Due parole sul blog

Se pensate che qui si parli di Fate, Elfi e Creature simili, beh, avete ragione.
Quasi.
La verità è che qui la vera protagonista è la Terra, com'è o come avrebbe potuto essere se...Se l'uomo non fosse com'è, se si fosse evoluto diversamente, se le cose fossero andate in un altro modo...

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Su, su, guardate, guardate...

Come Polvere Nel Deserto 2



Accadde nella notte.
Ero nel deserto, anche là era notte. Stavo morendo e ne ero cosciente. Gridavo al vento: “Io ti troverò! Ti troverò, non importa se ci vorranno millenni, ti cercherò fino alla fine dei tempi!”
Mi svegliai di soprassalto, Floyd forse era già sveglio. Mi chiese cosa stesse succedendo, mentii, gli dissi che avevo sognato di precipitare in un burrone, che qualcuno mi dava la caccia e mi rannicchiai contro di lui.
Sapevo che non mi credeva, ma non volevo dire la verità, non volevo mettere quella cosa tra me e lui. Mi abbracciò tenendomi forte, appoggiò la guancia sui miei capelli, non disse nulla, ma stava soffrendo.
Scacciai il ricordo dell’incubo, sentendomi come se una spada mi avesse spaccata in due con un taglio netto, dalla testa ai piedi: stavo abbandonando il mio Faraone, lo stavo tradendo.
Mentivo all’uomo più meraviglioso del mondo e tradivo colui che avevo cercato per tremila anni e che non c’era.
Sua Maestà era il sogno, il passato, remoto e doloroso che volevo dimenticare. Volevo Floyd, a qualsiasi costo, per sempre.
Come formulai quel pensiero sentii qualcosa scivolare via da dentro di me, mi sentii svuotata, un vuoto assoluto, inimmaginabile, doloroso oltre qualsiasi sopportazione, mi sentii frantumata quanto nemmeno un vetro in mille piccolissime schegge avrebbe potuto essere.
“No!” pensai nel panico.
Quello scorrere via si interruppe, il vuoto in parte si colmò, mi sentii meno frantumata. Non integra, solo meno in pezzi.
Cosa stava succedendo? Forse dovevo soltanto avere il coraggio di lasciarlo andare, di vivere senza quel qualcosa di indefinibile che mi accompagnava da sempre. Lasciarlo andare…la cosa più sensata, logica, giusta.
Lasciarlo andare, lasciarlo scivolare via, che non esistesse più.
Lasciarlo andare.
Per sempre.
Mancava l’aria, ero terrorizzata.
Lascialo andare, chiudi.
Hai Floyd, è qui. È reale. È perfetto.
Forse puoi costruire un’altra volta un’unione come l’altra. Meglio dell’altra. Reale, almeno reale.
Sarai libera.
Dimenticatene, lui non esiste, è un gioco della tua mente per tenere lontani rapporti imperfetti, cercare un’utopia, è stupido, è malato rifugiarsi nel sogno per evitare rischi, si, questo direbbe un bravo psicologo, uno sano, normale, non quel pazzoide cui ti sei affidata per undici anni!
Dimenticatene. Freud avrebbe molto da dire sulla tua malattia.
Sei stupida. Sei malata. È una forma di schizofrenia.
Lascialo andare, lascialo nel passato o in qualsiasi posto da cui provenga.
NO!
Non posso. Fa male, mi uccide.
È solo un inganno della mente, lascialo andare.
“Is, cercami! Sono qui, come puoi non vedermi, Is!”
Rannicchiata nelle braccia protettive di Floyd, lo sentii cullarmi, senza una parola. Non mi chiese nulla. Non lo faceva mai, si limitava ad esserci.

Mi svegliai sola.
Presa dal panico corsi alla finestra e lo vidi arrampicarsi come uno scoiattolo su un albero con qualcosa in bocca, probabilmente un panino.
Mi sbrigai a prepararmi e corsi giù: non sopportavo di stargli lontano, avevo bisogno di vederlo, di sentirlo, di respirarlo.
Corsi verso l’albero e lo minacciai: “Ora scuoto, voglio vedere se sei maturo!” lui rise, finì il panino, poi si calò giù da un ramo all’altro e mi atterrò davanti.
Sorrideva, ma c’era qualcosa di diverso in quel sorriso: i suoi occhi il giorno prima ridevano, ora sembravano coperti da un velo.
Mi abbracciò, fece per baciarmi, si ricordò del panino, ci ripensò, mi prese in braccio, fece un giro su se stesso e mi portò in casa. Sparì a lavarsi i denti, tornò di corsa, chiuse Maggie nello stanzino delle scope e a quel punto mi baciò come ne andasse della sua vita.
Maggie strillava, da là dentro, lui non si scompose finché io mi scostai da lui quel tanto da guardarlo con rimprovero, allora aprì la porta e schizzò via, inseguito dalla ramazza da lancio della nostra balia Pequot.

Cancellai il sogno, lo accantonai: perché indugiare su qualcosa di così terribile, quando la realtà era quanto di più stupendo si possa immaginare? Non è forse il contrario, di solito?
“Voglio stare con te, voglio che tu sia felice, per sempre” pensai.
Non so, però, se quella volta sentì i miei pensieri, perché era inseguito da una donnina molto combattiva con una ramazza molto affilata.

Più tardi decidemmo di andare ad una postazione per fotonaturalisti e, anche se non avevamo macchine fotografiche, speravamo di poter almeno vedere qualcosa.
Avevamo un piccolo zaino con solo qualche provvista, una borraccia, una coperta e un paio di cerate, che Floyd non voleva portassimo a turno, sostenendo fosse ridicolo.
Io ero un po’ imbronciata: non mi piaceva farmi servire e far fare a lui il mulo, ma lui rideva delle mie rimostranze e mi faceva quasi sempre camminare davanti a sé, come a volermi controllare, a parte quei tratti in cui il sentiero spariva e bisognava cercarne le tracce, nel qual caso passava davanti per un po’.
D’accordo, lui era la guida Salish, ma io avevo girato il mondo da quando ero piccola e non solo nei musei! Sapevo destreggiarmi, protestavo, i miei antenati erano popoli delle foreste e in me scorreva l’atavico sangue dei Druidi.
Lui stringeva le labbra per non ridere, lasciando ridere gli occhi.

Per via ci imbattemmo in una trappola da bracconieri. Floyd la fece scattare, poi la smontò con cautela, controllando che intorno non ce ne fossero altre e la infilò nello zaino per poi portarla alla stazione dei forestali.
Osservavo le sue mani, nel lavorare a quelle molle e fili, la loro bellezza, il modo in cui le muoveva, osservavo la sua espressione attenta nel cercare intorno, concentrato, i capelli nero lucido che, umidi di condensa, si arricciavano incorniciandogli il viso serio, lo osservavo voltarsi e tornare a sorridere, i denti bianchissimi tra le labbra corpose dal disegno nitido.
Osservavo il suo passo, il suo studiare l’ambiente intorno, il suo spingermi delicatamente avanti, se esitavo, non convinta della direzione (nonostante l’atavico sangue) e non riuscivo a credere che potesse esistere.
Mi indicò un albero davanti a noi e vidi che portava un minuscolo rifugio, come la casetta sull’albero che fanno i ragazzini in giardino, solo un po’ più seria e con l’insegna dei rangers.

La nebbia si era alzata ed ora stava iniziando a cadere una pioggerellina sottile e fitta che aveva l’aria di voler durare tutto il giorno.
“Non so quanto riusciremo a vedere” considerò posando lo zaino.
Studiammo i grossi posters che elencavano le varie specie animali e vegetali presenti in quell’area, in un piccolo vano trovammo notes e qualche matita, un cannocchiale, un paio di teli mimetici.
Chi passava, a volte, lasciava delle cose per chi fosse venuto dopo.
Restammo seduti sul pavimento, le schiene appoggiate alla parete, gli sguardi poco speranzosi verso il bosco che si faceva sempre più evanescente e sfumato nella pioggia che infittiva.
Abbracciati. A parlare, a contemplare tra un bacio e l’altro, ad ascoltarci.
“Impazzirai, oggi”
“Perché?”
“Scherzi? Qui dentro, in uno spazio di due metri per due, al chiuso, senza fare niente? Dev’essere peggio dell’isolamento, no?” lui mi sbirciò divertito: “Abbiamo cibo e acqua, possiamo sopravvivere per almeno due, tre giorni se razioniamo i viveri” scherzò. “Non siamo al chiuso, in fondo, solo al riparo. E non mi posso annoiare, qui con te, ma dovessi rimbambire a fissare la pioggia, tu mi sveglieresti, si?” lo guardai interrogativa: “Rimbambire?”
“Si, è…oh, beh!”
“Dai!”
“È una specie di trans. Fissare il fuoco, o le gocce di pioggia a lungo, può portarti in uno stato di meditazione, quasi di trans. A me succedeva naturalmente quando ero molto piccolo, per cui si accorsero che avevo queste…queste cose. Doti. Capacità. Quella roba lì, insomma.
Mi lasciavano nella culla e magari pioveva e io restavo con gli occhi sbarrati a fissare la pioggia, o la nebbia o il fuoco del caminetto. L’effetto più forte me lo fece una candela davanti ad uno specchio, ma ero già più grandino, avevo un paio di anni”
“Un vero matusa, eh?”
“Umpft! Beh…non avevo solo qualche mese, toh! Era inverno, c’era poca luce e mamma non voleva accendere per non consumare elettricità, perché la producevamo con un piccolo generatore che mio padre aveva costruito dietro casa, ma il cielo era plumbeo, così accese qualche candela, una la mise non lontano dal mio lettino, forse perché vedendola mi sentissi tranquillo. Non si era accorta che si rifletteva nello specchio.
Tornò dopo oltre un’ora, perché le pareva strano dormissi tanto più del solito, ma mi trovò seduto a fissare il fuoco. Mi chiamò, mi scosse, io non reagivo, continuavo a fissare il fuoco e fare dei gesti con la testa. Se mi spostava, spostavo lo sguardo per continuare a tenerlo sulla fiamma, ma quella dentro lo specchio, non quella reale. Così corse a chiamare mio nonno e lui mi fece tornare. Io non ricordo cosa vidi, dove fossi stato, ed ero troppo piccolo per raccontare, ma lui capì che avevo viaggiato in qualche altro luogo, dove avevo preso potere.” Concluse.
“Ora, quando mi succede, non è che veda qualcosa. Rimango come incatenato alla pioggia, al silenzio, al fuoco, o alla nebbia. La neve: la neve bisogna fissarla a pancia all’aria e perdersi nel turbinio.”
“E allora che succede?” scrollò le spalle: “Mah, niente. Ti perdi. Diventi tutto. Senti tutto. Ogni cosa è in te e tu puoi essere in ogni cosa. Senti. Ti sembra di sentire tutto il mondo in te e di essere dentro le cose più piccole o più grandi. Non c’è distanza o dimensione...Conosci. È così, niente altro.”
Lo diceva come fosse stata la cosa più banale del mondo. Qualcuno, in giro per i millenni, l’aveva definito stato di illuminazione o qualcosa del genere.
“Che succede quando torni alla normalità?”
Mi guardò accigliato, studiando attentamente le mie parole: “Normal… sarebbe?” Scoppiai a ridere.

Con l’avanzare del giorno, la pioggia si faceva sempre più fitta e battente, finché ebbi la sensazione che qualcosa entrasse da un lato del tetto di legno. Non feci in tempo a voltarmi, che un paio di listelli si staccarono aprendo una lunga fessura rettangolare da cui entrò una cascata d’acqua.
Floyd scattò e, infilatosi nella finestra, si arrampicò sopra la costruzione cercando di rimediare al danno: recuperò alcuni listelli che si erano spostati, infilò sassi piatti come cunei per fermarli, poi sacrificò la cerata fermandola agli angoli del tetto. Rientrò fradicio e infreddolito circa mezz’ora dopo, scrollandosi come uno spinone.
“Oh, al diavolo!” esclamò contrariato.
Tolse maglioncino, maglia, jeans, che allargammo sul pavimento di legno. Presi una vecchia coperta militare e, dopo averla arrotolata, la passai diverse volte sugli abiti per assorbire più possibile il bagnato, mentre Floyd si avvolgeva nell’altra.

Dopo un po’, ormai asciutto, allargò la coperta attorno a sé e rimase appoggiato alla parete alle sue spalle, tenendomi abbracciata e io presi ad accarezzarlo dal viso, il collo, lungo le spalle, lungo il fianco. Lui teneva gli occhi chiusi, respirava lentamente, assaporando le sensazioni. Scesi lungo l’anca seguendo le linee della muscolatura sulle gambe, circondai con le dita la forma del ginocchio e ancora lungo il polpaccio, soffermandomi sulla caviglia e accarezzando ancora il dorso del piede. Aveva piccoli scatti involontari, il respiro più profondo.
Pur non riuscendo a percepire i suoi pensieri, mi accorsi che provava sensazioni intense, che quel piacere era quasi doloroso. Gli era nuovo, come nessuno, o meglio, nessuna, si fosse mai curata delle sue gambe e dei suoi piedi, come non fossero che periferia senza importanza.
Soffocai i ricordi delle sue confidenze, allontanai la sensazione amara di tutto quello che non aveva detto.
Appoggiata a lui non parlai, non ce n’era bisogno.
Sapevo che bastava che chiudessi gli occhi e lasciassi libero il pensiero, perché lui lo sentisse.
Solo nel pomeriggio smise di piovere, così decidemmo di rientrare.
Nonostante fossero passate alcune ore, i suoi abiti erano ancora sgradevolmente umidi, ma gli toccò indossarli con una smorfia.

Floyd voleva passare dai rangers per le trappole e per il tetto, così ci toccò allungare parecchio la strada.
Trovammo un uomo corpulento, dall’aria bonaria, corti capelli neri drittissimi, occhi scuri in un viso piuttosto largo che denunciava chiaramente le sue origini.
Ci osservò pensieroso mentre Floyd gli spiegava delle trappole e del disastro occorso alla postazione: lo studiava attentamente, come cercando di farsi venire in mente qualcosa che continuava a sfuggirgli.
Si fece indicare il posto in cui avevamo trovato le trappole su una cartina, si sorprese di come quel ragazzo fosse stato abile a riparare il tetto con mezzi di fortuna, poi, come era prevedibile, gli chiese un documento. Avevo il cuore nelle orecchie, ma lui era sereno: non correva pericoli, finché non chiedevano un documento a me e non lo fecero.

Il ranger mi aveva osservata diverse volte, ma forse solo perché ero là con quel tipo in gamba e io non lo sembravo altrettanto.
Prese il documento, un foglio per il verbale e osservò: “Dunque…Floyd Archangel…” vidi una ruga formarsi tra le sopracciglia, prima che la sua faccia paffuta si illuminasse: “Massì!!! Ecco chi sei! Non ti riconoscevo senza capelli!” d’accordo, a qualsiasi cosa si riferisse, non era il casino di Boston. Mi rilassai: “Tu sei quel ragazzo!” Floyd lo guardava smarrito.
“Non ti ricordi di me, vero?” chiese alzandosi in piedi, un sorriso da orecchio ad orecchio: “Io ti ho piantonato venti giorni in ospedale, sei anni fa! Tu sei il genio che ha steso quei tre st*** a Seattle, ci hai quasi lasciato le penne!”
Vidi Floyd arrossire, incerto: “Ah, ecco, ehmm…”
“Già!” continuò l’uomo: “Allora ero in polizia, tu eri malconcio, all’inizio eri quasi sempre sedato, e io, beh, pesavo qualche chilo di meno. Non puoi ricordarti di me, ma noi agenti, quelli Nativi almeno, ti consideravamo un eroe, altro che!” si voltò a guardarmi: “Un vero bisonte! Da solo, disarmato, contro cinque, cinque bastardi più grandi di lui e armati di coltelli,  bottiglie rotte e cattiveria da vendere! Ci ha rimesso un pezzo di fegato, ma quelli hanno avuto quel che si meritavano, soprattutto quel verme del figlio del giudice, eh?”
Floyd non sapeva cosa dire: il ranger era entusiasta, lo trattava come un eroe per quella storia di cui lui si vergognava: “Io…beh, si, ho perso la testa, ma…insomma, loro avevano importunato mia sorella e…”
L’uomo gli diede una pacca sulla spalla: “Lascia perdere, sapevamo tutti la storia! I nostri superiori ti consideravano un soggetto pericoloso, ma noi ci preoccupavamo per te, invece. Sei stato un grande, ragazzo! Ma che è successo, dopo? Avevi i capelli fin sotto le natiche, a quel tempo! Andavi a scuola, no?”
Floyd gli spiegò brevemente cosa fosse successo l’anno seguente, le sfilate, poi il diploma, la laurea e ora il master. L’uomo ascoltava in estasi, con gli occhi brillanti: “Bravo, bravo ragazzo, un vero esempio da seguire! E quell’altro, invece…ha fatto la fine che si meritava!” disse grave.
Lo guardammo senza capire. Il ranger ci osservò stupito: “Non lo sai?” Floyd scosse la testa.
“Due anni fa…certo, tu non eri più a Seattle, ma ne parlarono i giornali. Il figlio del giudice ci è rimasto secco durante un inseguimento. È finito con la sua porche a muso in giù nello stretto sulla strada per Everett. Gli hanno trovato parecchi chili di droga, in macchina. Un bel po’ l’hanno recuperata, ma per diversi giorni i pesci sono saltati da soli direttamente nelle padelle dei locali, senza bisogno di pescarli! Tu, invece! Yale! E ora che farai?”
Floyd fu turbato da quella notizia, che gli riportava alla mente quel momento buio della sua vita. Si riprese, spiegò di essersi iscritto ad un altro corso di studi, sempre a casa, all’SKC, ma il suo umore era cambiato.

Il ranger, ancora affascinato dall’incontro con il suo eroe, si voltò verso di me, studiandomi: “Sei la sua fidanzata?” Io deglutii, imbarazzata, Floyd si illuminò di un sorriso smagliante e mi avvolse le spalle con un braccio. “Bella coppia.” Mi studiò un po’, soppesandomi pensieroso: “Comanche?” Floyd si voltò verso la finestra, le labbra strette a trattenere il riso, io spalancai gli occhi, lo guardai innocente: “Solo un pochino…”
L’altro annuì, fiero di sé: “Lo dicevo! Non sbaglio mai ad identificare una Nazione!”

Poco dopo ci diede un passaggio fino a casa: avevamo allungato parecchio il tragitto ed era ormai l’imbrunire. Maggie ci accolse preoccupata: aveva diluviato tutto il giorno e noi sembravamo svaniti nel nulla, ora tornavamo in un’auto dei rangers e dalla direzione opposta a quella verso cui ci eravamo diretti e lei era preoccupata come una chioccia.

Spiegammo rapidamente cosa fosse successo, Floyd tagliò corto perché voleva salire subito a togliersi di dosso quella roba. Corse nella sua stanza salendo i gradini tre a tre, io mi fermai a raccontare qualche dettaglio in più, poi salii a farmi la doccia.
E lui si infilò nel bagno con me, strizzandomi l’occhio. Passarono un paio di minuti e la voce di Maggie tuonò fuori dalla porta: “Floyd Archangel Twobears! Lo so che sei lì dentro!” lui mi guardò con gli occhioni sgranati, deglutì e si fece più piccolo che poteva.
“FLOYD!!” tuonò la voce da sergente: “Avanti, sei lì?”
“NO!” gridò lui di rimando.
“ESCI IMMEDIATAMENTE! È UN ORDINE!”
E lui schizzò fuori, così com’era, bagnato, insaponato e come mamma lo aveva fatto. Spalancò la porta del bagno e mi raggiunse lo strillo di Maggie: “Hhiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiikkkk!!!!!! SCREANZATO!!!”
Lui rientrò a volo, si infilò mezzo scivolando sotto la doccia ridendo come un matto. Immagino che l’espressione basita con cui lo guardavo non fosse proprio d’aiuto, perché non solo non smetteva di ridere, ma stava raggiungendo di nuovo un pericoloso livello preconvulsivo.
“Ma sei impazzito?”
“Ho…ho solo vaaddo guello ghe…dii…ceva” e giù a ridere.
“Ma non potevi almeno metterti un asciugamano in vita?”
“E berghé? Mi conosc…sce da guanno sono na ahahahto, mi ha pure cambiato i pannolini!”
Gli posai le mani sulle spalle, guardandolo molto intensamente negli occhioni lacrimanti: “Floyd…vedi, non so come dirtelo senza urtare la tua sensibilità, ma…sono passati circa ventitré anni dal tuo ultimo pannolino”
Lui sedette a terra, sotto il getto d’acqua calda, continuando a tenersi la pancia in mano: “Beh, che differenza c’è? Sono solo cresciuto un po’!”

Sembrava che il malumore gli fosse passato, in quel momento, e avesse del tutto dimenticato la chiacchierata con il ranger, ma, come era prevedibile, così non era.
L’uomo ci aveva detto che un altro dei suoi aggressori era finito in grossi guai per frode fiscale, mentre non sapeva nulla degli altri tre.
Loro non avevano fatto un giorno di galera, Floyd era stato piantonato per quasi un mese in un ospedale civile, due settimane nell’ospedale del carcere e sei in una cella di isolamento prima di riuscire ad ottenere il cambio di pena e la scarcerazione sotto cauzione astronomica.
Avevo indagato con Maggie, che mi aveva confermato l’amputazione di un quarto di fegato a causa delle lacerazioni.
Il coltello che lo aveva colpito era di quelli da caccia, con la doppia lama seghettata e, per evitare che penetrasse profondamente, pur nella furia che lo aveva reso praticamente insensibile, Floyd era riuscito a scansarsi e deviare il braccio dell’aggressore, ma il coltello si era prima girato dentro il suo fianco e poi era uscito in diagonale, lacerandogli malamente le carni.
Lui non faceva cenno alle proprie ferite quando a fatica si apriva nel raccontare, come non contassero. Parlava di come avesse perso il controllo, di come si sentisse spaventato dalle sue stesse azioni, del male inflitto. Non di quello che avevano inflitto a lui.
Lui furioso, terrorizzato che potesse essere fatto del male a sua sorella, solo, disarmato.
Loro malvagi, crudeli, gelidi, determinati ed armati. Loro sapevano che continuando a provocarlo con le minacce alla piccola Bianca, sarebbero riusciti prima o poi a fargli perdere il controllo, e quello era esattamente ciò a cui miravano.
Ora, sei anni dopo, di tre di loro non si avevano notizie, uno, se non era in galera, sicuramente si trovava in guai grossi, l’altro era finito in mare con tutta la sua auto di lusso e chili di droga, mentre Floyd non solo si laureava a pieni voti, ma si guadagnava anche la borsa di studio per un master in una delle più prestigiose Università al mondo.

Maggie non gli rivolse la parola tutta la sera, ancora offesa, rifiutò più volte di mettergli il cibo nel piatto (mentre lo metteva a tutti noi), di passargli pane, sale, olio o quanto potesse servirgli, attenta a tenere tutte queste cose all’altro capo del tavolo e, dopo cena, preparò la tisana soltanto per tre.
Il vecchio Jack si divertiva un mondo a quel teatrino, io facevo da cuscinetto, un po’ vergognosa in quanto sua complice, ma la mia punizione si limitò ad occhiatacce e labbra strette di disapprovazione.
All’ora di andare a dormire Floyd si infilò silenziosamente nella sua camera con un bacino della buonanotte più casto di quello di un novizio alle Meteore.

Durò fin verso l’una di notte.
Poi la porta si aprì senza rumore e qualcosa sgattaiolò dentro, scivolò sul pavimento e si infilò sotto le mie coperte. “Scusami, sai, oggi ho preso un sacco di umidità. Avevo freddo”
“Ma per forza, potevi metterti una coperta, no?” sentii la perplessità nel buio: “Eh?”
Ridacchiai: “Ami vivere pericolosamente, eh? Stasera hai dovuto rubacchiare il cibo dalla pentola, domani ti lascerà senza colazione, senza pranzo, senza tutto.”
Sbuffò. Mi abbracciò come fossi stata un cuscino e si sistemò per bene. Due minuti dopo fece volare via una coperta.
Perché, ovviamente, LUI, ora, aveva caldo.

Pioveva ancora quando venne in mattino. Poco, ma in quel modo insistente che promette di non mollare per almeno i prossimi quattro o cinque giorni.
Non c’era granché da fare e, quando mi svegliai, la casa era ancora immersa nel silenzio: “Maggie è molto silenziosa, oggi” commentai: “Non si è ancora alzata. Forse dovrei tornare di là, ma non credo andrà a controllare dove sono: mi tiene il muso, quindi farà finta di niente.” Gli scappò da ridere, un riso appena accennato, malizioso e birbante. “Sei  un mostro, lo sai?” il sorriso si allargò di più.
“È stato buffo!” sogghignò. “E comunque, lei è troppo bianca! Si comporta troppo come le signore per benino del New England, va rieducata!”
Poi tornò serio. Fissava la pioggia come ipnotizzato: “Devo svegliarti?” domandai dopo un po’. Lui si riscosse, un po’ imbarazzato: “No, io…pensavo.”
Capivo che aveva delle cose da buttare fuori, ma, come spesso accadeva, faticava a trovare una via per farlo.

Un giorno lontanissimo, un paio di settimane prima, Robert mi aveva raccontato come fosse di carattere profondamente chiuso e riservato, nonostante amasse scherzare, fosse divertente e giocherellone.
Mi aveva raccontato di come fosse rimasto sconvolto dalla morte violenta della sorella, ma non avesse mai versato una sola lacrima, tanto che la piccola Bianca, una volta, gli era saltata addosso picchiandolo e gridandogli di tornare, perché da settimane era chiuso in un mutismo assente, lontano da tutto e da tutti, in una disperazione cui non riusciva a dare alcuno sfogo.
Me lo raccontava mentre Floyd faceva la spola tra la soffitta e la cantina, a Boston, durante quel suo correre su e giù ossessivo in cui scaricava la sua claustrofobia.
“Sai qual è la cosa peggiore che puoi fare ad un Inuit?” Avevo riflettuto per un po’, frugando nella memoria: “Imprigionarlo in un posto chiuso e senza finestre”
Robert aveva annuito: “Esatto. Per quanto questo sia macroscopico in quella Nazione, non è soltanto una loro caratteristica. Molti di noi soffrono la stessa sindrome.
In modo più moderato, soprattutto oggi che siamo abituati ad ore di scuola, uffici, là seduti come imbecilli davanti al nulla, ci abituiamo, per forza, ma la sindrome da separazione dalla Terra rimane. Abbiamo bisogno di aria, di cielo e In lui è piuttosto accentuata, come vedi!”

Oltre allo stare rinchiuso, soffriva l’inattività: come spesso succede alle menti troppo grandi, tendeva all’iperattività e quel forzato stato di inerzia lo mandava in crisi. Soltanto dopo, in quei giorni al collage, avevo scoperto che era in grado di restare immobile per un tempo interminabile, sospendendo quasi ogni funzione vitale, rallentando il respiro, il battito delle ciglia, in attesa di un pesce o un qualsiasi animale o semplicemente a fissare la nebbia o la pioggia: sembrava davvero restare sospeso in un punto d’incontro tra i mondi, assente e presente contemporaneamente in una sua multidimensionalità.
“Che cosa ti turba, ragazzo del Montana? Il ranger era entusiasta, invece di un prigioniero da tenere d’occhio, ti considera un eroe. Dovresti esserne fiero, no?”

Lui ci rifletté per un po’, cercando di trovare voce ai pensieri: “Io ero un ragazzo difficile. Io ero quello povero, emarginato, con le mani screpolate e i calli, che studiava seduto in cima a muri di edifici ancora a metà, con le gambe penzoloni nel vuoto e pane fritto in mezzo ai denti. A volte mi facevo la doccia nella palestra della scuola per non consumare acqua calda a casa e lasciarla alla mamma e a Bianca.
Loro avevano tutto: auto lussuose, abiti, scarpe sempre lucide, orologi diversi per ogni giorno della settimana o quasi…loro potevano fare qualsiasi cosa, arrivare ovunque senza fatica. Eppure tutto ciò cui aspiravano era dominare gli altri con la prepotenza, giocare con lo sfigato di turno come con un pupazzetto del luna park.
Io sono finito in sala operatoria tutto tagliuzzato e dopo venti giorni mi hanno trasferito nell’ospedale del carcere e poi di nuovo in isolamento in una cella appena più grande di me. Furono i miei legali a spingere per l’isolamento per proteggermi e perché fossi lasciato riposare, perché ero convalescente.
In quelle settimane ho studiato a memoria la Divina Commedia, l’unico libro che mi avessero portato, dicendomi che era in tre volumi e che ne avrei avuto per un po’, per tenermi occupato.
Mi sembrava un testo assurdo, privo di ogni logica, modellato su un universo che mi era ignoto, che diceva che sarei finito all’inferno perché non credevo nel dio degli invasori.
E poiché avevo fatto in modo di annullare un battesimo che mi era stato imposto, probabilmente mi aspettavano pene inimmaginabili perfino per il tizio che aveva scritto tutta quella roba.
All’inizio lo lanciai contro il muro, poi imparai a trovarlo divertente, poi mi resi conto di quanto i bianchi fossero soffocati e limitati da quel sistema assurdo di credenze e feci in modo di imparare il più possibile. Dormivo, leggevo e assorbivo informazioni, oppure guardavo da quella piccola finestra, piegato in due dal dolore di stare là dentro. Mi mancava l’aria, ma dovevo resistere. Io non avevo bisogno di morire per conoscere l’inferno…avrei avuto qualcosa da insegnare, a quel Dante!
Poi sono uscito, grazie a quella cauzione per cui praticamente i membri di  tutte le tribù dello stato di Washington avevano fatto una colletta, anche se non mi conoscevano.
Mi sentii amato. Sono uscito e sono andato avanti, per me e per onorare tutti coloro che mi abbracciavano senza conoscermi. Ho avuto molta fortuna e molta benedizione.
Se non avessi avuto un aspetto che alcuni considerano interessante, presumo sarei stato soltanto uno studente lavoratore e che le cose sarebbero state molto più difficili, ma sarei andato avanti lo stesso: eravamo abituati alle difficoltà, molto più che ai colpi di fortuna e io avevo un debito di gratitudine.
Oggi mi trovo in tasca una laurea, un master, sto per iniziare un nuovo corso di studi e ho sistemato i miei genitori, i miei fratelli, ho due nipotini, penso di avere tutto o quasi quello che si può desiderare, almeno secondo i miei canoni.

Loro non dovevano che tendere la mano e prendere ciò che volevano. E quello che sono riusciti a fare è stato questo. Non hanno imparato niente. Non so, pensavo che quelle esperienze potessero avere avuto su di loro un peso, invece, a quanto pare hanno, continuato in quella direzione, come il figlio del giudice ha continuato a correre lungo la strada fino a raddrizzare una curva e finire in mare. Non si sono posti domande? Non si sono guardati attorno? O forse, poiché in galera ci sono finito io, hanno pensato di essere padroni del mondo, di avere ragione, di poter fare tutto ciò che volevano? Cos’è successo, Mary? Perché non hanno cambiato strada?”

Mi fece molta tenerezza: migliaia di anni prima, avevo incontrato un altro che sapeva provare compassione perfino per chi attentava alla sua vita.
“Perché loro erano così. Perché tu sei una grande anima e loro persone meschine, grette e vuote, solo ricche di denaro e basta. Il mondo è zeppo di gente del genere. E poi è pieno di falsi onesti, che si comportano bene solo per timore di essere beccati o di finire all’inferno.”

Mi sentivo dilaniata: lo adoravo, eppure una parte di me si sentiva trascinare via da lui.
 Lo guardavo negli occhi e non lo riconoscevo. Erano occhi stupendi, dolci, profondi, magici, ma non erano i suoi, per quanto tentassi di barare.
Lui stesso sosteneva di non essere la persona che cercavo. Non sentivo di essere arrivata alla fine della mia ricerca, sentivo invece che, se fossi rimasta con lui, avrei perduto qualcos’altro per sempre. E io non volevo perderlo. L’idea di perdere Floyd mi uccideva, l’idea di perdere quell’altro essere era semplicemente insostenibile. Era come essere legati a due cavalli in corsa in direzioni opposte; semplicemente non avrei potuto sopravvivere.
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Passarono alcuni giorni. Il tempo era diventato definitivamente autunnale e nebbioso, ma un paio di volte andammo ugualmente al lago a scivolare sulle acque incantate in cui si specchiava la nebbia.
Con Floyd ridevo spesso, giocavamo come ragazzini attorno al cottage, ci nascondevamo, ci facevamo scherzi e ne facevamo un sacco a Maggie, povera donna!
Chi ci avesse visti avrebbe pensato ad una meravigliosa coppietta di innamorati e questa era sicuramente la verità, solo non era tutta la verità: la ferita che portavo dentro di me, che tentavo disperatamente di ignorare, sanguinava ogni giorno di più.
Lui lo leggeva nei miei occhi, sono certa che sentisse il mio dolore nel suo corpo.
Io ne ero dilaniata, lui distrutto e impotente.
All’epoca ritenevo che, con un po’ di sforzo, certamente sarei riuscita a stare meglio e, un po’ alla volta, quel senso di frammentazione si sarebbe attenuato.
Floyd parlava di vita insieme, di bambini, di futuro, era pronto a mettere in discussione tutto e cambiare se stesso per me e io avrei dovuto essere la donna più felice del mondo, eppure sentivo quel richiamo disperato dentro di me e tante volte non ero in grado di nascondere il mio malessere.

Un anno e mezzo prima avevo smesso le regressioni in un momento della vita di Iset e del Faraone pieno di rivelazioni che avevano del fantascientifico, ma non sapevo cosa fosse successo dopo, se non quei frammenti zoppicanti che si manifestavano nei miei incubi o la raffazzonata versione ufficiale dei libri di testo e non volevo tornare a cercare, non volevo tornare in regressione perché sapevo che avrei dovuto affrontare cose terribili. “Hanno ucciso la sua anima!” avevo gridato piangendo vent’anni prima. No, non volevo riprendere quel sentiero, mai più.

Una mattina discesi e trovai Floyd al telefono.
Maggie se ne stava in disparte, lavando i piatti della colazione di poco prima con le labbra strette.
Non capivo cosa stesse succedendo, perché Floyd parlava in lingua Salish, ma aveva gli occhi lucidi e il viso devastato dal dolore.
Già al risveglio lo avevo trovato a fissare oltre la finestra con lo sguardo immobile e una ruga tra le sopracciglia, ma non aveva dato spiegazioni.
Mi aveva sorriso, mi aveva abbracciata ed era rimasto un bel po’ ad accarezzarmi con il viso appoggiato ai miei capelli.
Terminò la chiamata e uscì, senza una parola, né uno sguardo.
Era il nove di ottobre.
Guardai Maggie interrogativa, non osando seguirlo o fare domande.
Lei sedette e io presi il posto di fronte a lei: “Oggi è…sarebbe il compleanno di sua sorella” esordì Maggie.
Deglutii. “Sua madre è così triste, in questi giorni. Lo è nell’anniversario della sua morte, e ancora di più in quello della sua nascita. Sono passati tredici anni, ma non riesce a superarlo, immagino non lo farà mai. Nemmeno Floyd. Sai, era in simbiosi con la sorella maggiore.” .
Alzai gli occhi oltre la finestra: lui era seduto su una roccia, nella nebbiolina fredda di quei giorni, con solo un maglioncino leggero, incurante di ciò che lo circondava.
“Vedi, sua sorella era una gran bella ragazza, molto matura e riflessiva.
Alla nascita di Bianca, inattesa, era diventata una mamma supplente per i fratellini. Il maggiore aveva appena undici mesi meno di lei, e le era molto simile nel carattere: dolce, riflessivo e diligente, studiava e aiutava il papà nel lavoro, mentre lei si curava dei fratellini e, se Bianca era ancora molto piccola, Floyd era abbastanza grande da sviluppare con la sorella un legame viscerale, perfino più che con la madre.
Avevano dei loro codici, una sorta di linguaggio cifrato fatto di gesti, di sguardi, di comportamenti, per cui si capivano al volo. Dove Floyd era ermetico per tutti, era limpido e chiaro per la sorella.
Fino a quel giorno.
Era terminato l’anno scolastico e lei e la sua migliore amica, Annie, lo avevano superato brillantemente, così, per premio, i genitori prestarono ad Annie la loro auto di sesta mano e permisero alle due ragazze di fare una gita da sole, regalando loro perfino un po’ dei loro pochi risparmi perché potessero comprarsi quello che volevano: avevano sedici anni, erano ormai signorine e se lo meritavano. Dovevano stare via una settimana, dieci giorni al massimo, in una specie di iniziazione alla vita adulta.
Loro partirono felici per la loro avventura, sole per la prima volta. Si sentivano davvero grandi.
Hope aveva dei capelli stupendi, che tutti le invidiavano: un castano caldo, dai riflessi brillanti quando il sole li attraversava, lunghi fino ai polpacci. Quando passava, con quella treccia spessa da riempire una mano che le arrivava dietro le ginocchia, la gente si voltava a guardarla incantata…o invidiosa. A volte le ragazze la fermavano per strada per farsi dare consigli su come avere capelli almeno lontanamente simili ai suoi. Lei si schermiva, un po’ vergognosa, perché non è che facesse chissà cosa, era un dono, capisci, ma cercava comunque di rispondere come poteva.
Fu proprio la sua splendida treccia la sua rovina.
Quel giorno lei e l’amica si fermarono nei pressi di un grande centro commerciale, ma il parcheggio era pieno e i pochi posti liberi erano al sole a picco, così cercarono un posto all’ombra, dove quell’auto vecchia di mezzo secolo non diventasse un forno.
Un uomo indicò loro il vicolo dietro il centro commerciale, raccomandandosi di fare attenzione, perché era una via di magazzini, un posto dove potevano fare brutti incontri, ma erano le due del pomeriggio, c’era il sole, le ragazze erano tranquille: non poteva succedere niente, pensavano. E poi, chi poteva avere mire criminali su una macchina che stava insieme con lo spago?
Non avevano notato che quei perdigiorno le stavano seguendo, soprattutto attratti da quella treccia spettacolare e dalla grazia delle due ragazze.
Parcheggiarono e si avviarono verso il piazzale, ma i tre…quattro, c’era un altro ragazzo al principio, iniziarono ad infastidirle.
Loro camminarono più in fretta, poi, quando uno cercò di mettere le mani addosso ad Annie, lei gli diede uno spintone, afferrò la mano di Hope corsero via, ma uno riuscì ad afferrare la treccia di Hope e la strattonò facendola cadere. Annie corse via e, inseguita dal quarto tizio, gettò a terra un grosso bidone alle proprie spalle per bloccare ai balordi la strada, ma questi, invece di trovarsi in difficoltà, ne approfittarono per rovesciare gli altri bloccando del tutto il passaggio, poi presero a molestare la prigioniera.
Hope, però, era una giovane donna Salish Kootenai! Iniziò a gridare come un’aquila, a tirare calci, mordere e graffiare come una belva, così, per “farla stare buona” uno le infilò il coltello nello stomaco. Era colpa sua, lei li stava assalendo, sai, loro volevano solo scherzare…la gente intanto cominciava ad accorrere, trovando i bidoni rovesciati ad intralciare la strada, alcuni presero a spostarli, altri corsero all’altro capo del vicolo, ma i tre, in quel breve lasso di tempo, trovarono divertente usare il coltello per scotennarla completamente. Da viva, naturalmente.
Poi saltarono sulle moto e scapparono facendo roteare la treccia sanguinante come un trofeo.
Durarono pochi attimi, la folla era così sconvolta da quella barbarie che non ci pensò due volte a circondarli e bloccarli. Rischiarono il linciaggio, quel giorno, e sarebbero finiti peggio se le due vittime non fossero state Native.
Hope morì parecchie ore dopo, in ospedale. Erano arrivati i genitori e i due ragazzi, medici e parenti non volevano che Floyd la vedesse, ma lui scappò dalle loro mani per andare da sua sorella. Le rimase vicino per molte ore, anche dopo che se ne fu andata, finché suo padre lo portò via di peso.
Al processo i tre si difesero dicendo che loro non volevano ucciderla, ma che lei li aveva aggrediti a calci morsi e pugni, la difesa presentò fotografie dettagliate dei lividi e dei segni dei morsi e dei graffi. Per fortuna nessuno nella giuria fu così stupido da provare un minimo di pietà, anzi, le scuse accampate rendevano la faccenda ancora più vergognosa…durante l’interrogatorio l’avvocato domandò perché, se avevano agito d’impulso per difendersi, avessero compiuto un gesto così orribile come l’amputazione del cuoio capelluto della giovane e loro risposero che non pensavano fosse grave: in fondo era solo un’indiana e loro lo facevano.
Solo quello che era corso dietro ad Annie e poi non aveva preso parte all’assassinio di Hope, rimase zitto.
Alla fine del processo il giudice ricordò che l’uso di scotennare i nemici uccisi e sottolineò uccisi, venne introdotta dai francesi in guerra con gli inglesi, che volevano una striscia di cuoio capelluto di ogni nemico così da sapere quanti ne fossero stati effettivamente abbattuti e che gli inglesi, a loro volta, introdussero la stessa pratica nei confronti dei francesi.
Gli Indigeni diedero poi attributi religiosi e di valore ad una pratica sistematicamente usata dalle popolazioni eurasiatiche fin dall’antichità, già citata da Erodoto. Dubito che quelli avessero mai sentito nominare Erodoto, naturalmente.
Si presero trent’anni a testa.
Il quarto prese dodici anni, ma uscì per buona condotta sette anni dopo. Dal carcere mandò diverse lettere alla famiglia di Floyd, chiedendo perdono, finché, una volta fuori, chiese di incontrarli, ma i genitori risposero che non se la sentivano. Non era cattiveria, soltanto non se la sentivano.
Il fratello di Floyd, invece, tempo dopo lo incontrò fuori da Flathead, da solo. Floyd in quel periodo non poteva allontanarsi da Seattle, ma io non credo sarebbe andato.
Oggi quel ragazzo si occupa di bambini disabili e di famiglie disagiate o orfani, soprattutto Nativi. Per questo Floyd è rimasto così colpito dal racconto del ranger, l’altro giorno: probabilmente pensava che fosse successo qualcosa di simile anche ai suoi assalitori, che ci fosse stato un qualche riscatto.”
Avevo ascoltato tutto sentendo l’orrore che saliva, via via trasformandosi in nausea, e ora piangevo come un vitellino senza riuscire a fermarmi.
Vedevo Floyd, macchia azzurrina nella nebbia, immobile.
“Lavati la faccia, hai gli occhi rossi e gonfi” disse amara Maggie: “Poi portagli una giacca a vento, sta ricominciando a piovere”

Poco dopo mi arrampicai sulla roccia e gli posai un k-way sulle spalle. Lui infilò automaticamente le braccia nelle maniche, mi guardò per un attimo e mi sedetti accanto a lui. Allora appoggiò la testa alla mia spalla, lasciandosi abbracciare.
Pregai in cuor mio perché potesse tornare ad essere davvero felice: forse sua sorella poteva tornare da lui, in qualche altra forma. Forse un giorno avrebbe potuto essere sua figlia, per esempio, e riscattare il dolore dei suoi cari.
Forse sentì il mio pensiero, perché lo sentii sorridere nel mio abbraccio.
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Non so se fosse la nebbia e la pioggerellina che da diversi giorni sembrava essersi affezionata a quella zona, ma eravamo tutti piuttosto apatici: sembrava che nessuno di noi avesse voglia di cambiare quella situazione di stallo, laggiù in quel rifugio raccolto e caldo tra acque limpide e foreste, lontani da tutto.
Mi veniva un senso di panico quando mamma o papà mi telefonavano chiedendomi quando sarei tornata: la sola idea di dover rivedere quella città così british e vintage dall’anima profondamente vile, bacchettona, bugiarda, mi dava il voltastomaco.
Sapevo che c’erano tante persone carine, là, ma sapevo che, se la gente poteva essere disposta superare il gretto disprezzo per la popolazione nera, non era disposta a superare l’odio ed il terrore verso “i selvaggi”.
Ne erano terrorizzati, mascheravano la loro paura con disgusto e odio cieco, sapendo che quella gente era più forte di loro, ancora, comunque e nonostante tutto, e sapendo, per quanto non lo avrebbero mai e poi mai ammesso, di essere intrusi a casa loro, nient’altro che pezzenti coloni dopo secoli.
I miei telefonavano, mi chiedevano come andasse, dicevano che l’ufficiale che seguiva il caso chiedeva il mio ritorno e la mia testimonianza, mi fecero anche parlare con lui, una volta, e l’uomo mi rassicurò dicendo che molte accuse erano ormai cadute, ma dovevo chiarire la mia posizione e quella dei miei compagni per poter chiudere il caso.
Robert era un soggetto sospetto, avrei dovuto dire di non essere al corrente con i suoi legami con l’AIM e dare le generalità del ragazzo più giovane, ma il rischio per me era minimo, soprattutto se mi presentavo spontaneamente.

“Non devi preoccuparti, Mary” mi disse Floyd quando fummo in camera: “Il ragazzo di cui devi dare le generalità è del tutto incensurato.
Le accuse sono di aggressione, atti osceni, uso di droghe e violenza, ma tu puoi testimoniare per quasi tutto e per quanto riguarda l’aggressione, io non li ho toccati fisicamente e non si può condannare qualcuno per attacco sciamanico” disse ridacchiando.
 “Diranno che mi avete drogata e influenzata. Mi chiederanno dove sia stata per oltre un mese! Io non voglio tornare a Boston, Floyd! Andiamocene! Andiamocene ora, andiamo a Flathead, subito! Non tornerò mai più a Boston e nessuno se ne ricorderà, tra un po’!”
Floyd non insistette, quella volta, ma era preoccupato: il mio rifiuto di testimoniare metteva nei guai Robert e Maggie.
Sapevo che il mio comportamento era egoista.
Sapevo che loro non se lo meritavano, ma in quei giorni, il mio malessere era tale da non permettermi di agire.
“Mi hanno dato della drogata, della troia, solo perché ero con voi! Io non voglio vederli! Hanno inventato delle storie assurde, solo per…perché? Dimmi, per quale motivo? Cosa ci guadagnano?”
Lui ascoltava in silenzio. Era triste, nonostante ci fosse abituato. “Si sentono importanti. Le loro vite sono così vuote ed inutili, che ogni diversivo le movimenta. Inventare brutture su qualcun altro li fa sentire grandi, inventare di aver fatto parte di qualcosa di pericoloso e terribile li fa sentire divi, possono pavoneggiarsi. Quei pochi minuti di una sera di settembre saranno per loro momenti epici da raccontare per il resto delle loro povere vite: diranno di avere affrontato un’orda di selvaggi scappati dalle riserve, inventeranno atti di incredibile coraggio…chissà, magari un giorno ci sarà un monumento ai poliziotti, che li rappresenterà belli, magri e atletici, nell’atto di schiacciare sotto i piedi una dozzina di selvaggi brutti, sporchi e ovviamente ritardati e salvare la donzella rapita. La storia è piena di episodi così, no?”
“IO NON VOGLIO FAR PARTE DELLA LORO COMMEDIA DEL C…” mi posò le dita sulle labbra e mi baciò per evitare che il mio linguaggio diventasse eccessivamente sconveniente.
Intanto, però, non mi risolvevo a partire.
Ero felice con lui, la nebbia mi avvolgeva in un abbraccio protettivo, mi allontanava dal mondo ostile e odioso, là fuori.”

Avevo ascoltato tutta quella storia, incredibile nell’incredibile, senza fiatare.
Pur senza averlo neppure mai visto, probabilmente mi ero appena presa per Floyd una cotta colossale e mi accorsi di guardarla con la bocca aperta, un’altra volta. “Ma…Marabel, capisco che là al cottage foste in un  mondo tutto vostro, un nido d’amore, ma…tornare, risolvere la questione e poi partire per il Montana non era una prospettiva migliore? Avresti avuto lui, una casa e una vita con lui e nessun timore di problemi con la giustizia. Non riuscivi a superare la repulsione per quello che non era che un episodio isolato nella vostra vita?” chiesi con enfasi, pensando che avrei potuto andare nel Montana, per le vacanze…magari fare un saltino a Flathead a buttare un occhio.
Si, ammetto che Floyd fosse grandicello per me, facendo due conti, ma…
Marabel era sul mio divano, il suo gatto sulle ginocchia, il mio di fianco che se la corteggiava spudoratamente.
Restò per un pezzo in silenzio, gli occhi abbassati sulla testolina chiara che si stava godendo le coccole.
“Il fatto è che forse non volevo andare nel Montana. Il fatto è che io sapevo che quella scelta mi avrebbe separata definitivamente da tutto il resto. Ero pazza di Floyd, ma non potevo lasciare il mio…il mio Faraone? O chi? Lo avevo visto in altre forme, in altri abiti, in altri tempi, mi ero sentita così profondamente unita a lui, così totalmente fusa in lui e poi…e poi, senza nemmeno accorgermene, mi ero innamorata di un altro. Non uno qualsiasi, no! Un ragazzo come ce ne sono pochissimi al mondo…intelligentissimo, splendido, coraggioso, onesto, divertente, che aveva sofferto terribilmente, ma che era capace di ridere, di gioire di qualsiasi cosa, colto, paziente, misterioso e, alla fine di tutto , magico, l’unica persona al mondo in grado di comprendermi totalmente, prima ancora che mi comprendessi io.
L’unico in grado di darmi forza, sicurezza in me, in grado di capire davvero visioni, sogni, esperienze, l’unico con cui avrei potuto condividere appieno il mio sentire, più che con l’ipnotista e di una sfilza di studiosi lunga dal Maine a New York City.
Affettuoso, tenero, gentile, totalmente matto, tanto matto da starmi dietro senza problemi. Perfetto. La più grande ed assoluta tentazione che si possa incontrare sulla propria strada.
Se fosse stato un bellissimo ragazzo borioso, superficiale o prepotente, non sarebbe stata una tentazione.
Se fosse stato malvagio, un diabolico essere sotto le spoglie di un angelo, non sarebbe stata una tentazione.
Se fosse stato un mite, un innamorato senza speranza, non in grado di comprendermi e sostenermi , non sarebbe stata una tentazione. Se fosse stato chiunque o qualunque altra cosa, non sarebbe stato una tentazione.
Avevo incontrato diversi ragazzi lungo gli anni. Alcuni molto intelligenti, altri sportivi e protettivi, altri simpatici e affettuosi, altri belli e aitanti, alcuni con tutte queste doti. Nessuno mi aveva toccata più di tanto.
Non so se avessi lasciato in qualcuno di loro delle ferite, io non li ricordo, non ricordo il loro volti, non le loro voci, a volte nemmeno i loro nomi.
Sono ombre che attraversano la mia vita come nubi che passano attraverso un cielo indifferente.
Floyd non era questo. Era una forza primordiale, una magia arcaica e potente, una sorgente pura, limpida ed incorrotta. Era dolore che si trasforma in comprensione, in passione, in generosità, era rabbia accettata e sublimata in una lotta di ideali, in protezione per la sua Gente.
Era speranza, era voglia di costruire: come suo padre per anni aveva costruito grandi palazzi in città, così lui voleva ricostruire la sua Gente e costruire con loro un futuro luminoso e forte.
Era promessa, un gioiello per il suo Popolo, qualcuno di cui andare fieri e lui voleva, ad ogni costo, renderli orgogliosi.
Era amore, poiché, sopra ogni cosa, aveva amato la sua meravigliosa famiglia e ne era stato amato, protetto, appoggiato.

Per quanto non volessi accettarlo, per quanto cercassi in ogni modo di non vederlo, sapevo che lui non era per me, né io ero per lui. Sapevo che, prima o poi, avrei dovuto affrontare la verità e ne fuggivo.
In quel periodo passato con Floyd non avevo mai dimenticato quell’altro Essere, né i ricordi struggenti che mi accompagnavano dal primo giorno della mia vita, né l’Amore che provavo per Lui da prima che il tempo esistesse, eppure…ci sono persone, a volte, così splendide, così meravigliose e care, che come puoi non amarle?
Ti attraversano la strada e ti prendono il cuore, senza fare nulla, senza neanche volere, semplicemente per la loro divina bellezza.
Floyd era questo e, in virtù di tutto questo, era la più grande delle tentazioni possibili.
Avrei potuto perdermi per lui, dimenticare tutto, passato, futuro, futuri e passati probabili o almeno possibili, ed era quello che io mi imponevo di volere, ma non mi apparteneva.
Ero innamorata del suo essere innamorato di me. Mi sembrava incredibile, immeritato, insperato, mi sembrava un dono così grande, dopo tanta solitudine, tristezza e tormento nei miei eterni dubbi, da non poterci credere.
Ma la verità era che non mi apparteneva. La verità era che, mentre si curava di me, mentre le sue carezze curavano le mie ferite, ne scavavano involontariamente una più profonda.
Era inutile che mi dicessi che non mi importava, non più. Era inutile che cercassi di non ascoltare il grido dentro di me e facessi progetti di una vita con quel ragazzo. La ferita che mi spaccava in due si allargava sempre di più.

Dopo la data del compleanno di sua sorella si era fatto più triste. Pensavo fosse un po’ la ricorrenza, un po’ il clima nebbioso e umido, un po’ la nostalgia di casa, e cercavo di prendere coraggio di partire.
Passavamo insieme praticamente ogni minuto del giorno e della notte, perfino Maggie si era arresa e non cercava più di sgridarci.
Era inquieta, però e, all’epoca, non ne capivo il motivo.
Molti anni prima, Maggie aveva sposato un cugino del padre di Floyd e, anche dopo il naufragio del matrimonio, era rimasta molto legata alla sua famiglia.
Non avendo avuto figli, si era affezionata profondamente ai ragazzi, soprattutto a Floyd e Bianca, ancor più dopo l’assassinio della loro sorella, era quindi normale che si preoccupasse tanto per lui, per tutto ciò che lo riguardava, ma non mi andava giù che non fosse contenta del nostro legame: era perché ero bianca? Non era forse mezza scozzese, lei? Non c’era il forte sospetto che avesse una storia con l’archeologo, che era pure di una decina di anni più giovane?
Il vecchio Jack, al contrario, sembrava più che soddisfatto di vederci assieme, ma ammetto che  lui fosse un po’ strano.

Man mano che i giorni passavano, mi facevo sempre più nervosa e ansiosa. Mi dicevo che avrei iniziato a preparare i bagagli il giorno stesso e ogni giorno rimandavo.
Floyd non mi rimproverò mai: restava in attesa della mia decisione, pur triste nel vedermi così, senza forzarmi e mi stringevo a lui come fossi stata sull’orlo di un baratro.
Avevo paura, una paura folle di perderlo e lui lo sapeva.

Una notte mi svegliai gridando.
In sogno qualcuno mi diceva che il Faraone era morto.
Quel qualcuno mi aggrediva, mi gettava a terra, io mi difendevo, ma stavo molto male, avevo la vista annebbiata, lottavo per non perdere i sensi. “Cagna!” gridava una voce acida e roca: “Sarai cancellata dalla storia, ti distruggeremo!”
Floyd mi afferrò, mi prese per le braccia, scuotendomi e chiamandomi, poi mi strinse forte quando lo riconobbi e scoppiai in lacrime. Tremavo nel suo abbraccio caldo: “Aiutami!” lo implorai: “Ti prego, Floyd, liberami, manda via tutto questo! Voglio essere libera, voglio stare con te! Tutto questo mi sta uccidendo!”
Lui non rispose, subito. Continuò a cullarmi e accarezzarmi a lungo prima di parlare e, quando lo fece, aveva la voce incrinata: “Non posso farlo, Mary” sussurrò nel buio: “Perché no?!?”
“Perché tutto questo è parte di te. Sei tu, capisci? Ha radici in ogni parte di te e se io tentassi di estirparle ti ucciderei.”
Ne fui terrorizzata: non avevo alcuna speranza? Ero condannata per sempre a rivivere cose accadute migliaia di anni prima, senza potermene liberare? Ero condannata a lottare contro i miei fantasmi?
“Io non posso andare avanti così, Floyd!” esalai incredula: “Lo so.” Rispose.

Passarono un paio di giorni e non ebbi più sogni o sensazioni, pareva che, improvvisamente, tutto si fosse chetato. Mi sentivo leggera, quasi euforica: forse, dopotutto, il mio bellissimo stregone era riuscito a liberarmi da quella maledizione.
Vedendomi felice sorrideva, mi pareva fiducioso, ma a volte socchiudeva gli occhi, studiandomi: “Va tutto bene” gli dicevo. “E ti prometto che, appena mi abituo all’idea di poter stare lontana da te, vado a Boston. Ce la faccio, davvero!” ne ero convinta, in effetti.
Avremmo risolto tutto e poi via, nel Montana, dove avremmo messo su casa, fatto un paio di piccoli stregoni, saremmo stati felici. Un bambino e una bambina, volevo. Un bambino uguale a lui e una bambina che non avrebbe avuto i miei problemi, che sarebbe stata una brava nipotina e avrebbe reso felici e orgogliosi i nonni.

Era ormai fine ottobre, il freddo gelido del Canada aveva sostituito nebbia e pioggerellina, la galaverna si posava sul mondo attorno a noi e un paio di volte aveva nevicato.
C’era più neve a Flathead, ma gli aerei atterravano piuttosto agevolmente, auto e corriere viaggiavano in modo normale; però il tempo stringeva.

Un mattino gelido e limpido, trovai Maggie discutere con Floyd sulla veranda, indicando un paio di grosse conifere dietro la casa: alcuni rami erano molto danneggiati e rischiavano di cadere sul cottage, secondo Floyd uno degli alberi poteva cadere durante le nevicate. Decise di potarli e di verificare se fosse il caso di tagliare quello particolarmente mal ridotto, così, da solo, passò la giornata arrampicato a potare, sistemare, segare.
Alla fine si scoprì che gli alberi da tagliare erano due e Floyd li abbatté, poi procedette alla sramatura e infine a trasformarli in ciocchi e sistemarli nella legnaia, unica parte del lavoro in cui fui in grado di aiutarlo.
La sera era sfinito e aveva preso un ramo in fronte, così aveva mal di testa.
Mangiò poco e, appena dopo cena, mi salutò con un bacio delicato e salì a dormire.
Più tardi mi resi conto che non era nella nostra stanza, così aprii cautamente la porta della sua e sbirciai: dormiva profondamente, abbracciato al cuscino e, stranamente, coperto fino al mento.
Ne fui un po’ sorpresa: perché restarsene di là, quando sarebbe stato coccolato e al calduccio accanto a me? Avrei voluto avvicinarmi, spostargli quella ciocca dalla fronte, ma non volli svegliarlo.
Il mio letto mi pareva gelido e vuoto, sentivo quel vuoto dentro e soffrivo l’idea che per giorni sarei stata così e  lui non sarebbe stato solo una stanza più in là.
Durante la notte fui svegliata dal secco sbattere di una portiera e dal rumore sommesso di un motore. Mi alzai allarmata, ma non vidi nulla nella nebbia fittissima, né fari, né luci di posizione. Perplessa restai a fissare il buio per un po’, poi mi convinsi che dovevo aver sognato: chi poteva viaggiare a luci spente in una simile nebbia e di notte?
Forse era passata un’auto lungo la statale poco lontano e nel sonno io avevo trasferito il rumore lì al cottage. Si, doveva essere così.
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La mattina era limpida.
Floyd non mi aveva raggiunta in tutta la notte, probabilmente per non disturbarmi, e mi mancava.
Mi vestii e preparai le mie cose, pronta a partire: gli avrei mostrato la mia buona volontà e avrei avuto coraggio, ma doveva giurarmi che sarebbe andato tutto per il meglio e che saremmo stati lontani pochissimo!
Guardai nella stanza: il letto era fatto, tutto in ordine, così corsi giù ansiosa di vederlo.
Maggie era in piedi davanti al lavandino e Jack stava facendo colazione, la giacca di Floyd non c’era: “Buongiorno, dov’è Floyd?” domandai.
“Floyd è partito” rispose Maggie laconica.
“Quando torna?”
“Non torna”
Sentii un serpente gelido strisciare lungo la mia schiena: “Scusa?”
“È tornato nel Montana.” Ripeté senza guardarmi. Il volto del vecchio era impenetrabile.
“Ma…ma doveva aspettarmi, io ho preparato le mie cose, lo so che ho tardato, ma…ok, cosa ti ha detto? Lo raggiungo là?” brontolai con un nodo in gola.
“No.”
“Oh! Viene a prendermi? Dove?”
“Da nessuna parte. Floyd se n’è andato, Marabel. Non tornerà e tu non andrai da lui”
“Mi stai prendendo in giro? Vuoi punirmi perché sono stata pigra? D’accordo, ma ora smettila, è uno scherzo orribile!”
Sedette davanti a me con un sospiro rassegnato: “Non è uno scherzo, Marabel. Floyd se n’è andato stanotte. Era disperato, ma doveva farlo prima che fosse troppo tardi, prima di non avere la forza di farlo. Era già troppo tardi, a dire il vero: Howard ha dovuto trascinarlo via di peso”
Ero incredula, sentivo uno sciame di api inferocite ronzare nella mia testa: “…m…ma…ma che stai dicendo? Questo è assurdo!”
“Non c’era altra scelta, Mary” intervenne la voce di Jack da una distanza infinita.
Vedevo tutto avvolto in un alone bluastro, sentivo i rumori ovattati, la bocca asciutta e stavo sprofondando in un terrore assoluto: era un incubo, il peggiore che avessi mai avuto! Ora mi sarei svegliata e lui sarebbe stato lì a consolarmi, come sempre.
“Smettetela!” strillai.
Vedevo i loro volti deformati danzare davanti ai miei occhi: “Mi dispiace, Marabel. Ho già chiamato tuo padre, era a New York, ma sta venendo a prenderti.”
“Mi…mi stai cacciando?? Mi stai addirittura cacciando?” Strillai, più forte di prima. La donna scosse la testa: “Non ti sto cacciando e non sei indesiderata, ma tu devi tornare a Boston e…e so che ora non desidererai più restare. Marabel, Floyd è un ragazzo d’oro, merita di essere amato, non di essere una scappatoia”
Scattai in piedi: “Ma che stai dicendo, vecchia strega?” urlai: “Floyd e io abbiamo dei progetti, vogliamo sposarci! Di che diavolo stai parlando? Tu lo hai mandato via, è così? Sei sempre stata contraria alla nostra storia, che cosa c’è, sei invidiosa? Pensi che io lo sporchi, che sporchi il suo purissimo sangue Nativo? È questo, vero? Ora capisco perché lo rimproveravi sempre, non volevi che questa bianca europea ve lo portasse via!”
Ero furiosa, volevo gridare le cose più terribili, volevo farle un male grande almeno quanto il mio.
“Marabel, non dire sciocchezze, sei sconvolta.”
“Certo che sono sconvolta! Tu ti sei intromessa, tu lo hai mandato via, sei stata tu!”
“Marabel!” la sua voce era improvvisamente autoritaria: “Non è stata una mia decisione. Ne abbiamo parlato, è stato Floyd a volerlo…eravamo d’accordo da giorni con Howard perché venisse a prenderlo. Lui sperava che tu partissi per troncare in modo meno duro, ma stava diventando troppo tardi. Stava male, se avesse tardato un solo altro giorno non ce l’avrebbe più fatta!
Se tu lo amassi, io ti porterei da lui, ti ci porterei in braccio a Flathead, ma non è così: lui è stato una fuga, una bellissima fuga dalla tua vita e questo non è giusto. Lui ti ama davvero, lui si merita di essere amato per davvero, non di essere una via di fuga”
“Sei pazza” gridai di nuovo: “Tu non sai quello che dici, a me piace davvero Floyd, mi piace tantissimo!”
“Certo che ti piace!” gridò lei: “Saresti stupida se non ti piacesse, piacerebbe anche a me se avessi trent’anni di meno! Ma non lo ami, non veramente e staresti solo male con lui, lo faresti soffrire”
“Io non voglio farlo soffrire! Era felice con me e io voglio che lui sia felice, sempre! E che lo sia per merito mio, con me, con me, hai capito??” ero disperata, a quel punto, in preda al panico e rabbiosa come una tigre ferita e non trovavo altro modo per gridare il mio dolore che gettarglielo in faccia.
Le gridai tutte le peggiori cattiverie che si possano dire, cercai nella memoria ciò che di più brutale avessi sentito contro il suo Popolo dalla peggior gentaglia, e ancora non mi pareva abbastanza.
Le scappò un mezzo sorriso quando le gridai “parassiti, non pagate le tasse”…era così ridicolo da non essere lontanamente credibile.
Né lei né Jack si scomposero. Mi lasciarono urlare, spaccare e lanciare oggetti, limitandosi, quando era il caso, a spostarsi.
Alla fine scappai nella mia stanza e piansi fino a non avere più forze.
Non discesi a pranzo, né loro mi chiamarono.
Era quasi sera quando arrivò mio padre a portarmi via.
Sedette sul letto accanto a me in silenzio, restò lì per un po’, senza parlare, poi terminò di preparare le mie cose, portò in macchina la valigia e mi prese delicatamente per un braccio.
Non vidi né Maggie, né il vecchio.
Non parlammo finché, un paio di ore dopo, mio padre mi propose di fermarci a cenare e prendere una stanza in un motel lungo la strada. Non avevo voglia di mangiare, ma papà aveva guidato tutto il giorno e forse non si era nemmeno fermato per pranzare, così non protestai: sapevo che, se glielo avessi chiesto, avrebbe continuato a guidare fino a Boston.
Con una fitta di dolore, mi resi conto che avrebbe fatto la stessa cosa anche Floyd.

A tavola mi costrinse a mangiare una minestra calda, andò a telefonare a mamma, probabilmente anche a Maggie, poi tornò a sedersi di fronte a me, mesto: “Anche io speravo tanto che andasse bene, Marabel” disse.
Aveva la voce stanca e amara. “Per un po’ mamma e io abbiamo sognato che tu potessi avere una vita felice, dei bambini, che tu potessi dimenticare e costruire un tuo nuovo mondo. Mi piaceva un sacco quel ragazzo, anche se gli ho parlato pochi minuti e…e non si può dire che lo abbia visto in faccia. Non deve essere niente male sotto quella vernice, eh?”
No, niente male davvero, pensai con un dolore così grande che quasi mi parve di svenire.
Eppure, il problema non era quanto fossero belli ed eleganti i suoi lineamenti, avrebbe potuto essere il principe rospo prima della trasformazione e per me sarebbe stato lo stesso. Floyd era perfetto, comunque ed in ogni caso.
Non avrei più visto la luce dei suoi occhi, non avrei più rivisto il suo sorriso disarmante. Quanto avevo sognato di intrecciargli i capelli, appena fossero ricresciuti un po’!
“Non amerò mai più nessuno!” farfugliai.
Papà sorrise triste: “Oh, si. Succederà perché è già così da tanto tempo. E allora dimenticherai tutta la pena che hai dovuto affrontare.”
Ne dubitavo: mi sentivo svuotata. Dentro di me non c’era che buio, un’oscurità senza confini e senza speranza. Come aveva potuto lasciarmi in quel modo? Forse ora stava ridendo di me con il suo amico Mohawk, forse mi aveva già dimenticata, magari erano fermi in qualche locale a mangiare e divertirsi e stavano corteggiando qualche ragazza in abiti country…
“Se avesse aspettato un solo altro giorno, non sarebbe più stato in grado di andarsene” disse mio padre dal centro della terra: “È stato molto coraggioso, ti ha fatto il regalo più grande che potesse farti.”
Lo guardai inebetita. “Non capisci, Marabel? Non potendo cancellare il suo…il suo rivale, ti ha liberata uccidendo se stesso.”
“Ma lui non si è ucciso!” esclamai terrorizzata: “Non fisicamente, no. Non ti avrebbe costretta a portare un fardello simile. Si sforzerà di vivere e lo farà per te, anche se tu non sarai lì a vederlo. È forte abbastanza per farcela. Andrà bene.”

Riuscii finalmente a presentarmi alla polizia, a chiarire la mia e la loro posizione: avevo alibi per molti degli episodi che i calunniatori mi avevano attribuito, e quelli per cui non ero in grado di presentarne caddero trascinati dalle incongruenze e dallo sgretolarsi degli altri. Fui scagionata del tutto e lo furono Maggie e Robert, anche se Robert rimase sorvegliato dall’FBI.
Quanto al vecchio Jack, non era che un vecchietto di novantasei anni un po’ suonato: non so se lo controllassero, ma se lo fecero non penso se ne sia mai curato.
Un ragazzo Mohawk canadese, che non avevo mai visto, ora era segnalato alla polizia di Boston per un fatto che, alla fine, si era sgonfiato come un palloncino.
Forse, un domani, quell’episodio avrebbe potuto pesare sulla sua fedina penale, ma pareva che la cosa non lo toccasse: era un attivista, per quanto fosse perfino più giovane di Floyd e non gli fregava un tubo degli sbirri, come disse quando venne a sua volta a costituirsi.
Era un bel ragazzo, dal viso elegante che in effetti ricordava un po’ Floyd, riservato, critico e con quell’espressione molto Mohawk che sembra dire: “Tu, piccolo mortale, spostati, IO sono Mohawk!”
A dire il vero era pure simpatico, determinato, dall’intelligenza acuta e con un che di sornione in un senso dell’umorismo pungente di ironia che avevo imparato a conoscere.
Una bella persona, sicuramente, niente da dire.
Ma non era Floyd. Ovviamente.

Chiusa la questione denuncia, volli a tutti i costi allontanarmi da Boston.
Non avevo mai sopportato New York, ma ora il suo caos privo di spazi di silenzio mi faceva bene, mi rendeva meno, poco meno, insopportabile l’essere al mondo.
Quando i miei non c’erano era meglio, dal mio punto di vista: potevo lasciarmi andare alla mia mancanza di voglia di vivere, precipitare nell’abbruttimento e nella disperazione senza che nessuno mi controllasse.
Avevo avuto un posto part time al museo, nella stessa squadra di mio padre, e il tempo in cui non ero al lavoro lo trascorrevo camminando senza meta per la città, indifferente a tutto, o in casa, al buio.
Nei primissimi giorni in cui mi trovavo laggiù da sola, presi il coraggio di chiamare nel Montana.
Era ormai novembre e laggiù era venuta giù un bel po’ di neve: sicuramente non sarebbe stato lontano da casa.
Mi rispose una voce femminile molto giovane: esitai, mi schiarii la gola, perché avevo la bocca assolutamente secca ed ero incapace di articolare parole corrette: “Chiedo scusa, mi chiamo Marabel…io…vorrei parlare con Floyd, per piacere”
Ci fu un attimo di silenzio gelido: “Floyd non c’è” disse la voce, tagliente di ostilità: “Quando posso trovarlo?” sussurrai sforzandomi di far uscire le parole avviluppate dentro il nodo che mi soffocava: “Non c’è e basta!” rispose la ragazza. “Ti prego!”gridai prima che potesse attaccare: “…sei Bianca, vero?”
Forse la spiazzai, se stava per attaccare non lo fece: “Sai, Floyd mi ha parlato tanto di te, che mi pare di conoscerti. Dice che sei molto brava a scuola e…e anche che tua nonna ti ha insegnato a sparare. È così?”
Esitò: “S…si…”
Nonostante tutto ero riuscita a guadagnarmi qualche secondo prima che mi sbattesse giù il telefono: “Ti prego, dimmi quando posso trovarlo, ho bisogno di parlargli, tanto!”
“No. Gli hai già fatto abbastanza male.” Rispose con la durezza dei suoi diciassette anni. “Lui non c’è, e comunque non vuole parlare”
“Io non gli ho fatto niente!” gridai tra le lacrime: “Io non lo so cosa sia successo, credimi! Io voglio stare con lui, voglio che sia felice, voglio essere felice con lui! Ti prego, credimi, ti prego!”
Sono apparentemente tanto duri, i ragazzi, a diciassette anni, ma sono anche fragili e nascondono la loro sensibilità dietro muri aggressivi. Non attaccò, restò ad ascoltarmi confusa.
“Mio fratello è disperato. È partito che stava bene, era allegro, è tornato frantumato in mille pezzi, è irriconoscibile. Come fai a dire che non gli hai fatto niente?” Aveva la voce incrinata dalla rabbia e dal dolore, forse anche lei stava per piangere.
Un attimo dopo sentii un movimento, qualcuno prendere un respiro come per farsi forza: “Mary?”
Sentire la sua voce mi fece scoppiare nuovamente in lacrime: “Floyd! Ti prego, perché lo hai fatto, cosa ti ho fatto? Perché mi fai questo? Non ce la faccio, sto male, non puoi capire quanto sto male!”
“Lo so” rispose dolcemente.
“Ma allora perché? Ti prego, torna, no, vengo io, vengo da te anche ora, cerco un aereo, un treno, qualsiasi cosa, fammi venire lì da te! Dovevi portarmi al tuo capanno, ricordi? E…e aspettare la primavera insieme, abbracciati davanti al fuoco! Floyd, ti prego, fai che accada davvero!”
Silenzio. “Non è possibile.”
“Perché? Se io sto male e tu stai così male come dice tua sorella, allora cosa stiamo facendo? Chi è stato a convincerti? È stata Maggie? Non vuole che stiamo insieme, è così?”
Un paio di respiri a soffocare la disperazione: “No, non è stata Maggie.”
Restai zitta io, ora. Nonostante le parole di mio padre, due settimane prima, ero ancora convinta che qualcuno, dal di fuori, stesse cercando di separarci: non potevo accettare che Floyd mi avesse lasciata per sua volontà e la sua affermazione, così diretta e quieta, mi spiazzava completamente. Cercavo di raccapezzarmi, ma non ne ero capace: “Floyd…cosa ti ho fatto? Dimmi cosa ho fatto di male, aiutami a capire, perdonami!”
“Non hai fatto niente, Mary, non è colpa tua! Io…io ho fatto un casino! Sono io che sono da prendere a calci! Dovevo andarmene subito, appena arrivata Maggie, non sarebbe successo niente, ma io ho voluto restare, ho voluto prendere qualcosa che non era mio, Mary! Ho fatto un  casino, ho fatto davvero un gran casino!”
Non sapevo cosa dire: la gola mi faceva un male terribile, non riuscivo a piangere, né a parlare. Mi accorsi di battere i denti come stessi gelando, mi sforzai: “Io voglio te, Floyd! Voglio stare con te, voglio stare con te per sempre!” biascicai a fatica.
“Marabel…io ti amo” mi sorprese, ero così confusa che non risposi.
Lui attese un lungo istante: “Io ti amo, Marabel” ripeté. Cercai di dire qualcosa, ma le parole non riuscivano ad uscire, emettevo solo dei suoni inarticolati nello sforzo di parlare.
Il silenzio, questa volta, fu più lungo: “Io ti amo, Marabel” ripeté un’ultima volta. “F…Floyd…” lui attese, attese a lungo. Poi lo sentii sospirare, rassegnato:
“Non chiamarmi più, ti prego. Se mai un giorno dovessi…beh, io sarò qui. Ma altrimenti, non cercarmi mai più.”
Stava per riattaccare: “FLOYD!!” gridai, perduta. Si fermò, attese ancora: “Io…io…” e, improvvisamente, mi accorsi che quelle parole non uscivano. Per quanto le volessi gridare, restavano lì, a metà della mia gola, strangolandomi.
“Ti auguro ogni bene, Mary” e poi sentii il click che interrompeva la comunicazione.
Crollai a terra, piansi e picchiai i pugni sul pavimento, gettai via il telefono, restai là, a fissare il vuoto finché si fece buio.
************************   
Passò l’inverno, marzo si affacciò su New York gelido e capriccioso, accompagnato da venti glaciali che costringevano a camminare curvi strizzando gli occhi.
Un pomeriggio, uscendo dal Met, riconobbi una sagoma appoggiata al muro, in attesa. Mi guardai attorno cercando una via di fuga, inutilmente: non potevo evitarlo.
Lui era là, con le lunghe trecce brune, spesse da fare invidia, un cappellaccio nero da cow boy, occhiali da sole, un giubbotto di renna o qualcosa che le somigliava, le mani in tasca e l’espressione vagamente annoiata. E guardava verso di me.
Mi venne incontro mentre mi avvicinavo, colsi con la coda dell’occhio lo sguardo incuriosito e un po’ invidioso di un paio di donne di passaggio. “Ehh, già, Cheyenne warrior…sapeste! È davvero Cheyenne!” pensai ironica.
“Come butta?” chiese senza preamboli.
“Che ci fai qui?” risposi di rimando, tenendo gli occhi istintivamente bassi per non dover incontrare il suo sguardo, per quanto celato dietro le lenti.
“I tuoi sono preoccupati. Anche noi lo siamo. Che diavolo combini?”
“Non mi frega un accidente della vostra preoccupazione!” sbottai. Lui mi afferrò un braccio, strinse perplesso, sgradevolmente sorpreso: “Quanti ca*** di chili hai perso?”
“Non sono affari tuoi!”
“Dai, Marabel! Dobbiamo parlare e tu devi mangiare, adesso!” mi scrollai dalla sua stretta, piuttosto sgarbata: “Falla finita, Robert! Levati di torno, non voglio avere niente a che fare con voi!”
“Lo sai che non è stata colpa nostra! Smettila di fare la bambina!” Non avrebbe dovuto dirlo: mi sentii montare la rabbia, alzai una mano per mollargli uno schiaffone, ma lui mi afferrò il polso: “Adesso vieni con me!” ringhiò trascinandomi via.
Pensai di gridare, fingendo che mi stesse importunando, poi mi resi conto che un impiegato del Metropolitan ci osservava: un tizio che non sopportavo, che non perdeva occasione per insultare e disprezzare gli indiani, snob, ignorante, sgradevole.
E Robert era segnalato come soggetto pericoloso.
E di sicuro la storia di settembre sarebbe tornata a galla.
E, in ogni caso, lo avrebbero linciato: non era un uomo, era uno stupido indiano che importunava una donna bianca e aveva pure la faccia tosta di essere ben vestito e tirato a lucido, che vergogna!
Socchiusi gli occhi, messa all’angolo: “Me la paghi!” sibilai e mi avviai camminando al suo fianco.
Lui si voltò, rivolse all’impiegato che ancora non gli toglieva gli occhi di dosso un sorriso radioso, si toccò il cappello in segno di saluto, mi mise un braccio attorno alle spalle, apparentemente protettivo, forse più per evitare che tentassi di svignarmela e mi condusse lungo una via secondaria, meno trafficata, tra piccoli cumuli di vecchia neve ghiacciata e annerita di smog.
Poco dopo eravamo in un piccolo e raffinato locale italiano, in un angolino discreto: “Carlo ci prepara qualcosa di sostanzioso e tu mangi tutto, fino all’ultimo boccone, altrimenti potrebbe offendersi, sai, e io non ho nessuna voglia di fare figuracce…ah, non sopporta le donne anoressiche”
“Ma sono le tre! E io non sono anoressica!” risposi. “Forse no, ma ci stai lavorando e ti ci applichi pure. E comunque non hai pranzato, quindi è ora di pranzo!”
Mi costrinse a mangiare gnocchi di patate, di quelli chiamati “alla bava”, con formaggio disciolto che faceva fili deliziosi quando si sollevava uno gnocchetto dal mucchio. L’omone che ce li servì ebbe cura di controllare che finissi fino all’ultimo la doppia porzione che mi aveva schiaffato nel piatto: “Non preoccuparti, cicci, Carletto non vi fa pagare doppio, sai?” Robert osservava soddisfatto: “Me la devi ingrassare di almeno cinque chili” disse sornione.
Non mangiavo decentemente da quattro mesi e mi accorsi di avere fame, ma il mio stomaco sembrava essersi ristretto, rigidamente chiuso nella morsa che non mi abbandonava da fine ottobre e ora tirar giù tutto quel ben di Dio mi costava fatica.
Poco dopo Carlo ci portò due pacchi avvolti in carta oleata e li mise in una borsa: “Ecco, Rob, prendi una padella fonda, la scaldi bene con un coperchio e poi ci metti la roba dentro cinque minuti, a fuoco quasi minimo, non hai nemmeno bisogno di far scaldare il forno”

Robert pagò sorridente, salutò Carlo e un paio di altre persone e mi trascinò via: “Uuh, ha messo anche la crostata! Qui abbiamo merenda e cena e tu mangerai tutto. Pollo allo spiedo con patatine novelle al rosmarino. Come lo fa lui, non lo fa nessuno!”
Avevo faticato a finire gli gnocchetti, ma il profumo che usciva dalla borsa mi stordiva. Non avevo dubbi che fosse eccezionale e io adoravo il pollo allo spiedo, Robert lo sapeva. “Vuol dire che ceneremo alle dieci…” sospirai rassegnata.

Mi obbligò a fare una doccia molto calda, mi fece vestire con abiti morbidi che gli aveva dato mia mamma e poi sedette mollemente sul divano: “Abbiamo pensato molto in questo periodo. Due anni fa hai dovuto interrompere per non impazzire, ma la pausa è durata fin troppo, devi tornare ad affrontare ciò che rimane da scoprire, anzi, noi…” prese fiato, soppesando le parole: “…Floyd pensa che dovresti indagare su altro, su altri momenti dell’esistenza. Altre vite. Prima, dopo, non importa, ma altro.”
Sentire nominare Floyd mi fece salire una nausea da panico incontrollabile, ripresi a tremare come nei miei giorni più bui: “T…tu hai p…parlato con lui?” chiesi in un soffio.
“No. Nessuno parla con Floyd, ora, a parte suo nonno. E sua nonna, anche lei lo vede.  Floyd e io avevamo parlato prima...prima della tua telefonata, al suo rientro a Flathead. Ero nel South Dakota e l’ho raggiunto un paio di giorni dopo.”
Non capivo: nessuno parlava con lui, ora? “Come sta?” trovai il coraggio di chiedere. Lui fece una smorfia, afferrò un pile, me lo lanciò addosso e mi ci arrotolò dentro, poi si sistemò sul divano in modo da avermi di fronte: “Quando l’ho visto io era uno straccio, ma sta bene, adesso. La sua Gente ha cura di lui.”
“Adesso? E che significa che nessuno parla con lui ora?”
“Uff…dopo la tua telefonata ha dato di matto. È scappato, se n’è andato sulle montagne e ci è rimasto fino a un paio di settimane fa.”
"Sulle montagne? Per quattro mesi? Da solo? D’inverno?”
“Sssi, si, si, si! Marabel, Floyd non si spaventa per un po’ di neve e sa pescare, cacciare, cucinare, fare tutto ciò che occorre per sopravvivere e lo sa fare bene. Non è un cittaducolo bianco rammollito, che diamine, dovresti saperlo! Floyd è forte!”
“Ma perché?!?” strillai.
“Perché voleva stare da solo, non voleva vedere nessuno e…e, va beh, te l’ho detto, ha dato un po’ di matto. Poi, però, la fatto a botte con un orso e ora è…”
“COSA HA FATTO?!?”
Sbuffò: “Dai, Marabel! Non è successo niente, davvero, gli rimarranno un paio di segni sulla schiena, ma sta bene!
È che fuori dalla Riserva hanno fatto brillare delle mine per una frana controllata, un paio di settimane fa e  l’orso doveva avere la tana lì vicino, così è stato disturbato. Sai, tendono ad essere un tantino irascibili se li svegli durante il letargo. Secondo gli Anziani, l’orso gli ha fatto bene, gli ha, come dire…” si interruppe.
“Gli ha cosa?” lo incalzai.
“Beh, gli ha dato uno scossone. Ne aveva bisogno. Insomma, non è che proprio abbia avuto cura di sé, in questo periodo.” Non risposi, mi limitai a guardarlo con fiamme dagli occhi.
“Senti, d’accordo, lui è stato sulle montagne, ha vissuto di pesca, caccia, ha dormito dove trovava, a volte in rifugi di cacciatori, a volte in anfratti, a volte in buchi scavati nella neve, va bene, è che non voleva che lo trovassero!  Praticamente tutta la Riserva gli dava la caccia: volevano riportarlo a casa, ma lui si sentiva così, sai, braccato, e scappava. È molto abile, davvero, a nascondere le tracce e camuffarsi, un guerriero di vecchio stampo! I suoi nonni hanno fatto un ottimo lavoro!”  disse con un sorriso compiaciuto: “Un vero selvaggio!”
“Smettila di fare il cretino, voglio sapere cos’è successo!”
“Beh, non è che ne sappiamo granché, i nonni Salish sono gli unici che lo vedono, a parte un suo amico che lo ha trovato…insomma, in questi mesi anche lui si era debilitato, però continuava a nascondersi. Un paio di volte hanno trovato tracce di sangue e…NON FARE QUELLA FACCIA! Probabilmente erano prede! Comunque, in quei casi, si riusciva a seguirlo per un po’, ma poi lo perdevano.
Cannocchiali, auto, nemmeno i cani riuscivano ad acchiapparlo! Poi è successa questa cosa con l’orso, si è preso una zampata sulla schiena e, non riuscendo a medicarsi, gli è venuta la febbre, si è indebolito e così si è diretto verso una strada forestale dove il suo amico lo ha trovato..ora che ci penso, era finito in acqua…beh, almeno ha seminato l’orso.
Lo ha medicato, poi, siccome lui non voleva andare in ospedale, lo ha portato di peso dai nonni, che lo hanno curato e rifocillato. Ora in un posto sacro, un posto di famiglia, insieme a suo nonno. Non ho idea di dove sia, solo la nonna lo sa e porta loro provviste e quello che occorre. Credo stia completando la sua formazione come Sci…Med…Stregone. Uff, che ragazzo complicato!”

Aveva rischiato la vita, ed ero certa che Robert non mi stesse dicendo tutto! Mi sentii mancare: “Voglio vederlo! Portami da lui!” lo implorai.
“No, Marabel. Non ti porto proprio da lui, nemmeno se mi minacci di morte. Lascialo in pace, lascia che continui la sua strada, che guarisca. Il peggio è passato, ora si riprenderà la sua vita, sarà più forte e questo, questa cosa che è successa, lo renderà migliore, in grado di comprendere il dolore degli altri più di prima. Sarà un grande Sccciitregone. Oh, che diavolo, sarà un grande Medicine Man, ecco! Non mi interessa se la parola non gli sconfinfera!”

In un altro momento mi sarei messa a ridere, ma non in quello: Floyd era scappato sulle montagne, in pieno inverno, aveva rischiato l’assideramento, per quanto Robert lo escludesse, l’inedia, si era perfino trovato in un corpo a corpo con un orso strappato al letargo ed era finito nell’acqua ghiacciata, tutto per causa mia e ancora non volevano portarmi da lui: “Ma non vedi che sta male? Perché non mi porti da lui? È tutto quello che voglio, ed è quello che vuole anche lui, perché dovete essere così crudeli?” implorai ancora.
Robert parve sorpreso, mi guardava come non potesse capire il mio punto di vista: “Che dici, Marabel? Nessuno è crudele! Floyd non vuole che tu vada da lui…ascolta, Bianca ha sentito la conversazione, quel giorno, e io so che lui ti ha detto chiaramente di non cercarlo più…dimmi, chi è crudele?”
“Ma non è quello che vuole veramente!” sbraitai esasperata.
“Scusa, ma…se non è quello che vuole…spiegami perché diavolo te lo avrebbe chiesto! Se non è quello che vuole, perché se ne sarebbe andato nel cuore della notte?”
Non sapevo rispondere, non capivo. Da mesi mi struggevo nel tentativo di capire: mi aveva ripetuto tre volte di amarmi, sapevo che stava soffrendo come un cane, eppure non mi voleva. Perché?

“Che strana gente, siete, Marabel…davvero, a volte mi pare che non abbiate idea di cosa sia la logica, fate di rado quello che veramente vorreste e vi incasinate in situazioni senza uscita, da soli. E poi trasferite su di noi le vostre ragioni insensate. Floyd non se ne sarebbe andato se non lo avesse voluto, sai? Non è scemo. Non di solito.”
“Io non capisco…” riuscii a tirar fuori.
Lui mi abbracciò, paziente: “Eppure è semplice. Floyd sapeva fin dall’inizio, dalla sera della Cerimonia, chi tu fossi e a che cosa o a chi appartenessi, ma c’è stato un imprevisto: si è preso una cotta mostruosa per te, una di quelle senza ritorno. E quando si è reso conto di piacerti, pur sapendo a cosa andava incontro, ha deciso che valeva la pena di bruciarsi. Sapeva che si sarebbe fatto molto male, sapeva che il suo cuore si sarebbe sbriciolato, ma non gli importava: ha voluto affrontare quel cammino a qualsiasi costo.
Sapeva che, se non avesse giocato il tutto per tutto, lo avrebbe rimpianto per sempre.
Solo che, vedi…non aveva calcolato che tu potessi provare sentimenti così forti per lui: era certo che, un giorno, lo avresti lasciato per tornare alla ricerca dell’altra parte della tua anima e, quando fosse successo, lui non avrebbe fatto niente per trattenerti, grato per quel pezzo di te e della tua vita che aveva avuto. Sarebbe morto dentro, ma in silenzio, perché quella era la sua scelta. Lo avrebbe accettato.
Ma non è andata così: tu ti sei aggrappata a lui come ad un’ancora e ti stavi distruggendo nel conflitto tra lui e l’altro. Un altro molto anomalo, naturalmente, ma sempre l’altro. Mi ha detto di aver ascoltato i tuoi sogni e i tuoi pensieri per tutto il tempo che siete stati insieme. Tu eri nella sua mente, ma lui non era nella tua. Tu eri nel suo cuore, ma lui non era nel tuo. Lui vedeva e sentiva ogni cosa, tu eri lontana e non sapevi sentire.
Soffrivi, troppo, lui ha capito che avresti finito per ammalarti e ha fatto l’unica cosa che poteva fare.
Non vuole vederti perché sa che questo è sbagliato per entrambi, ma soprattutto per te e poi sa di doverti dimenticare, o meglio, dimenticarti no, non lo farà, ma deve lasciarti indietro e andare avanti. Doveva chiudere questa storia prima che fosse troppo tardi, ma era già troppo tardi.
Non ti dimenticherà e non rimpiangerà mai di averti incontrata, per quanto male possa fare. Lui ti terrà nel suo cuore, per sempre.
Non la smettiamo mai di essere romantici e ci bruciamo come polli. Questo amore lo ha trascinato via, lo ha reso cieco, lo ha rivoltato come un calzino, ma  poi è tornato in sé e ha fatto ciò che era giusto.
Volevi capire se i tuoi ricordi e i tuoi sentimenti fossero reali o meno: se non lo fossero stati, tutto si sarebbe disciolto come neve al disgelo, ma se fosse stato vero, il rischio era di avere esperienze ancora più forti ed è quello che è successo. La Cerimonia ha funzionato, hai la tua risposta. Floyd non può liberarti da queste visioni, dai ricordi, dalla presenza di quest’uomo, però poteva liberarti da se stesso. Ti è chiaro, ora?”
“Io so che sto male e lui sta male. E che tutto è terribilmente ingiusto!” sbottai.

Sapevo che Robert aveva ragione, ma non potevo accettarlo: come poteva il destino, o che diavolo era, accanirsi in questo modo? Mettermi sotto il naso la cosa più bella e più dolce che si possa immaginare e poi, scherzetto, portarmela via dopo appena un assaggio?
Era beffardo, era assurdo!

Gettai le braccia al collo di Robert e scoppiai a piangere, inconsolabile.
Lui mi tenne stretta, incurante del mio mascara che si scioglieva sul suo maglioncino celeste: “È incredibile, vero? Ci facciamo tanto più male a vicenda, quanto meno lo vogliamo. Ci facciamo un male tale che non arriveremmo a farci in nessuna guerra” lo sentii sussurrare.
Percepii un abisso, tra me e quell’uomo, un abisso che mi diede le vertigini, e compresi di essere stata io a scavarlo, il giorno in cui avevo gettato tutto il mio dolore rabbioso addosso a Maggie, Jack e tutti loro: quell’equilibrio delicato che tutti noi avevamo curato con tanta dedizione, si era sgretolato nella violenza delle mie accuse.
Nessuno di loro era arrabbiato con me, né lo furono mai.
Sapevano che le mie parole erano state rubate ad altre bocche, cercate apposta perché potessero far male, ma non mi appartenevano.

Si dice che, quando si è arrabbiati, si dicano cose che non si pensano, ma, nel novantanove per cento dei casi, è esattamente il contrario: nella rabbia, come nel vino, esce la verità, si dicono le cose più recondite, quelle che non si vorrebbero mai dire, ma che segretamente si pensano, le più vere.
Poi c’è quella volta su cento, o su mille, in cui si cercano parole feroci apposta per gridare aiuto, per farci sentire al di sopra del frastuono e del dolore, perché sono le uniche abbastanza forti da far provare a chi ci è di fronte lo stesso male che proviamo noi.
Loro sapevano che quella era stata una di quelle volte, ma, nonostante questo, io avevo scavato un solco che non saremmo più riusciti a colmare, in seguito. Avevo conficcato un coltello in una ferita aperta e riaperta così tante volte, che ora non poteva smettere di sanguinare.
Non riuscii mai più a sentirmi, insieme a loro, a mio agio e completa come prima, tanto che, anni dopo, finii per perderli.
Piangevo abbracciata a Robert e nello stesso tempo mi mancava, mi mancava come manca l’aria.”


  (...continua Pagina3)

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