare di là, ma non credo
andrà a controllare dove sono: mi tiene il muso, quindi farà finta di
niente.” Gli scappò da ridere, un riso appena accennato, malizioso e birbante.
“Sei un mostro, lo sai?” il sorriso si
allargò di più.
“È stato buffo!” sogghignò. “E comunque, lei è troppo
bianca! Si comporta troppo come le signore per benino del New England, va
rieducata!”
Poi tornò serio. Fissava la pioggia come ipnotizzato:
“Devo svegliarti?” domandai dopo un po’. Lui si riscosse, un po’ imbarazzato:
“No, io…pensavo.”
Capivo che aveva delle cose da buttare fuori, ma, come
spesso accadeva, faticava a trovare una via per farlo.
Un giorno lontanissimo, un paio di settimane prima,
Robert mi aveva raccontato come fosse di carattere profondamente chiuso e
riservato, nonostante amasse scherzare, fosse divertente e giocherellone.
Mi aveva raccontato di come fosse rimasto sconvolto
dalla morte violenta della sorella, ma non avesse mai versato una sola lacrima,
tanto che la piccola Bianca, una volta, gli era saltata addosso picchiandolo e
gridandogli di tornare, perché da settimane era chiuso in un mutismo assente,
lontano da tutto e da tutti, in una disperazione cui non riusciva a dare alcuno
sfogo.
Me lo raccontava mentre Floyd faceva la spola tra la
soffitta e la cantina, a Boston, durante quel suo correre su e giù ossessivo in
cui scaricava la sua claustrofobia.
“Sai qual è la cosa peggiore che puoi fare ad un
Inuit?” Avevo riflettuto per un po’, frugando nella memoria: “Imprigionarlo in
un posto chiuso e senza finestre”
Robert aveva annuito: “Esatto. Per quanto questo sia
macroscopico in quella Nazione, non è soltanto una loro caratteristica. Molti
di noi soffrono la stessa sindrome.
In modo più moderato, soprattutto oggi che siamo
abituati ad ore di scuola, uffici, là seduti come imbecilli davanti al nulla,
ci abituiamo, per forza, ma la sindrome da separazione dalla Terra rimane.
Abbiamo bisogno di aria, di cielo e In lui è piuttosto accentuata, come vedi!”
Oltre allo stare rinchiuso, soffriva l’inattività: come spesso succede alle menti troppo grandi, tendeva all’iperattività e quel forzato stato di inerzia lo mandava in crisi. Soltanto dopo, in quei giorni al collage, avevo scoperto che era in grado di restare immobile per un tempo interminabile, sospendendo quasi ogni funzione vitale, rallentando il respiro, il battito delle ciglia, in attesa di un pesce o un qualsiasi animale o semplicemente a fissare la nebbia o la pioggia: sembrava davvero restare sospeso in un punto d’incontro tra i mondi, assente e presente contemporaneamente in una sua multidimensionalità.
“Che cosa ti turba, ragazzo del Montana? Il ranger era
entusiasta, invece di un prigioniero da tenere d’occhio, ti considera un eroe.
Dovresti esserne fiero, no?”
Lui ci rifletté per un po’, cercando di trovare voce
ai pensieri: “Io ero un ragazzo difficile. Io ero quello povero, emarginato,
con le mani screpolate e i calli, che studiava seduto in cima a muri di edifici
ancora a metà, con le gambe penzoloni nel vuoto e pane fritto in mezzo ai
denti. A volte mi facevo la doccia nella palestra della scuola per non
consumare acqua calda a casa e lasciarla alla mamma e a Bianca.
Loro avevano tutto: auto lussuose, abiti, scarpe
sempre lucide, orologi diversi per ogni giorno della settimana o quasi…loro
potevano fare qualsiasi cosa, arrivare ovunque senza fatica. Eppure tutto ciò
cui aspiravano era dominare gli altri con la prepotenza, giocare con lo sfigato
di turno come con un pupazzetto del luna park.
Io sono finito in sala operatoria tutto tagliuzzato e
dopo venti giorni mi hanno trasferito nell’ospedale del carcere e poi di nuovo
in isolamento in una cella appena più grande di me. Furono i miei legali a
spingere per l’isolamento per proteggermi e perché fossi lasciato riposare,
perché ero convalescente.
In quelle settimane ho studiato a memoria la Divina
Commedia, l’unico libro che mi avessero portato, dicendomi che era in tre
volumi e che ne avrei avuto per un po’, per tenermi occupato.
Mi sembrava un testo assurdo, privo di ogni logica,
modellato su un universo che mi era ignoto, che diceva che sarei finito
all’inferno perché non credevo nel dio degli invasori.
E poiché avevo fatto in modo di annullare un battesimo
che mi era stato imposto, probabilmente mi aspettavano pene inimmaginabili
perfino per il tizio che aveva scritto tutta quella roba.
All’inizio lo lanciai contro il muro, poi imparai a
trovarlo divertente, poi mi resi conto di quanto i bianchi fossero soffocati e
limitati da quel sistema assurdo di credenze e feci in modo di imparare il più
possibile. Dormivo, leggevo e assorbivo informazioni, oppure guardavo da quella
piccola finestra, piegato in due dal dolore di stare là dentro. Mi mancava
l’aria, ma dovevo resistere. Io non avevo bisogno di morire per conoscere
l’inferno…avrei avuto qualcosa da insegnare, a quel Dante!
Poi sono uscito, grazie a quella cauzione per cui
praticamente i membri di tutte le tribù
dello stato di Washington avevano fatto una colletta, anche se non mi
conoscevano.
Mi sentii amato. Sono uscito e sono andato avanti, per
me e per onorare tutti coloro che mi abbracciavano senza conoscermi. Ho
avuto molta fortuna e molta benedizione.
Se non avessi avuto un aspetto che alcuni considerano
interessante, presumo sarei stato soltanto uno studente lavoratore e che le
cose sarebbero state molto più difficili, ma sarei andato avanti lo stesso:
eravamo abituati alle difficoltà, molto più che ai colpi di fortuna e io avevo
un debito di gratitudine.
Oggi mi trovo in tasca una laurea, un master, sto per
iniziare un nuovo corso di studi e ho sistemato i miei genitori, i miei
fratelli, ho due nipotini, penso di avere tutto o quasi quello che si può
desiderare, almeno secondo i miei canoni.
Loro non dovevano che tendere la mano e prendere ciò
che volevano. E quello che sono riusciti a fare è stato questo. Non hanno
imparato niente. Non so, pensavo che quelle esperienze potessero avere avuto su
di loro un peso, invece, a quanto pare hanno, continuato in quella direzione,
come il figlio del giudice ha continuato a correre lungo la strada fino a
raddrizzare una curva e finire in mare. Non si sono posti domande? Non si sono
guardati attorno? O forse, poiché in galera ci sono finito io, hanno pensato di
essere padroni del mondo, di avere ragione, di poter fare tutto ciò che
volevano? Cos’è successo, Mary? Perché non hanno cambiato strada?”
Mi fece molta tenerezza: migliaia di anni prima, avevo incontrato un altro che sapeva provare compassione perfino per chi attentava alla sua vita.
“Perché loro erano così. Perché tu sei una grande
anima e loro persone meschine, grette e vuote, solo ricche di denaro e basta.
Il mondo è zeppo di gente del genere. E poi è pieno di falsi onesti, che si
comportano bene solo per timore di essere beccati o di finire all’inferno.”
Mi sentivo dilaniata: lo adoravo, eppure una parte di me si sentiva trascinare via da lui.
Lo guardavo
negli occhi e non lo riconoscevo. Erano occhi stupendi, dolci, profondi,
magici, ma non erano i suoi, per quanto tentassi di barare.
Lui stesso sosteneva di non essere la persona che
cercavo. Non sentivo di essere arrivata alla fine della mia ricerca, sentivo
invece che, se fossi rimasta con lui, avrei perduto qualcos’altro per sempre. E
io non volevo perderlo. L’idea di perdere Floyd mi uccideva, l’idea di perdere
quell’altro essere era semplicemente insostenibile. Era come essere legati a
due cavalli in corsa in direzioni opposte; semplicemente non avrei potuto
sopravvivere.
*******************************
Passarono alcuni giorni. Il tempo era
diventato definitivamente autunnale e nebbioso, ma un paio di volte andammo
ugualmente al lago a scivolare sulle acque incantate in cui si specchiava la
nebbia.
Con Floyd ridevo spesso, giocavamo come
ragazzini attorno al cottage, ci nascondevamo, ci facevamo scherzi e ne
facevamo un sacco a Maggie, povera donna!
Chi ci avesse visti avrebbe pensato ad una
meravigliosa coppietta di innamorati e questa era sicuramente la verità, solo
non era tutta la verità: la ferita
che portavo dentro di me, che tentavo disperatamente di ignorare, sanguinava
ogni giorno di più.
Lui lo leggeva nei miei occhi, sono certa che
sentisse il mio dolore nel suo corpo.
Io ne ero dilaniata, lui distrutto e
impotente.
All’epoca ritenevo che, con un po’ di sforzo,
certamente sarei riuscita a stare meglio e, un po’ alla volta, quel senso di
frammentazione si sarebbe attenuato.
Floyd parlava di vita insieme, di bambini, di
futuro, era pronto a mettere in discussione tutto e cambiare se stesso per me e
io avrei dovuto essere la donna più felice del mondo, eppure sentivo quel
richiamo disperato dentro di me e tante volte non ero in grado di nascondere il
mio malessere.
Un anno e mezzo prima avevo smesso le
regressioni in un momento della vita di Iset e del Faraone pieno di rivelazioni
che avevano del fantascientifico, ma non sapevo cosa fosse successo dopo, se
non quei frammenti zoppicanti che si manifestavano nei miei incubi o la
raffazzonata versione ufficiale dei libri di testo e non volevo tornare a
cercare, non volevo tornare in regressione perché sapevo che avrei dovuto
affrontare cose terribili. “Hanno ucciso la sua anima!” avevo gridato piangendo
vent’anni prima. No, non volevo riprendere quel sentiero, mai più.
Una mattina discesi e trovai Floyd al
telefono.
Maggie se ne stava in disparte, lavando i
piatti della colazione di poco prima con le labbra strette.
Non capivo cosa stesse succedendo, perché
Floyd parlava in lingua Salish, ma aveva gli occhi lucidi e il viso devastato
dal dolore.
Già al risveglio lo avevo trovato a fissare
oltre la finestra con lo sguardo immobile e una ruga tra le sopracciglia, ma
non aveva dato spiegazioni.
Mi aveva sorriso, mi aveva abbracciata ed era
rimasto un bel po’ ad accarezzarmi con il viso appoggiato ai miei capelli.
Terminò la chiamata e uscì, senza una parola,
né uno sguardo.
Era il nove di ottobre.
Guardai Maggie interrogativa, non osando
seguirlo o fare domande.
Lei sedette e io presi il posto di fronte a
lei: “Oggi è…sarebbe il compleanno di sua sorella” esordì Maggie.
Deglutii. “Sua madre è così triste, in questi
giorni. Lo è nell’anniversario della sua morte, e ancora di più in quello della
sua nascita. Sono passati tredici anni, ma non riesce a superarlo, immagino non
lo farà mai. Nemmeno Floyd. Sai, era in simbiosi con la sorella maggiore.” .
Alzai gli occhi oltre la finestra: lui era
seduto su una roccia, nella nebbiolina fredda di quei giorni, con solo un
maglioncino leggero, incurante di ciò che lo circondava.
“Vedi, sua sorella era una gran bella
ragazza, molto matura e riflessiva.
Alla nascita di Bianca, inattesa, era
diventata una mamma supplente per i fratellini. Il maggiore aveva appena undici
mesi meno di lei, e le era molto simile nel carattere: dolce, riflessivo e
diligente, studiava e aiutava il papà nel lavoro, mentre lei si curava dei
fratellini e, se Bianca era ancora molto piccola, Floyd era abbastanza grande
da sviluppare con la sorella un legame viscerale, perfino più che con la madre.
Avevano dei loro codici, una sorta di linguaggio
cifrato fatto di gesti, di sguardi, di comportamenti, per cui si capivano al
volo. Dove Floyd era ermetico per tutti, era limpido e chiaro per la sorella.
Fino a quel giorno.
Era terminato l’anno scolastico e lei e la
sua migliore amica, Annie, lo avevano superato brillantemente, così, per
premio, i genitori prestarono ad Annie la loro auto di sesta mano e permisero
alle due ragazze di fare una gita da sole, regalando loro perfino un po’ dei
loro pochi risparmi perché potessero comprarsi quello che volevano: avevano
sedici anni, erano ormai signorine e se lo meritavano. Dovevano stare via una
settimana, dieci giorni al massimo, in una specie di iniziazione alla vita
adulta.
Loro partirono felici per la loro avventura,
sole per la prima volta. Si sentivano davvero grandi.
Hope aveva dei capelli stupendi, che tutti le
invidiavano: un castano caldo, dai riflessi brillanti quando il sole li
attraversava, lunghi fino ai polpacci. Quando passava, con quella treccia
spessa da riempire una mano che le arrivava dietro le ginocchia, la gente si
voltava a guardarla incantata…o invidiosa. A volte le ragazze la fermavano per
strada per farsi dare consigli su come avere capelli almeno lontanamente simili
ai suoi. Lei si schermiva, un po’ vergognosa, perché non è che facesse chissà
cosa, era un dono, capisci, ma cercava comunque di rispondere come poteva.
Fu proprio la sua splendida treccia la sua
rovina.
Quel giorno lei e l’amica si fermarono nei
pressi di un grande centro commerciale, ma il parcheggio era pieno e i pochi
posti liberi erano al sole a picco, così cercarono un posto all’ombra, dove
quell’auto vecchia di mezzo secolo non diventasse un forno.
Un uomo indicò loro il vicolo dietro il
centro commerciale, raccomandandosi di fare attenzione, perché era una via di
magazzini, un posto dove potevano fare brutti incontri, ma erano le due del
pomeriggio, c’era il sole, le ragazze erano tranquille: non poteva succedere
niente, pensavano. E poi, chi poteva avere mire criminali su una macchina che
stava insieme con lo spago?
Non avevano notato che quei perdigiorno le
stavano seguendo, soprattutto attratti da quella treccia spettacolare e dalla
grazia delle due ragazze.
Parcheggiarono e si avviarono verso il
piazzale, ma i tre…quattro, c’era un altro ragazzo al principio, iniziarono ad
infastidirle.
Loro camminarono più in fretta, poi, quando
uno cercò di mettere le mani addosso ad Annie, lei gli diede uno spintone,
afferrò la mano di Hope corsero via, ma uno riuscì ad afferrare la treccia di
Hope e la strattonò facendola cadere. Annie corse via e, inseguita dal quarto
tizio, gettò a terra un grosso bidone alle proprie spalle per bloccare ai
balordi la strada, ma questi, invece di trovarsi in difficoltà, ne
approfittarono per rovesciare gli altri bloccando del tutto il passaggio, poi
presero a molestare la prigioniera.
Hope, però, era una giovane donna Salish
Kootenai! Iniziò a gridare come un’aquila, a tirare calci, mordere e graffiare
come una belva, così, per “farla stare buona” uno le infilò il coltello nello
stomaco. Era colpa sua, lei li stava assalendo, sai, loro volevano solo
scherzare…la gente intanto cominciava ad accorrere, trovando i bidoni
rovesciati ad intralciare la strada, alcuni presero a spostarli, altri corsero
all’altro capo del vicolo, ma i tre, in quel breve lasso di tempo, trovarono
divertente usare il coltello per scotennarla completamente. Da viva,
naturalmente.
Poi saltarono sulle moto e scapparono facendo
roteare la treccia sanguinante come un trofeo.
Durarono pochi attimi, la folla era così
sconvolta da quella barbarie che non ci pensò due volte a circondarli e
bloccarli. Rischiarono il linciaggio, quel giorno, e sarebbero finiti peggio se
le due vittime non fossero state Native.
Hope morì parecchie ore dopo, in ospedale.
Erano arrivati i genitori e i due ragazzi, medici e parenti non volevano che
Floyd la vedesse, ma lui scappò dalle loro mani per andare da sua sorella. Le
rimase vicino per molte ore, anche dopo che se ne fu andata, finché suo padre
lo portò via di peso.
Al processo i tre si difesero dicendo che
loro non volevano ucciderla, ma che lei li aveva aggrediti a calci morsi e
pugni, la difesa presentò fotografie dettagliate dei lividi e dei segni dei
morsi e dei graffi. Per fortuna nessuno nella giuria fu così stupido da provare
un minimo di pietà, anzi, le scuse accampate rendevano la faccenda ancora più
vergognosa…durante l’interrogatorio l’avvocato domandò perché, se avevano agito
d’impulso per difendersi, avessero compiuto un gesto così orribile come
l’amputazione del cuoio capelluto della giovane e loro risposero che non
pensavano fosse grave: in fondo era solo un’indiana
e loro lo facevano.
Solo quello che era corso dietro ad Annie e
poi non aveva preso parte all’assassinio di Hope, rimase zitto.
Alla fine del processo il giudice ricordò che
l’uso di scotennare i nemici uccisi e sottolineò uccisi, venne introdotta dai
francesi in guerra con gli inglesi, che volevano una striscia di cuoio
capelluto di ogni nemico così da sapere quanti ne fossero stati effettivamente
abbattuti e che gli inglesi, a loro volta, introdussero la stessa pratica nei
confronti dei francesi.
Gli Indigeni diedero poi attributi religiosi
e di valore ad una pratica sistematicamente usata dalle popolazioni
eurasiatiche fin dall’antichità, già citata da Erodoto. Dubito che quelli
avessero mai sentito nominare Erodoto, naturalmente.
Si presero trent’anni a testa.
Il quarto prese dodici anni, ma uscì per
buona condotta sette anni dopo. Dal carcere mandò diverse lettere alla famiglia
di Floyd, chiedendo perdono, finché, una volta fuori, chiese di incontrarli, ma
i genitori risposero che non se la sentivano. Non era cattiveria, soltanto non
se la sentivano.
Il fratello di Floyd, invece, tempo dopo lo
incontrò fuori da Flathead, da solo. Floyd in quel periodo non poteva
allontanarsi da Seattle, ma io non credo sarebbe andato.
Oggi quel ragazzo si occupa di bambini
disabili e di famiglie disagiate o orfani, soprattutto Nativi. Per questo Floyd
è rimasto così colpito dal racconto del ranger, l’altro giorno: probabilmente
pensava che fosse successo qualcosa di simile anche ai suoi assalitori, che ci
fosse stato un qualche riscatto.”
Avevo ascoltato tutto sentendo l’orrore che
saliva, via via trasformandosi in nausea, e ora piangevo come un vitellino
senza riuscire a fermarmi.
Vedevo Floyd, macchia azzurrina nella nebbia,
immobile.
“Lavati la faccia, hai gli occhi rossi e
gonfi” disse amara Maggie: “Poi portagli una giacca a vento, sta ricominciando
a piovere”
Poco dopo mi arrampicai sulla roccia e gli
posai un k-way sulle spalle. Lui infilò automaticamente le braccia nelle
maniche, mi guardò per un attimo e mi sedetti accanto a lui. Allora appoggiò la
testa alla mia spalla, lasciandosi abbracciare.
Pregai in cuor mio perché potesse tornare ad
essere davvero felice: forse sua sorella poteva tornare da lui, in qualche
altra forma. Forse un giorno avrebbe potuto essere sua figlia, per esempio, e
riscattare il dolore dei suoi cari.
Forse sentì il mio pensiero, perché lo sentii
sorridere nel mio abbraccio.
****************************
Non so se fosse la nebbia e la pioggerellina
che da diversi giorni sembrava essersi affezionata a quella zona, ma eravamo
tutti piuttosto apatici: sembrava che nessuno di noi avesse voglia di cambiare
quella situazione di stallo, laggiù in quel rifugio raccolto e caldo tra acque
limpide e foreste, lontani da tutto.
Mi veniva un senso di panico quando mamma o
papà mi telefonavano chiedendomi quando sarei tornata: la sola idea di dover
rivedere quella città così british e vintage dall’anima profondamente vile,
bacchettona, bugiarda, mi dava il voltastomaco.
Sapevo che c’erano tante persone carine, là,
ma sapevo che, se la gente poteva essere disposta superare il gretto disprezzo
per la popolazione nera, non era disposta a superare l’odio ed il terrore verso
“i selvaggi”.
Ne erano terrorizzati, mascheravano la loro
paura con disgusto e odio cieco, sapendo che quella gente era più forte di
loro, ancora, comunque e nonostante tutto, e sapendo, per quanto non lo
avrebbero mai e poi mai ammesso, di essere intrusi a casa loro, nient’altro che
pezzenti coloni dopo secoli.
I miei telefonavano, mi chiedevano come
andasse, dicevano che l’ufficiale che seguiva il caso chiedeva il mio ritorno e
la mia testimonianza, mi fecero anche parlare con lui, una volta, e l’uomo mi
rassicurò dicendo che molte accuse erano ormai cadute, ma dovevo chiarire la
mia posizione e quella dei miei compagni per poter chiudere il caso.
Robert era un soggetto sospetto, avrei dovuto
dire di non essere al corrente con i suoi legami con l’AIM e dare le generalità
del ragazzo più giovane, ma il rischio per me era minimo, soprattutto se mi
presentavo spontaneamente.
“Non devi preoccuparti, Mary” mi disse Floyd
quando fummo in camera: “Il ragazzo di cui devi dare le generalità è del tutto
incensurato.
Le accuse sono di aggressione, atti osceni,
uso di droghe e violenza, ma tu puoi testimoniare per quasi tutto e per quanto
riguarda l’aggressione, io non li ho toccati fisicamente e non si può
condannare qualcuno per attacco sciamanico” disse ridacchiando.
“Diranno che mi avete drogata e influenzata.
Mi chiederanno dove sia stata per oltre un mese! Io non voglio tornare a
Boston, Floyd! Andiamocene! Andiamocene ora, andiamo a Flathead, subito! Non
tornerò mai più a Boston e nessuno se ne ricorderà, tra un po’!”
Floyd non insistette, quella volta, ma era
preoccupato: il mio rifiuto di testimoniare metteva nei guai Robert e Maggie.
Sapevo che il mio comportamento era egoista.
Sapevo che loro non se lo meritavano, ma in
quei giorni, il mio malessere era tale da non permettermi di agire.
“Mi hanno dato della drogata, della troia,
solo perché ero con voi! Io non voglio vederli! Hanno inventato delle storie
assurde, solo per…perché? Dimmi, per quale motivo? Cosa ci guadagnano?”
Lui ascoltava in silenzio. Era triste,
nonostante ci fosse abituato. “Si sentono importanti. Le loro vite sono così
vuote ed inutili, che ogni diversivo le movimenta. Inventare brutture su
qualcun altro li fa sentire grandi, inventare di aver fatto parte di qualcosa
di pericoloso e terribile li fa sentire divi, possono pavoneggiarsi. Quei pochi
minuti di una sera di settembre saranno per loro momenti epici da raccontare
per il resto delle loro povere vite: diranno di avere affrontato un’orda di
selvaggi scappati dalle riserve, inventeranno atti di incredibile
coraggio…chissà, magari un giorno ci sarà un monumento ai poliziotti, che li
rappresenterà belli, magri e atletici, nell’atto di schiacciare sotto i piedi
una dozzina di selvaggi brutti, sporchi e ovviamente ritardati e salvare la
donzella rapita. La storia è piena di episodi così, no?”
“IO NON VOGLIO FAR PARTE DELLA LORO COMMEDIA
DEL C…” mi posò le dita sulle labbra e mi baciò per evitare che il mio
linguaggio diventasse eccessivamente sconveniente.
Intanto, però, non mi risolvevo a partire.
Ero felice con lui, la nebbia mi avvolgeva in
un abbraccio protettivo, mi allontanava dal mondo ostile e odioso, là fuori.”
Avevo ascoltato tutta quella storia,
incredibile nell’incredibile, senza fiatare.
Pur senza averlo neppure mai visto,
probabilmente mi ero appena presa per Floyd una cotta colossale e mi accorsi di
guardarla con la bocca aperta, un’altra volta. “Ma…Marabel, capisco che là al
cottage foste in un mondo tutto vostro,
un nido d’amore, ma…tornare, risolvere la questione e poi partire per il
Montana non era una prospettiva migliore? Avresti avuto lui, una casa e una
vita con lui e nessun timore di problemi con la giustizia. Non riuscivi a
superare la repulsione per quello che non era che un episodio isolato nella vostra
vita?” chiesi con enfasi, pensando che avrei potuto andare nel Montana, per le
vacanze…magari fare un saltino a Flathead a buttare un occhio.
Si, ammetto che Floyd fosse grandicello per
me, facendo due conti, ma…
Marabel era sul mio divano, il suo gatto
sulle ginocchia, il mio di fianco che se la corteggiava spudoratamente.
Restò per un pezzo in silenzio, gli occhi
abbassati sulla testolina chiara che si stava godendo le coccole.
“Il fatto è che forse non volevo andare nel
Montana. Il fatto è che io sapevo che quella scelta mi avrebbe separata
definitivamente da tutto il resto. Ero pazza di Floyd, ma non potevo lasciare
il mio…il mio Faraone? O chi? Lo avevo visto in altre forme, in altri abiti, in
altri tempi, mi ero sentita così profondamente unita a lui, così totalmente
fusa in lui e poi…e poi, senza nemmeno accorgermene, mi ero innamorata di un
altro. Non uno qualsiasi, no! Un ragazzo come ce ne sono pochissimi al
mondo…intelligentissimo, splendido, coraggioso, onesto, divertente, che aveva
sofferto terribilmente, ma che era capace di ridere, di gioire di qualsiasi
cosa, colto, paziente, misterioso e, alla fine di tutto , magico, l’unica
persona al mondo in grado di comprendermi totalmente, prima ancora che mi
comprendessi io.
L’unico in grado di darmi forza, sicurezza in
me, in grado di capire davvero visioni, sogni, esperienze, l’unico con cui
avrei potuto condividere appieno il mio sentire, più che con l’ipnotista e di
una sfilza di studiosi lunga dal Maine a New York City.
Affettuoso, tenero, gentile, totalmente
matto, tanto matto da starmi dietro senza problemi. Perfetto. La più grande ed
assoluta tentazione che si possa incontrare sulla propria strada.
Se fosse stato un bellissimo ragazzo borioso,
superficiale o prepotente, non sarebbe stata una tentazione.
Se fosse stato malvagio, un diabolico essere
sotto le spoglie di un angelo, non sarebbe stata una tentazione.
Se fosse stato un mite, un innamorato senza
speranza, non in grado di comprendermi e sostenermi , non sarebbe stata una
tentazione. Se fosse stato chiunque o qualunque altra cosa, non sarebbe stato
una tentazione.
Avevo incontrato diversi ragazzi lungo gli
anni. Alcuni molto intelligenti, altri sportivi e protettivi, altri simpatici e
affettuosi, altri belli e aitanti, alcuni con tutte queste doti. Nessuno mi
aveva toccata più di tanto.
Non so se avessi lasciato in qualcuno di loro
delle ferite, io non li ricordo, non ricordo il loro volti, non le loro voci, a
volte nemmeno i loro nomi.
Sono ombre che attraversano la mia vita come
nubi che passano attraverso un cielo indifferente.
Floyd non era questo. Era una forza
primordiale, una magia arcaica e potente, una sorgente pura, limpida ed
incorrotta. Era dolore che si trasforma in comprensione, in passione, in
generosità, era rabbia accettata e sublimata in una lotta di ideali, in
protezione per la sua Gente.
Era speranza, era voglia di costruire: come
suo padre per anni aveva costruito grandi palazzi in città, così lui voleva
ricostruire la sua Gente e costruire con loro un futuro luminoso e forte.
Era promessa, un gioiello per il suo Popolo,
qualcuno di cui andare fieri e lui voleva, ad ogni costo, renderli orgogliosi.
Era amore, poiché, sopra ogni cosa, aveva
amato la sua meravigliosa famiglia e ne era stato amato, protetto, appoggiato.
Per quanto non volessi accettarlo, per quanto
cercassi in ogni modo di non vederlo, sapevo che lui non era per me, né io ero
per lui. Sapevo che, prima o poi, avrei dovuto affrontare la verità e ne
fuggivo.
In quel periodo passato con Floyd non avevo
mai dimenticato quell’altro Essere, né i ricordi struggenti che mi
accompagnavano dal primo giorno della mia vita, né l’Amore che provavo per Lui
da prima che il tempo esistesse, eppure…ci sono persone, a volte, così
splendide, così meravigliose e care, che come puoi non amarle?
Ti attraversano la strada e ti prendono il
cuore, senza fare nulla, senza neanche volere, semplicemente per la loro divina
bellezza.
Floyd era questo e, in virtù di tutto questo,
era la più grande delle tentazioni possibili.
Avrei potuto perdermi per lui, dimenticare
tutto, passato, futuro, futuri e passati probabili o almeno possibili, ed era
quello che io mi imponevo di volere, ma non mi apparteneva.
Ero innamorata del suo essere innamorato di
me. Mi sembrava incredibile, immeritato, insperato, mi sembrava un dono così
grande, dopo tanta solitudine, tristezza e tormento nei miei eterni dubbi, da
non poterci credere.
Ma la verità era che non mi apparteneva. La
verità era che, mentre si curava di me, mentre le sue carezze curavano le mie
ferite, ne scavavano involontariamente una più profonda.
Era inutile che mi dicessi che non mi
importava, non più. Era inutile che cercassi di non ascoltare il grido dentro
di me e facessi progetti di una vita con quel ragazzo. La ferita che mi spaccava
in due si allargava sempre di più.
Dopo la data del compleanno di sua sorella si
era fatto più triste. Pensavo fosse un po’ la ricorrenza, un po’ il clima
nebbioso e umido, un po’ la nostalgia di casa, e cercavo di prendere coraggio
di partire.
Passavamo insieme praticamente ogni minuto
del giorno e della notte, perfino Maggie si era arresa e non cercava più di
sgridarci.
Era inquieta, però e, all’epoca, non ne
capivo il motivo.
Molti anni prima, Maggie aveva sposato un
cugino del padre di Floyd e, anche dopo il naufragio del matrimonio, era
rimasta molto legata alla sua famiglia.
Non avendo avuto figli, si era affezionata
profondamente ai ragazzi, soprattutto a Floyd e Bianca, ancor più dopo
l’assassinio della loro sorella, era quindi normale che si preoccupasse tanto
per lui, per tutto ciò che lo riguardava, ma non mi andava giù che non fosse
contenta del nostro legame: era perché ero bianca? Non era forse mezza
scozzese, lei? Non c’era il forte sospetto che avesse una storia con
l’archeologo, che era pure di una decina di anni più giovane?
Il vecchio Jack, al contrario, sembrava più
che soddisfatto di vederci assieme, ma ammetto che lui fosse un po’ strano.
Man mano che i giorni passavano, mi facevo sempre più
nervosa e ansiosa. Mi dicevo che avrei iniziato a preparare i bagagli il giorno
stesso e ogni giorno rimandavo.
Floyd non mi rimproverò mai: restava in attesa della
mia decisione, pur triste nel vedermi così, senza forzarmi e mi stringevo a lui
come fossi stata sull’orlo di un baratro.
Avevo paura, una paura folle di perderlo e lui lo
sapeva.
Una notte mi svegliai gridando.
In sogno qualcuno mi diceva che il Faraone era morto.
Quel qualcuno mi aggrediva, mi gettava a terra, io mi
difendevo, ma stavo molto male, avevo la vista annebbiata, lottavo per non
perdere i sensi. “Cagna!” gridava una voce acida e roca: “Sarai cancellata
dalla storia, ti distruggeremo!”
Floyd mi afferrò, mi prese per le braccia, scuotendomi
e chiamandomi, poi mi strinse forte quando lo riconobbi e scoppiai in lacrime.
Tremavo nel suo abbraccio caldo: “Aiutami!” lo implorai: “Ti prego, Floyd,
liberami, manda via tutto questo! Voglio essere libera, voglio stare con te!
Tutto questo mi sta uccidendo!”
Lui non rispose, subito. Continuò a cullarmi e
accarezzarmi a lungo prima di parlare e, quando lo fece, aveva la voce
incrinata: “Non posso farlo, Mary” sussurrò nel buio: “Perché no?!?”
“Perché tutto questo è parte di te. Sei tu, capisci?
Ha radici in ogni parte di te e se io tentassi di estirparle ti ucciderei.”
Ne fui terrorizzata: non avevo alcuna speranza? Ero
condannata per sempre a rivivere cose accadute migliaia di anni prima, senza
potermene liberare? Ero condannata a lottare contro i miei fantasmi?
“Io non posso andare avanti così, Floyd!” esalai
incredula: “Lo so.” Rispose.
Passarono un paio di giorni e non ebbi più sogni o
sensazioni, pareva che, improvvisamente, tutto si fosse chetato. Mi sentivo
leggera, quasi euforica: forse, dopotutto, il mio bellissimo stregone era
riuscito a liberarmi da quella maledizione.
Vedendomi felice sorrideva, mi pareva fiducioso, ma a
volte socchiudeva gli occhi, studiandomi: “Va tutto bene” gli dicevo. “E ti
prometto che, appena mi abituo all’idea di poter stare lontana da te, vado a
Boston. Ce la faccio, davvero!” ne ero convinta, in effetti.
Avremmo risolto tutto e poi via, nel Montana, dove
avremmo messo su casa, fatto un paio di piccoli stregoni, saremmo stati felici.
Un bambino e una bambina, volevo. Un bambino uguale a lui e una bambina che non
avrebbe avuto i miei problemi, che sarebbe stata una brava nipotina e avrebbe
reso felici e orgogliosi i nonni.
Era ormai fine ottobre, il freddo gelido del Canada
aveva sostituito nebbia e pioggerellina, la galaverna si posava sul mondo
attorno a noi e un paio di volte aveva nevicato.
C’era più neve a Flathead, ma gli aerei atterravano
piuttosto agevolmente, auto e corriere viaggiavano in modo normale; però il
tempo stringeva.
Un mattino gelido e limpido, trovai Maggie discutere
con Floyd sulla veranda, indicando un paio di grosse conifere dietro la casa:
alcuni rami erano molto danneggiati e rischiavano di cadere sul cottage,
secondo Floyd uno degli alberi poteva cadere durante le nevicate. Decise di
potarli e di verificare se fosse il caso di tagliare quello particolarmente mal
ridotto, così, da solo, passò la giornata arrampicato a potare, sistemare,
segare.
Alla fine si scoprì che gli alberi da tagliare erano
due e Floyd li abbatté, poi procedette alla sramatura e infine a trasformarli
in ciocchi e sistemarli nella legnaia, unica parte del lavoro in cui fui in
grado di aiutarlo.
La sera era sfinito e aveva preso un ramo in fronte,
così aveva mal di testa.
Mangiò poco e, appena dopo cena, mi salutò con un
bacio delicato e salì a dormire.
Più tardi mi resi conto che non era nella nostra
stanza, così aprii cautamente la porta della sua e sbirciai: dormiva
profondamente, abbracciato al cuscino e, stranamente, coperto fino al mento.
Ne fui un po’ sorpresa: perché restarsene di là,
quando sarebbe stato coccolato e al calduccio accanto a me? Avrei voluto
avvicinarmi, spostargli quella ciocca dalla fronte, ma non volli svegliarlo.
Il mio letto mi pareva gelido e vuoto, sentivo quel
vuoto dentro e soffrivo l’idea che per giorni sarei stata così e lui non sarebbe stato solo una stanza più in
là.
Durante la notte fui svegliata dal secco sbattere di
una portiera e dal rumore sommesso di un motore. Mi alzai allarmata, ma non
vidi nulla nella nebbia fittissima, né fari, né luci di posizione. Perplessa
restai a fissare il buio per un po’, poi mi convinsi che dovevo aver sognato:
chi poteva viaggiare a luci spente in una simile nebbia e di notte?
Forse era passata un’auto lungo la statale poco
lontano e nel sonno io avevo trasferito il rumore lì al cottage. Si, doveva
essere così.
*****************************
La mattina era limpida.
Floyd non mi aveva raggiunta in tutta la notte,
probabilmente per non disturbarmi, e mi mancava.
Mi vestii e preparai le mie cose, pronta a partire:
gli avrei mostrato la mia buona volontà e avrei avuto coraggio, ma doveva
giurarmi che sarebbe andato tutto per il meglio e che saremmo stati lontani
pochissimo!
Guardai nella stanza: il letto era fatto, tutto in
ordine, così corsi giù ansiosa di vederlo.
Maggie era in piedi davanti al lavandino e Jack stava
facendo colazione, la giacca di Floyd non c’era: “Buongiorno, dov’è Floyd?”
domandai.
“Floyd è partito” rispose Maggie laconica.
“Quando torna?”
“Non torna”
Sentii un serpente gelido strisciare lungo la mia
schiena: “Scusa?”
“È tornato nel Montana.” Ripeté senza guardarmi. Il
volto del vecchio era impenetrabile.
“Ma…ma doveva aspettarmi, io ho preparato le mie cose,
lo so che ho tardato, ma…ok, cosa ti ha detto? Lo raggiungo là?” brontolai con
un nodo in gola.
“No.”
“Oh! Viene a prendermi? Dove?”
“Da nessuna parte. Floyd se n’è andato, Marabel. Non
tornerà e tu non andrai da lui”
“Mi stai prendendo in giro? Vuoi punirmi perché sono
stata pigra? D’accordo, ma ora smettila, è uno scherzo orribile!”
Sedette davanti a me con un sospiro rassegnato: “Non è
uno scherzo, Marabel. Floyd se n’è andato stanotte. Era disperato, ma doveva
farlo prima che fosse troppo tardi, prima di non avere la forza di farlo. Era
già troppo tardi, a dire il vero: Howard ha dovuto trascinarlo via di peso”
Ero incredula, sentivo uno sciame di api inferocite
ronzare nella mia testa: “…m…ma…ma che stai dicendo? Questo è assurdo!”
“Non c’era altra scelta, Mary” intervenne la voce di
Jack da una distanza infinita.
Vedevo tutto avvolto in un alone bluastro, sentivo i
rumori ovattati, la bocca asciutta e stavo sprofondando in un terrore assoluto:
era un incubo, il peggiore che avessi mai avuto! Ora mi sarei svegliata e lui
sarebbe stato lì a consolarmi, come sempre.
“Smettetela!” strillai.
Vedevo i loro volti deformati danzare davanti ai miei
occhi: “Mi dispiace, Marabel. Ho già chiamato tuo padre, era a New York, ma sta
venendo a prenderti.”
“Mi…mi stai cacciando?? Mi stai addirittura
cacciando?” Strillai, più forte di prima. La donna scosse la testa: “Non ti sto
cacciando e non sei indesiderata, ma tu devi tornare a Boston e…e so che ora
non desidererai più restare. Marabel, Floyd è un ragazzo d’oro, merita di
essere amato, non di essere una scappatoia”
Scattai in piedi: “Ma che stai dicendo, vecchia
strega?” urlai: “Floyd e io abbiamo dei progetti, vogliamo sposarci! Di che
diavolo stai parlando? Tu lo hai mandato via, è così? Sei sempre stata
contraria alla nostra storia, che cosa c’è, sei invidiosa? Pensi che io lo
sporchi, che sporchi il suo purissimo sangue Nativo? È questo, vero? Ora
capisco perché lo rimproveravi sempre, non volevi che questa bianca europea ve
lo portasse via!”
Ero furiosa, volevo gridare le cose più terribili,
volevo farle un male grande almeno quanto il mio.
“Marabel, non dire sciocchezze, sei sconvolta.”
“Certo che sono sconvolta! Tu ti sei intromessa, tu lo
hai mandato via, sei stata tu!”
“Marabel!” la sua voce era improvvisamente
autoritaria: “Non è stata una mia decisione. Ne abbiamo parlato, è stato Floyd
a volerlo…eravamo d’accordo da giorni con Howard perché venisse a prenderlo.
Lui sperava che tu partissi per troncare in modo meno duro, ma stava diventando
troppo tardi. Stava male, se avesse tardato un solo altro giorno non ce
l’avrebbe più fatta!
Se tu lo amassi, io ti porterei da lui, ti ci porterei
in braccio a Flathead, ma non è così: lui è stato una fuga, una bellissima fuga
dalla tua vita e questo non è giusto. Lui ti ama davvero, lui si merita di
essere amato per davvero, non di essere una via di fuga”
“Sei pazza” gridai di nuovo: “Tu non sai quello che
dici, a me piace davvero Floyd, mi piace tantissimo!”
“Certo che ti piace!” gridò lei: “Saresti stupida se
non ti piacesse, piacerebbe anche a me se avessi trent’anni di meno! Ma non lo
ami, non veramente e staresti solo male con lui, lo faresti soffrire”
“Io non voglio farlo soffrire! Era felice con me e io
voglio che lui sia felice, sempre! E che lo sia per merito mio, con me, con me,
hai capito??” ero disperata, a quel punto, in preda al panico e rabbiosa come
una tigre ferita e non trovavo altro modo per gridare il mio dolore che
gettarglielo in faccia.
Le gridai tutte le peggiori cattiverie che si possano
dire, cercai nella memoria ciò che di più brutale avessi sentito contro il suo
Popolo dalla peggior gentaglia, e ancora non mi pareva abbastanza.
Le scappò un mezzo sorriso quando le gridai “parassiti,
non pagate le tasse”…era così ridicolo da non essere lontanamente credibile.
Né lei né Jack si scomposero. Mi lasciarono urlare,
spaccare e lanciare oggetti, limitandosi, quando era il caso, a spostarsi.
Alla fine scappai nella mia stanza e piansi fino a non
avere più forze.
Non discesi a pranzo, né loro mi chiamarono.
Era quasi sera quando arrivò mio padre a portarmi via.
Sedette sul letto accanto a me in silenzio, restò lì
per un po’, senza parlare, poi terminò di preparare le mie cose, portò in
macchina la valigia e mi prese delicatamente per un braccio.
Non vidi né Maggie, né il vecchio.
Non parlammo finché, un paio di ore dopo, mio padre mi
propose di fermarci a cenare e prendere una stanza in un motel lungo la strada.
Non avevo voglia di mangiare, ma papà aveva guidato tutto il giorno e forse non
si era nemmeno fermato per pranzare, così non protestai: sapevo che, se glielo
avessi chiesto, avrebbe continuato a guidare fino a Boston.
Con una fitta di dolore, mi resi conto che avrebbe
fatto la stessa cosa anche Floyd.
A tavola mi costrinse a mangiare una minestra calda,
andò a telefonare a mamma, probabilmente anche a Maggie, poi tornò a sedersi di
fronte a me, mesto: “Anche io speravo tanto che andasse bene, Marabel” disse.
Aveva la voce stanca e amara. “Per un po’ mamma e io
abbiamo sognato che tu potessi avere una vita felice, dei bambini, che tu
potessi dimenticare e costruire un tuo nuovo mondo. Mi piaceva un sacco quel
ragazzo, anche se gli ho parlato pochi minuti e…e non si può dire che lo abbia
visto in faccia. Non deve essere niente male sotto quella vernice, eh?”
No, niente male davvero, pensai con un dolore così
grande che quasi mi parve di svenire.
Eppure, il problema non era quanto fossero belli ed
eleganti i suoi lineamenti, avrebbe potuto essere il principe rospo prima della
trasformazione e per me sarebbe stato lo stesso. Floyd era perfetto, comunque
ed in ogni caso.
Non avrei più visto la luce dei suoi occhi, non avrei
più rivisto il suo sorriso disarmante. Quanto avevo sognato di intrecciargli i
capelli, appena fossero ricresciuti un po’!
“Non amerò mai più nessuno!” farfugliai.
Papà sorrise triste: “Oh, si. Succederà perché è già
così da tanto tempo. E allora dimenticherai tutta la pena che hai dovuto
affrontare.”
Ne dubitavo: mi sentivo svuotata. Dentro di me non
c’era che buio, un’oscurità senza confini e senza speranza. Come aveva potuto
lasciarmi in quel modo? Forse ora stava ridendo di me con il suo amico Mohawk,
forse mi aveva già dimenticata, magari erano fermi in qualche locale a mangiare
e divertirsi e stavano corteggiando qualche ragazza in abiti country…
“Se avesse aspettato un solo altro giorno, non sarebbe
più stato in grado di andarsene” disse mio padre dal centro della terra: “È
stato molto coraggioso, ti ha fatto il regalo più grande che potesse farti.”
Lo guardai inebetita. “Non capisci, Marabel? Non
potendo cancellare il suo…il suo rivale, ti ha liberata uccidendo se stesso.”
“Ma lui non si è ucciso!” esclamai terrorizzata: “Non
fisicamente, no. Non ti avrebbe costretta a portare un fardello simile. Si
sforzerà di vivere e lo farà per te, anche se tu non sarai lì a vederlo. È
forte abbastanza per farcela. Andrà bene.”
Riuscii finalmente a presentarmi alla polizia, a
chiarire la mia e la loro posizione: avevo alibi per molti degli episodi che i
calunniatori mi avevano attribuito, e quelli per cui non ero in grado di
presentarne caddero trascinati dalle incongruenze e dallo sgretolarsi degli
altri. Fui scagionata del tutto e lo furono Maggie e Robert, anche se Robert
rimase sorvegliato dall’FBI.
Quanto al vecchio Jack, non era che un vecchietto di
novantasei anni un po’ suonato: non so se lo controllassero, ma se lo fecero
non penso se ne sia mai curato.
Un ragazzo Mohawk canadese, che non avevo mai visto,
ora era segnalato alla polizia di Boston per un fatto che, alla fine, si era
sgonfiato come un palloncino.
Forse, un domani, quell’episodio avrebbe potuto pesare
sulla sua fedina penale, ma pareva che la cosa non lo toccasse: era un
attivista, per quanto fosse perfino più giovane di Floyd e non gli fregava un
tubo degli sbirri, come disse quando
venne a sua volta a costituirsi.
Era un bel ragazzo, dal viso elegante che in effetti
ricordava un po’ Floyd, riservato, critico e con quell’espressione molto Mohawk
che sembra dire: “Tu, piccolo mortale, spostati, IO sono Mohawk!”
A dire il vero era pure simpatico, determinato,
dall’intelligenza acuta e con un che di sornione in un senso dell’umorismo
pungente di ironia che avevo imparato a conoscere.
Una bella persona, sicuramente, niente da dire.
Ma non era Floyd. Ovviamente.
Chiusa la questione denuncia, volli a tutti i costi
allontanarmi da Boston.
Non avevo mai sopportato New York, ma ora il suo caos
privo di spazi di silenzio mi faceva bene, mi rendeva meno, poco meno,
insopportabile l’essere al mondo.
Quando i miei non c’erano era meglio, dal mio punto di
vista: potevo lasciarmi andare alla mia mancanza di voglia di vivere,
precipitare nell’abbruttimento e nella disperazione senza che nessuno mi
controllasse.
Avevo avuto un posto part time al museo, nella stessa
squadra di mio padre, e il tempo in cui non ero al lavoro lo trascorrevo
camminando senza meta per la città, indifferente a tutto, o in casa, al buio.
Nei primissimi giorni in cui mi trovavo laggiù da sola,
presi il coraggio di chiamare nel Montana.
Era ormai novembre e laggiù era venuta giù un bel po’
di neve: sicuramente non sarebbe stato lontano da casa.
Mi rispose una voce femminile molto giovane: esitai,
mi schiarii la gola, perché avevo la bocca assolutamente secca ed ero incapace
di articolare parole corrette: “Chiedo scusa, mi chiamo Marabel…io…vorrei
parlare con Floyd, per piacere”
Ci fu un attimo di silenzio gelido: “Floyd non c’è”
disse la voce, tagliente di ostilità: “Quando posso trovarlo?” sussurrai
sforzandomi di far uscire le parole avviluppate dentro il nodo che mi
soffocava: “Non c’è e basta!” rispose la ragazza. “Ti prego!”gridai prima che
potesse attaccare: “…sei Bianca, vero?”
Forse la spiazzai, se stava per attaccare non lo fece:
“Sai, Floyd mi ha parlato tanto di te, che mi pare di conoscerti. Dice che sei
molto brava a scuola e…e anche che tua nonna ti ha insegnato a sparare. È
così?”
Esitò: “S…si…”
Nonostante tutto ero riuscita a guadagnarmi qualche
secondo prima che mi sbattesse giù il telefono: “Ti prego, dimmi quando posso
trovarlo, ho bisogno di parlargli, tanto!”
“No. Gli hai già fatto abbastanza male.” Rispose con
la durezza dei suoi diciassette anni. “Lui non c’è, e comunque non vuole
parlare”
“Io non gli ho fatto niente!” gridai tra le lacrime:
“Io non lo so cosa sia successo, credimi! Io voglio stare con lui, voglio che
sia felice, voglio essere felice con lui! Ti prego, credimi, ti prego!”
Sono apparentemente tanto duri, i ragazzi, a
diciassette anni, ma sono anche fragili e nascondono la loro sensibilità dietro
muri aggressivi. Non attaccò, restò ad ascoltarmi confusa.
“Mio fratello è disperato. È partito che stava bene,
era allegro, è tornato frantumato in mille pezzi, è irriconoscibile. Come fai a
dire che non gli hai fatto niente?” Aveva la voce incrinata dalla rabbia e dal
dolore, forse anche lei stava per piangere.
Un attimo dopo sentii un movimento, qualcuno prendere
un respiro come per farsi forza: “Mary?”
Sentire la sua voce mi fece scoppiare nuovamente in
lacrime: “Floyd! Ti prego, perché lo hai fatto, cosa ti ho fatto? Perché mi fai
questo? Non ce la faccio, sto male, non puoi capire quanto sto male!”
“Lo so” rispose dolcemente.
“Ma allora perché? Ti prego, torna, no, vengo io,
vengo da te anche ora, cerco un aereo, un treno, qualsiasi cosa, fammi venire
lì da te! Dovevi portarmi al tuo capanno, ricordi? E…e aspettare la primavera
insieme, abbracciati davanti al fuoco! Floyd, ti prego, fai che accada
davvero!”
Silenzio. “Non è possibile.”
“Perché? Se io sto male e tu stai così male come dice
tua sorella, allora cosa stiamo facendo? Chi è stato a convincerti? È stata
Maggie? Non vuole che stiamo insieme, è così?”
Un paio di respiri a soffocare la disperazione: “No,
non è stata Maggie.”
Restai zitta io, ora. Nonostante le parole di mio
padre, due settimane prima, ero ancora convinta che qualcuno, dal di fuori,
stesse cercando di separarci: non potevo accettare che Floyd mi avesse lasciata
per sua volontà e la sua affermazione, così diretta e quieta, mi spiazzava completamente.
Cercavo di raccapezzarmi, ma non ne ero capace: “Floyd…cosa ti ho fatto? Dimmi
cosa ho fatto di male, aiutami a capire, perdonami!”
“Non hai fatto niente, Mary, non è colpa tua! Io…io ho
fatto un casino! Sono io che sono da prendere a calci! Dovevo andarmene subito,
appena arrivata Maggie, non sarebbe successo niente, ma io ho voluto restare,
ho voluto prendere qualcosa che non era mio, Mary! Ho fatto un casino, ho fatto davvero un gran casino!”
Non sapevo cosa dire: la gola mi faceva un male terribile,
non riuscivo a piangere, né a parlare. Mi accorsi di battere i denti come
stessi gelando, mi sforzai: “Io voglio te, Floyd! Voglio stare con te, voglio
stare con te per sempre!” biascicai a fatica.
“Marabel…io ti amo” mi sorprese, ero così confusa che
non risposi.
Lui attese un lungo istante: “Io ti amo, Marabel”
ripeté. Cercai di dire qualcosa, ma le parole non riuscivano ad uscire,
emettevo solo dei suoni inarticolati nello sforzo di parlare.
Il silenzio, questa volta, fu più lungo: “Io ti amo,
Marabel” ripeté un’ultima volta. “F…Floyd…” lui attese, attese a lungo. Poi lo
sentii sospirare, rassegnato:
“Non chiamarmi più, ti prego. Se mai un giorno
dovessi…beh, io sarò qui. Ma altrimenti, non cercarmi mai più.”
Stava per riattaccare: “FLOYD!!” gridai, perduta. Si
fermò, attese ancora: “Io…io…” e, improvvisamente, mi accorsi che quelle parole
non uscivano. Per quanto le volessi gridare, restavano lì, a metà della mia
gola, strangolandomi.
“Ti auguro ogni bene, Mary” e poi sentii il click che
interrompeva la comunicazione.
Crollai a terra, piansi e picchiai i pugni sul
pavimento, gettai via il telefono, restai là, a fissare il vuoto finché si fece
buio.
************************
Passò l’inverno, marzo si affacciò su New York gelido e capriccioso, accompagnato
da venti glaciali che costringevano a camminare curvi strizzando gli occhi.
Un pomeriggio, uscendo dal Met, riconobbi una sagoma appoggiata al muro, in
attesa. Mi guardai attorno cercando una via di fuga, inutilmente: non potevo
evitarlo.
Lui era là, con le lunghe trecce brune, spesse da fare invidia, un
cappellaccio nero da cow boy, occhiali da sole, un giubbotto di renna o
qualcosa che le somigliava, le mani in tasca e l’espressione vagamente
annoiata. E guardava verso di me.
Mi venne incontro mentre mi avvicinavo, colsi con la coda dell’occhio lo
sguardo incuriosito e un po’ invidioso di un paio di donne di passaggio. “Ehh,
già, Cheyenne warrior…sapeste! È davvero Cheyenne!” pensai ironica.
“Come butta?” chiese senza preamboli.
“Che ci fai qui?” risposi di rimando, tenendo gli occhi istintivamente
bassi per non dover incontrare il suo sguardo, per quanto celato dietro le
lenti.
“I tuoi sono preoccupati. Anche noi lo siamo. Che diavolo combini?”
“Non mi frega un accidente della vostra preoccupazione!” sbottai. Lui mi
afferrò un braccio, strinse perplesso, sgradevolmente sorpreso: “Quanti ca***
di chili hai perso?”
“Non sono affari tuoi!”
“Dai, Marabel! Dobbiamo parlare e tu devi mangiare, adesso!” mi scrollai
dalla sua stretta, piuttosto sgarbata: “Falla finita, Robert! Levati di torno,
non voglio avere niente a che fare con voi!”
“Lo sai che non è stata colpa nostra! Smettila di fare la bambina!” Non
avrebbe dovuto dirlo: mi sentii montare la rabbia, alzai una mano per mollargli
uno schiaffone, ma lui mi afferrò il polso: “Adesso vieni con me!” ringhiò
trascinandomi via.
Pensai di gridare, fingendo che mi stesse importunando, poi mi resi conto
che un impiegato del Metropolitan ci osservava: un tizio che non sopportavo,
che non perdeva occasione per insultare e disprezzare gli indiani, snob,
ignorante, sgradevole.
E Robert era segnalato come soggetto pericoloso.
E di sicuro la storia di settembre sarebbe tornata a galla.
E, in ogni caso, lo avrebbero linciato: non era un uomo, era uno stupido indiano che importunava una
donna bianca e aveva pure la faccia tosta di essere ben vestito e tirato a
lucido, che vergogna!
Socchiusi gli occhi, messa all’angolo: “Me la paghi!” sibilai e mi avviai
camminando al suo fianco.
Lui si voltò, rivolse all’impiegato che ancora non gli toglieva gli occhi
di dosso un sorriso radioso, si toccò il cappello in segno di saluto, mi mise
un braccio attorno alle spalle, apparentemente protettivo, forse più per
evitare che tentassi di svignarmela e mi condusse lungo una via secondaria,
meno trafficata, tra piccoli cumuli di vecchia neve ghiacciata e annerita di
smog.
Poco dopo eravamo in un piccolo e raffinato locale italiano, in un angolino
discreto: “Carlo ci prepara qualcosa di sostanzioso e tu mangi tutto, fino
all’ultimo boccone, altrimenti potrebbe offendersi, sai, e io non ho nessuna
voglia di fare figuracce…ah, non sopporta le donne anoressiche”
“Ma sono le tre! E io non sono anoressica!” risposi. “Forse no, ma ci stai
lavorando e ti ci applichi pure. E comunque non hai pranzato, quindi è ora di
pranzo!”
Mi costrinse a mangiare gnocchi di patate, di quelli chiamati “alla bava”,
con formaggio disciolto che faceva fili deliziosi quando si sollevava uno
gnocchetto dal mucchio. L’omone che ce li servì ebbe cura di controllare che
finissi fino all’ultimo la doppia porzione che mi aveva schiaffato nel piatto:
“Non preoccuparti, cicci, Carletto non vi fa pagare doppio, sai?” Robert
osservava soddisfatto: “Me la devi ingrassare di almeno cinque chili” disse
sornione.
Non mangiavo decentemente da quattro mesi e mi accorsi di avere fame, ma il
mio stomaco sembrava essersi ristretto, rigidamente chiuso nella morsa che non
mi abbandonava da fine ottobre e ora tirar giù tutto quel ben di Dio mi costava
fatica.
Poco dopo Carlo ci portò due pacchi avvolti in carta oleata e li mise in
una borsa: “Ecco, Rob, prendi una padella fonda, la scaldi bene con un
coperchio e poi ci metti la roba dentro cinque minuti, a fuoco quasi minimo,
non hai nemmeno bisogno di far scaldare il forno”
Robert pagò sorridente, salutò Carlo e un paio di altre persone e mi
trascinò via: “Uuh, ha messo anche la crostata! Qui abbiamo merenda e cena e tu
mangerai tutto. Pollo allo spiedo con patatine novelle al rosmarino. Come lo fa
lui, non lo fa nessuno!”
Avevo faticato a finire gli gnocchetti, ma il profumo che usciva dalla
borsa mi stordiva. Non avevo dubbi che fosse eccezionale e io adoravo il pollo
allo spiedo, Robert lo sapeva. “Vuol dire che ceneremo alle dieci…” sospirai
rassegnata.
Mi obbligò a fare una doccia molto calda, mi fece vestire con abiti morbidi
che gli aveva dato mia mamma e poi sedette mollemente sul divano: “Abbiamo
pensato molto in questo periodo. Due anni fa hai dovuto interrompere per non
impazzire, ma la pausa è durata fin troppo, devi tornare ad affrontare ciò che
rimane da scoprire, anzi, noi…” prese fiato, soppesando le parole: “…Floyd
pensa che dovresti indagare su altro, su altri momenti dell’esistenza. Altre
vite. Prima, dopo, non importa, ma altro.”
Sentire nominare Floyd mi fece salire una nausea da panico incontrollabile,
ripresi a tremare come nei miei giorni più bui: “T…tu hai p…parlato con lui?”
chiesi in un soffio.
“No. Nessuno parla con Floyd, ora, a parte suo nonno. E sua nonna, anche
lei lo vede. Floyd e io avevamo parlato
prima...prima della tua telefonata, al suo rientro a Flathead. Ero nel South
Dakota e l’ho raggiunto un paio di giorni dopo.”
Non capivo: nessuno parlava con lui, ora?
“Come sta?” trovai il coraggio di chiedere. Lui fece una smorfia, afferrò un
pile, me lo lanciò addosso e mi ci arrotolò dentro, poi si sistemò sul divano
in modo da avermi di fronte: “Quando l’ho visto io era uno straccio, ma sta
bene, adesso. La sua Gente ha cura di lui.”
“Adesso? E che significa che nessuno parla con lui ora?”
“Uff…dopo la tua telefonata ha dato di matto. È scappato, se n’è andato
sulle montagne e ci è rimasto fino a un paio di settimane fa.”
"Sulle montagne? Per quattro mesi? Da solo? D’inverno?”
“Sssi, si, si, si! Marabel, Floyd non si spaventa per un po’ di neve e sa
pescare, cacciare, cucinare, fare tutto ciò che occorre per sopravvivere e lo
sa fare bene. Non è un cittaducolo bianco rammollito, che diamine, dovresti
saperlo! Floyd è forte!”
“Ma perché?!?” strillai.
“Perché voleva stare da solo, non voleva vedere nessuno e…e, va beh, te
l’ho detto, ha dato un po’ di matto. Poi, però, la fatto a botte con un orso e
ora è…”
“COSA HA FATTO?!?”
Sbuffò: “Dai, Marabel! Non è successo niente, davvero, gli rimarranno un
paio di segni sulla schiena, ma sta bene!
È che fuori dalla Riserva hanno fatto brillare delle mine per una frana
controllata, un paio di settimane fa e
l’orso doveva avere la tana lì vicino, così è stato disturbato. Sai,
tendono ad essere un tantino irascibili se li svegli durante il letargo.
Secondo gli Anziani, l’orso gli ha fatto bene, gli ha, come dire…” si
interruppe.
“Gli ha cosa?” lo incalzai.
“Beh, gli ha dato uno scossone. Ne aveva bisogno. Insomma, non è che
proprio abbia avuto cura di sé, in questo periodo.” Non risposi, mi limitai a
guardarlo con fiamme dagli occhi.
“Senti, d’accordo, lui è stato sulle montagne, ha vissuto di pesca, caccia,
ha dormito dove trovava, a volte in rifugi di cacciatori, a volte in anfratti,
a volte in buchi scavati nella neve, va bene, è che non voleva che lo
trovassero! Praticamente tutta la
Riserva gli dava la caccia: volevano riportarlo a casa, ma lui si sentiva così,
sai, braccato, e scappava. È molto abile, davvero, a nascondere le tracce e
camuffarsi, un guerriero di vecchio stampo! I suoi nonni hanno fatto un ottimo
lavoro!” disse con un sorriso compiaciuto: “Un vero selvaggio!”
“Smettila di fare il cretino, voglio sapere cos’è successo!”
“Beh, non è che ne sappiamo granché, i nonni Salish sono gli unici che lo
vedono, a parte un suo amico che lo ha trovato…insomma, in questi mesi anche
lui si era debilitato, però continuava a nascondersi. Un paio di volte hanno
trovato tracce di sangue e…NON FARE QUELLA FACCIA! Probabilmente erano prede!
Comunque, in quei casi, si riusciva a seguirlo per un po’, ma poi lo perdevano.
Cannocchiali, auto, nemmeno i cani riuscivano ad acchiapparlo! Poi è
successa questa cosa con l’orso, si è preso una zampata sulla schiena e, non
riuscendo a medicarsi, gli è venuta la febbre, si è indebolito e così si è
diretto verso una strada forestale dove il suo amico lo ha trovato..ora che ci
penso, era finito in acqua…beh, almeno ha seminato l’orso.
Lo ha medicato, poi, siccome lui non voleva andare in ospedale, lo ha
portato di peso dai nonni, che lo hanno curato e rifocillato. Ora in un posto
sacro, un posto di famiglia, insieme a suo nonno. Non ho idea di dove sia, solo
la nonna lo sa e porta loro provviste e quello che occorre. Credo stia
completando la sua formazione come Sci…Med…Stregone. Uff, che ragazzo
complicato!”
Aveva rischiato la vita, ed ero certa che Robert non mi stesse dicendo
tutto! Mi sentii mancare: “Voglio vederlo! Portami da lui!” lo implorai.
“No, Marabel. Non ti porto proprio da lui, nemmeno se mi minacci di morte.
Lascialo in pace, lascia che continui la sua strada, che guarisca. Il peggio è
passato, ora si riprenderà la sua vita, sarà più forte e questo, questa cosa
che è successa, lo renderà migliore, in grado di comprendere il dolore degli
altri più di prima. Sarà un grande Sccciitregone. Oh, che diavolo, sarà un
grande Medicine Man, ecco! Non mi interessa se la parola non gli sconfinfera!”
In un altro momento mi sarei messa a ridere, ma non in quello: Floyd era
scappato sulle montagne, in pieno inverno, aveva rischiato l’assideramento, per
quanto Robert lo escludesse, l’inedia, si era perfino trovato in un corpo a
corpo con un orso strappato al letargo ed era finito nell’acqua ghiacciata,
tutto per causa mia e ancora non volevano portarmi da lui: “Ma non vedi che sta
male? Perché non mi porti da lui? È tutto quello che voglio, ed è quello che
vuole anche lui, perché dovete essere così crudeli?” implorai ancora.
Robert parve sorpreso, mi guardava come non potesse capire il mio punto di
vista: “Che dici, Marabel? Nessuno è crudele! Floyd non vuole che tu vada da
lui…ascolta, Bianca ha sentito la conversazione, quel giorno, e io so che lui
ti ha detto chiaramente di non cercarlo più…dimmi, chi è crudele?”
“Ma non è quello che vuole veramente!” sbraitai esasperata.
“Scusa, ma…se non è quello che vuole…spiegami perché diavolo te lo avrebbe
chiesto! Se non è quello che vuole, perché se ne sarebbe andato nel cuore della
notte?”
Non sapevo rispondere, non capivo. Da mesi mi struggevo nel tentativo di
capire: mi aveva ripetuto tre volte di amarmi, sapevo che stava soffrendo come
un cane, eppure non mi voleva. Perché?
“Che strana gente, siete, Marabel…davvero, a volte mi pare che non abbiate
idea di cosa sia la logica, fate di rado quello che veramente vorreste e vi
incasinate in situazioni senza uscita, da soli. E poi trasferite su di noi le
vostre ragioni insensate. Floyd non se ne sarebbe andato se non lo avesse
voluto, sai? Non è scemo. Non di solito.”
“Io non capisco…” riuscii a tirar fuori.
Lui mi abbracciò, paziente: “Eppure è semplice. Floyd sapeva fin
dall’inizio, dalla sera della Cerimonia, chi tu fossi e a che cosa o a chi
appartenessi, ma c’è stato un imprevisto: si è preso una cotta mostruosa per
te, una di quelle senza ritorno. E quando si è reso conto di piacerti, pur
sapendo a cosa andava incontro, ha deciso che valeva la pena di bruciarsi.
Sapeva che si sarebbe fatto molto male, sapeva che il suo cuore si sarebbe
sbriciolato, ma non gli importava: ha voluto affrontare quel cammino a
qualsiasi costo.
Sapeva che, se non avesse giocato il tutto per tutto, lo avrebbe rimpianto
per sempre.
Solo che, vedi…non aveva calcolato che tu potessi provare sentimenti così
forti per lui: era certo che, un giorno, lo avresti lasciato per tornare alla
ricerca dell’altra parte della tua anima e, quando fosse successo, lui non
avrebbe fatto niente per trattenerti, grato per quel pezzo di te e della tua
vita che aveva avuto. Sarebbe morto dentro, ma in silenzio, perché quella era
la sua scelta. Lo avrebbe accettato.
Ma non è andata così: tu ti sei aggrappata a lui come ad un’ancora e ti
stavi distruggendo nel conflitto tra lui e l’altro. Un altro molto anomalo,
naturalmente, ma sempre l’altro. Mi ha detto di aver ascoltato i tuoi sogni e i
tuoi pensieri per tutto il tempo che siete stati insieme. Tu eri nella sua
mente, ma lui non era nella tua. Tu eri nel suo cuore, ma lui non era nel tuo.
Lui vedeva e sentiva ogni cosa, tu eri lontana e non sapevi sentire.
Soffrivi, troppo, lui ha capito che avresti finito per ammalarti e ha fatto
l’unica cosa che poteva fare.
Non vuole vederti perché sa che questo è sbagliato per entrambi, ma
soprattutto per te e poi sa di doverti dimenticare, o meglio, dimenticarti no,
non lo farà, ma deve lasciarti indietro e andare avanti. Doveva chiudere questa
storia prima che fosse troppo tardi, ma era già troppo tardi.
Non ti dimenticherà e non rimpiangerà mai di averti incontrata, per quanto
male possa fare. Lui ti terrà nel suo cuore, per sempre.
Non la smettiamo mai di essere romantici e ci bruciamo come polli. Questo
amore lo ha trascinato via, lo ha reso cieco, lo ha rivoltato come un calzino,
ma poi è tornato in sé e ha fatto ciò
che era giusto.
Volevi capire se i tuoi ricordi e i tuoi sentimenti fossero reali o meno:
se non lo fossero stati, tutto si sarebbe disciolto come neve al disgelo, ma se
fosse stato vero, il rischio era di avere esperienze ancora più forti ed è
quello che è successo. La Cerimonia ha funzionato, hai la tua risposta. Floyd
non può liberarti da queste visioni, dai ricordi, dalla presenza di quest’uomo,
però poteva liberarti da se stesso. Ti è chiaro, ora?”
“Io so che sto male e lui sta male. E che tutto è terribilmente ingiusto!”
sbottai.
Sapevo che Robert aveva ragione, ma non potevo accettarlo: come poteva il
destino, o che diavolo era, accanirsi in questo modo? Mettermi sotto il naso la
cosa più bella e più dolce che si possa immaginare e poi, scherzetto,
portarmela via dopo appena un assaggio?
Era beffardo, era assurdo!
Gettai le braccia al collo di Robert e scoppiai a piangere, inconsolabile.
Lui mi tenne stretta, incurante del mio mascara che si scioglieva sul suo
maglioncino celeste: “È incredibile, vero? Ci facciamo tanto più male a
vicenda, quanto meno lo vogliamo. Ci facciamo un male tale che non arriveremmo
a farci in nessuna guerra” lo sentii sussurrare.
Percepii un abisso, tra me e quell’uomo, un abisso che mi diede le
vertigini, e compresi di essere stata io a scavarlo, il giorno in cui avevo
gettato tutto il mio dolore rabbioso addosso a Maggie, Jack e tutti loro:
quell’equilibrio delicato che tutti noi avevamo curato con tanta dedizione, si
era sgretolato nella violenza delle mie accuse.
Nessuno di loro era arrabbiato con me, né lo furono mai.
Sapevano che le mie parole erano state rubate ad altre bocche, cercate
apposta perché potessero far male, ma non mi appartenevano.
Si dice che, quando si è arrabbiati, si dicano cose che non si pensano, ma,
nel novantanove per cento dei casi, è esattamente il contrario: nella rabbia,
come nel vino, esce la verità, si dicono le cose più recondite, quelle che non
si vorrebbero mai dire, ma che segretamente si pensano, le più vere.
Poi c’è quella volta su cento, o su mille, in cui si cercano parole feroci
apposta per gridare aiuto, per farci sentire al di sopra del frastuono e del
dolore, perché sono le uniche abbastanza forti da far provare a chi ci è di
fronte lo stesso male che proviamo noi.
Loro sapevano che quella era stata una di quelle volte, ma, nonostante
questo, io avevo scavato un solco che non saremmo più riusciti a colmare, in
seguito. Avevo conficcato un coltello in una ferita aperta e riaperta così
tante volte, che ora non poteva smettere di sanguinare.
Non riuscii mai più a sentirmi, insieme a loro, a mio agio e completa come
prima, tanto che, anni dopo, finii per perderli.
Piangevo abbracciata a Robert e nello stesso tempo mi mancava, mi mancava
come manca l’aria.”
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